Diario di un pilota del 4°Stormo
Prima parte: 1931 – 1937

“Congedato!” fu la parola, rivoltami dall’Ufficiale dell’Ufficio del Personale dell’aeroporto di Napoli Capodichino il 13 gennaio del 1959, giorno successivo al mio 46° compleanno, che pose fine alla mia carriera. Congedato dal servizio attivo di volo per raggiunti limiti di età dei Sottufficiali Piloti. Ero stato convocato dal Comandante col. Riccardo Folinia e dal magg. Malfitano. Il Comandante mi aveva fatto accomodare nel suo ufficio cercando di convincermi che non avevo più l’età per volare, ma preferii il congedo. Con il mio carattere, stare a terra e osservare gli altri volare sarebbe stata una sofferenza. Amavo il volo ed avrei voluto essere assegnato ad un Gruppo Operativo. Finire in ufficio a riempire moduli, non faceva per me! Dopo 29 anni trascorsi tra gli aerei, la mia casa, la mia vita era lo Stormo. Fuori dalla palazzina Comando, appena messa in moto la mia vecchia FIAT, una formazione stretta di quattro Vampire DH-100 attirarono la mia attenzione; scesi per guardarli. Picchiarono verso il piazzale, sorvolarono con un lacerante sibilo la palazzina e subito dopo cabrarono bruscamente iniziando un looping seguito da un perfetto tonneau lento. Mi pervase una strana sensazione e mi vennero le lacrime agli occhi. Era una sofferenza stare lì a guardare, tornai a casa guidando quasi in trance. Mi diressi in camera da letto senza salutare Maria e il piccolo Antonio. Maria capì subito che c’era qualcosa di strano nel mio comportamento, mi raggiunse e, senza dire una parola, mi diede un bacio sulla guancia e mi accarezzò i capelli, poi tornò in cucina a preparare da mangiare per Daniele e Sergio. Mi tolsi la divisa, la distesi con cura sul letto, posai vicino la busta con il congedo. Indossai il pigiama e mi sedetti sul bordo del letto, accesi una sigaretta. Il mio sguardo si posò sulla divisa, la divisa della quale andavo fiero, che avevo portato per molti anni e che mi aveva dato tante soddisfazioni. Sfogliai i fogli del congedo che testimoniavano la mia vita trascorsa tra gli splendidi compagni di quell’Aeronautica Italiana che era stata per me come una seconda madre. Rivedevo i volti di decine e decine di piloti del mio Stormo, molti dei quali erano come fratelli. Seduto, lo sguardo al soffitto, tornai indietro con il pensiero al 1931 quando iniziai a volare e al 1933 quando arrivai in Italia senza conoscere nessuno e senza sapere neppure una parola d’italiano. A sedici anni ero già seriamente intenzionato ad arruolarmi nell’U.S. Navy perché non intendevo fare il barbiere come mio padre ma, essendo minorenne, serviva la sua autorizzazione. Appena maggiorenne mi presentai all’Ufficio Reclutamento dell’U.S.M.C. (U.S. Marine Corps) di New York. Tutto procedette bene fino a quando riscontrarono che ero alto soltanto “5 piedi e 6 pollici e mezzo” (165 centimetri). L’ufficiale medico era dispiaciuto ma purtroppo l’altezza minima era di “5 piedi ed 8 pollici” (172 centimetri). Non potevo essere arruolato nel U.S.M.C. Ero proprio demoralizzato, e decisi di fare qualunque lavoro pur di mettere da parte qualche dollaro per imparare a volare. Iniziai aiutando mio padre nel negozio di barbiere ed in poco tempo diventai talmente esperto e richiesto che le mance erano maggiori della paga. In inverno trovai un lavoro nella Metropolitana di New York, iniziavo alle 5 del mattino e finivo alle 17, dodici ore al giorno, sei dollari al giorno, 36 dollari alla settimana. Tre volte alla settimana andavo anche alle scuole serali mentre negli altri giorni aiutavo mio padre in negozio. In meno di due anni riuscii a mettere da parte qualcosa come 2200 dollari.

City Island – New York
Nell’ottobre del 1931 mi reco all’aeroporto di “Flushing”, nel Queens, per informarmi sul costo delle lezioni di volo con Bob Peterson, un compagno di scuola che già frequentava il locale Aeroclub. Mr. Brimm, direttore e proprietario della Scuola di Volo, mi dice che per un’ora di “doppio comando” occorrono 22 dollari mentre per un’ora da solista (senza istruttore) ne sono sufficienti 15. Mi accordo per iniziare le lezioni al più presto. Bob nel frattempo ha terminato il suo volo e, sulla via del ritorno, mi suggerisce di impegnarmi per decollare da solo al più presto e risparmiare così sul costo. Tre giorni dopo mi presento in aeroporto e comincio il corso su un piccolo aereo, un “American Eaglet” con un motore a tre cilindri a “Y” rovescia, sul quale riesco a decollare da solo dopo due giorni e dopo 4 ore e 35 minuti di volo a doppio comando. Dall’altra parte della baia c’è un “Air Show” per l’inaugurazione del “North Beach Airport”. Non voglio perdere la manifestazione e ci vado insieme a Bob. Noto un cartello con la scritta “Metropolitan Flying Club” e dico a Bob che voglio andar a vedere che tariffe praticano per i loro velivoli. Mi presento al presidente dell’Aeroclub, Mr. Garagan, e al Capo Pilota Istruttore, Mr. Solberg. Mi dicono che debbo iscrivermi al Club se voglio volare con i loro aerei, dispongono di velivoli un po’ più moderni, un migliore campo di volo e oltretutto praticano tariffe più basse. Spiego che, tra doppio comando e “solo pilota”, ho sette ore di volo e che ho bisogno di effettuarne altre. Solberg mi invita a seguirlo nell’hangar; hanno due “Piper Cub” e due “Fairchild 22” entrambi nuovi fiammanti, vedendoli decido di continuare a volare nel loro club e possibilmente con il Fairchild 22. Andiamo nell’ufficio di Garagan, pago la mia quota d’iscrizione al Club e rimaniamo d’accordo che ritornerò dopo un paio di giorni. Purtroppo seguono diversi giorni di tempo avverso e ritorno al “North Beach Airport” dopo una settimana, senza l’amico Bob che non si sente bene. Entro nell’ufficio di Solberg, e lui mi saluta con un “Hello Vincent” che mi mette subito a mio agio. Andiamo alla linea di volo e ci fermiamo davanti al primo dei due Fairchild. Mi fa salire e mi rivolge alcune domande sugli strumenti e sul loro funzionamento, per poi sistemarsi nel posto di pilotaggio anteriore. Il motorista, che stava in disparte, si avvicina a Solberg e gli chiede qualcosa, poi si piazza davanti al muso dell’aereo ed esclama “Contatto!”. Solberg mi dice di inserire entrambi i “magneti” e di non toccare nulla se non istruito, il motorista dà un colpo all’elica e il motore si avvia subito, era già caldo! Rulliamo fino alla pista, debbo prendere i comandi e decollare. Do potenza gradatamente riuscendo a tenere diritto l’aereo in pista, quando sento che ho sufficiente velocità Solberg fa una leggera pressione a cabrare sulla cloche, tiro e siamo in volo. Lui si gira verso di me e con il pollice alzato mi indica che tutto va bene. Mi rendo subito conto che il Fairchild ha un motore più potente ed è più sensibile sui comandi rispetto all’altro aereo. Dopo circa due ore di volo prendo confidenza con il velivolo e Solberg mi dice che sono pronto per decollare da solo, prima però vuol farmi vedere come l’aereo entra “in vite” e le manovre corrette per uscirne. Decolliamo e saliamo a ottomila piedi (2400 metri), mi chiede di lasciargli i comandi e tenere la mano leggera sulla cloche per seguire le sue manovre mentre mette l’aereo in vite, prima con “tutto motore” e poi con il motore al minimo. Tira su il muso e lo mantiene alto al diminuire della velocità aumentando la pressione sulla cloche. La velocità è bassissima e, con la cloche “alla pancia”, l’aereo comincia a vibrare. Con una “pedalata” a sinistra Solberg butta l’aereo in vite. Ho la mano sulla cloche e subito dopo sento che Solberg spinge in avanti e fa pressione a destra sulla pedaliera. L’aereo ferma la rotazione e rimane con il muso verso il basso, in posizione quasi verticale. Solberg toglie motore e riporta l’aereo in volo orizzontale. Poi risaliamo nuovamente a ottomila piedi (2400 metri) e mi dice di ripetere quello che ha fatto lui. Tutto pare andare bene ma, dopo tre giri di vite, quando porto la pedaliera al centro l’aereo entra in vite dall’altro lato e ruota più velocemente. Solberg riprende i comandi e rimette l’aereo in linea di volo. Esegue alcune figure acrobatiche per verificare il mio senso dell’orientamento e infine esclama “Va’ all’atterraggio!” e mi cede i comandi. Dopo le acrobazie sono disorientato e ho perso per alcuni secondi i riferimenti al suolo, è la mia prima esperienza con l’acrobazia, ma ritrovo poco dopo il campo. Mi allineo con la direzione di atterraggio, tocco sui “tre punti” e rullo lentamente verso l’Aeroclub. Solberg mi chiede come mi sento, sono un po’ pallido ma tutto sommato sto abbastanza bene e non ho dato di stomaco né ho giramenti di testa, andiamo insieme nell’ufficio dell’Aeroclub per il debriefing. Il giorno seguente torno in aeroporto, Solberg mi fa fare qualche “riattaccata” e prima di allinearmi per un successivo decollo mi dice “Fermati e tieni i freni”. Scende dall’aereo e, per sovrastare il rumore del motore, grida “Fai attenzione che sarai più leggero. Attento alla velocità in finale, non meno di 65 mph. Vai!”. Decollo ed effettuo un circuito per portarmi all’atterraggio. Sto attento alla velocità ma finisco col ritrovarmi alto, e invece di mettere le ruote nel punto giusto della pista tocco circa a metà. Rullo per raggiungere nuovamente la posizione di decollo, do motore e mi porto di nuovo in circuito, eseguo due “riattaccate” e infine atterro. Mentre rullo verso l’Aeroclub vedo mio padre appoggiato alla staccionata, ci salutiamo con la mano, mi domando come mai sia venuto in aeroporto. Salto giù dall’aereo, mi avvicino e gli dico che ho appena decollato da “solo”, lo accompagno nell’ufficio dell’Aeroclub e gli presento Garagan e Solberg e pago il volo. Solberg si rivolge a mio padre e gli dice che sto andando molto bene, ho una buona predisposizione per il volo, ho decollato da “solo” prima di altri allievi e diverrò un buon pilota. Sulla via del ritorno chiedo a mio padre come mai è venuto a vedermi volare. “Volevo capire perché stavi prelevando i tuoi soldi dalla banca”, è la sua risposta. “In ogni caso sei padrone di fare quello che vuoi finché non fai debiti!”. Mi sembra alquanto seccato e non mi parla più fino a casa.

Il barbiere volante
Continuo a volare al North Beach e per risparmiare denari volo con il “Piper Cub”. Quando i miei amici e i clienti di mio padre vengono a sapere che ho decollato mi soprannominano il “Barbiere Volante”. Continuo a volare finché finisco tutti i risparmi, convinto che mio padre, vedendo i miei progressi, mi aiuterà almeno fino al completamento della licenza commerciale, ma ottengo una risposta molto secca: “Scordatelo! Non avrai un cent, guadagneresti più soldi facendo il barbiere e… sarebbe un lavoro più sicuro!”. Ci resto male e gli rispondo che questa estate non andrò ad aiutarlo e vado a cercarmi un altro lavoro. Nel frattempo scrivo a Washington D.C. per sapere se posso arruolarmi in Aviazione, specificando che ho già oltre cinquanta ore di volo. Rispondono che debbo prima arruolarmi nell’U.S. Army (Aviazione dell’Esercito) e poi, se ho almeno due anni di “College Education”, e supero gli esami psico-attitudinali e teorici, posso entrare come allievo. Non ci penso proprio, è impossibile! Arrivo così all’estate del 1933, faccio il bagnino al “City Island Baths” e metto da parte circa 50 dollari alla settimana più qualche dollaro extra, aiutando il “locker boy”. Comincia così a maturare in me l’idea di andarmene da casa.

Al consolato italiano di New York
Al termine dell’estate, alla fine della stagione balneare, il generale Italo Balbo arriva in volo con la sua formazione di Savoia Marchetti prima alla Fiera Mondiale di Chicago e poi, sulla via del ritorno, a New York. La prima settimana di settembre, leggendo sui quotidiani i resoconti delle imprese della Formazione (Armata Aerea) degli idrovolanti di Balbo, mi viene l’idea di recarmi al Consolato Italiano di New York per chiedere se è possibile, per i familiari degli emigranti, arruolarsi nell’Aviazione Italiana. Nella sala d’attesa un addetto mi chiede, in italiano, con chi desidero parlare e gli rispondo, in inglese, che vorrei avere un colloquio con il Console Generale. Dopo dieci minuti d’attesa il Console mi invita nel suo ufficio a spiegare il motivo del colloquio. Rispondo che desidero arruolarmi nell’Aviazione italiana, che i miei genitori sono italiani e che mia madre è deceduta quando avevo tre anni. Il Console mi fissa e, senza rispondere, preme il bottone sulla sua scrivania. Entra l’usciere al quale dice: “Accompagni questo signore dall’Addetto Militare, nel frattempo lo chiamo al telefono e gli spiego tutto”. Questo è quanto comprendo con il mio scarso italiano. L’addetto Militare è già informato, mi chiede perché voglio arruolarmi nell’Aeronautica Italiana, gli rispondo che sono figlio di genitori italiani e contemporaneamente gli porgo il libretto di volo con le ore registrate e autenticate dal Metropolitan Flying Club. “Vedo che hai già 50 ore di volo. Anch’io sono un pilota e amo il volo”, osserva, e aggiunge “qual è il tuo livello di studio?”. Rispondo che ho tre anni di Scuole Superiori. “È sufficiente per partecipare ai Corsi per Sottufficiali Piloti. In ogni caso, al momento non ho alcuna disposizione in merito a volontari residenti all’estero, debbo fare una richiesta specifica di istruzioni al Ministero a Roma”. Gli fornisco ulteriori particolari della mia vita, alla fine mi dice che scriverà a Roma e mi invita a ritornare tra tre settimane per una risposta. Lo ringrazio e mi congeda dandomi buone speranze per il Corso Sottufficiali Piloti dell’Aeronautica Italiana. Comincio a preparare le pratiche per richiedere il passaporto, che arriva da Washington D.C. dopo dieci giorni. Sebbene senta il desiderio di confidarmi con qualcuno, preferisco tenere segreta questa mia iniziativa. Quando ritorno, dopo due settimane, mi dicono che non hanno ricevuto risposta da Roma e di ripassare dopo altri dieci giorni. In questa attesa lavoro come verniciatore nel cantiere navale di Minneford e con i soldi guadagnati vado ad acquistare il biglietto di viaggio per l’Italia. Con passaporto, libretto di volo e biglietto torno al Consolato Italiano. La risposta da Roma non è ancora arrivata, chiedo di parlare con l’Addetto Aeronautico, il t.col. Vincenzo Coppola, e gli spiego che da due mesi faccio la spola al Consolato per avere una risposta che non giunge dal Ministero dell’Aeronautica. Sono pronto per partire tra quattro giorni con un biglietto di sola andata per l’Italia che gli faccio vedere insieme al passaporto, gli porgo anche il libretto di volo che apre e osserva attentamente. È sorpreso, per diversi secondi mi fissa senza parlare, “Lei è molto deciso quando vuole fare qualcosa!”, esclama. “Ma purtroppo non ho istruzioni da Roma”. Gli chiedo se può almeno prepararmi una lettera o un documento di presentazione con il quale mi possa recare dalla persona giusta a Roma. Constatata la mia seria intenzione di partire per l’Italia, mi chiede di seguirlo dal Console Generale. L’Addetto Aeronautico spiega dettagliatamente la mia situazione al Console e, con la sua approvazione, batte a macchina una lettera indirizzata al “Foreign Relations Office”, Ufficio Affari Esteri del Ministero dell’Aeronautica, e me la consegna. Saputo che sbarcherò a Napoli mi prega di salutare la sua città natale e mi congeda augurandomi buona fortuna. La stessa sera, tornato a casa, annuncio a mio padre e alla matrigna che tra quattro giorni partirò per l’Italia, questa notizia non se l’aspettavano proprio! Nei rimanenti giorni mio padre tenta inutilmente di convincermi a desistere dal proposito. Oramai ho preso la mia decisione, scrivo a mio fratello Carmine in Oregon, annunciandogli che sto per lasciare gli U.S.A. per l’Europa e vado a letto stanco ma soddisfatto.

In viaggio per l’Italia
Trascorro i quattro giorni che mancano alla partenza facendo gli ultimi acquisti e il 23 ottobre del 1933 mi imbarco dal molo 59, sulla “Vulcania”, la cui partenza per l’Italia è prevista verso mezzogiorno. Mio padre mi accompagna al porto e prima di imbarcarmi mi bacia, lo consolo dicendogli che andrà tutto bene e che lo terrò informato. La “Vulcania” salpa in perfetto orario e rimango sul ponte fino a metà Hudson, quando la nave mette prua verso l’Oceano. Ora sono davvero solo e debbo contare soltanto su me stesso. Il viaggio dura quasi due settimane, facciamo scalo e restiamo un giorno alle Azzorre, a Lisbona e a Gibilterra. Ci fermiamo anche ad Algeri, ma solo per caricare la posta, e infine a Palermo. Arriviamo a Napoli il 2 novembre alle sette del mattino, solo dopo due ore passo la dogana e lascio il porto. È una giornata stupenda, il cielo è limpido e il sole ancora caldo, decido di rimanere a Napoli fino a sera e poi di proseguire per Roma, mi hanno parlato così bene di Napoli e della sua gente che voglio vederla almeno un po’! Prima di tutto vado alla Stazione Ferroviaria per sapere a che ora c’è un treno per Roma e mi rivolgo alla biglietteria dove l’addetto si mette a ridere ed esclama: “Sei americano!”. Dopo avermi raccontato in uno stentato inglese che è stato cinque anni negli U.S.A., mi dà le informazioni che volevo e mi consiglia di lasciare i bagagli al deposito della Stazione. Per quel poco che posso vedere, Napoli mi piace, la gente è molto disponibile.

A Roma
Prendo il treno per Roma verso le venti e arrivo intorno alle 22.40. Trovo una camera all’Hotel “Quattro Fontane”. Sono talmente stanco che mi butto subito sul letto ma non riesco a prendere sonno. Sono solo in un paese sconosciuto, solo e senza conoscere una parola d’italiano, ripongo tutte le mie speranze nella lettera che il Console di New York mi ha consegnato. Mi alzo e vado a controllare se passaporto e lettera sono ancora li, nella borsa. Dormo solo un paio d’ore e mi sveglio al mattino presto, è la mia prima domenica a Roma e decido di andare alla Santa Messa in Vaticano. Alla reception dell’albergo domando come arrivarci, poi chiederò strada facendo. Sono fortunato, la prima persona che fermo parla un inglese stentato ma comprensibile e mi accompagna per quasi tutta la strada. Dopo circa 40 minuti, quando arrivo a San Pietro, rimango sbalordito per il suo splendore. La Messa inizia poco dopo. Mi inginocchio di fronte all’altare e prego il Signore e la Santa Vergine di assistermi in questa mia “avventura”; sono stato sempre devoto alla Vergine e a S. Antonio. Terminata la Messa visito la basilica, non ho mai visto nulla di simile, è magnifica. Il tempo è passato in fretta, sono già le 13 e l’appetito si fa sentire, esco dalla basilica e su una laterale trovo un ristorante che non sembra troppo costoso. Gran parte dei tavoli sono occupati ma uno d’angolo è libero. Mi gusto il pranzo ed osservo gli altri commensali mentre un’orchestrina con due chitarre, un mandolino e un cantante suona gli “Stornelli Romani”. Non capisco le parole del cantante ma tutti scoppiano a ridere e io con loro, mi sento a mio agio. Ad un certo punto un commensale si alza, viene al mio tavolo offrendomi un bicchiere di vino. Accetto per cortesia, e quando capisce che sono straniero chiama un amico che conosce qualche parola d’inglese. Racconto che sono in Italia solo da due giorni e che mi piace tutto quello che ho visto finora, compresi gli italiani che trovo molto ospitali e cordiali. Beviamo insieme un altro bicchiere, poi lui e l’amico tornano al loro tavolo. Finito di pranzare, pago il conto e, prima di lasciare il locale, passo a salutarlo e a ringraziare lui e i suoi compagni. Libero da impegni, gironzolo per la città e sulla via del ritorno all’albergo chiedo dove si trova il Ministero dell’Aeronautica in modo da poterlo trovare più agevolmente domani, lunedì. È un edificio elegante ed imponente, non lontano dall’albergo. Faccio un giro intorno per ambientarmi. Mi sono impratichito della città, riconosco il Colosseo, i Fori Imperiali, il monumento al Milite Ignoto e altri luoghi caratteristici di Roma. Mi sorprende notare che tutti sembrano sereni e felici. Roma è una città affascinante che riesce ad amalgamare con gusto l’antico e il moderno. Verso le dieci di sera rientro in albergo e dopo una doccia vado a letto; sono molto stanco e mi addormento appena appoggiata la testa sul cuscino. Il mattino successivo mi sveglio alle note di “Stormy Weather” che qualcuno sta fischiando in strada. Verso le nove e trenta lascio l’albergo e mi dirigo al Ministero, mi rivolgo al posto di guardia e porgo la lettera al piantone, che però scuote la testa e mi risponde: “Il Ministero è chiuso perché oggi è festa nazionale, ritorni domani!”. Sono proprio sfortunato! Non mi perdo d’animo, torno in albergo, lascio la lettera di presentazione e il libretto di volo in camera ed esco nuovamente per visitare la città. Mi incammino verso il Colosseo, sento in lontananza il suono di una banda musicale e noto che tutti si incamminano nella stessa direzione. È una parata; è già iniziata ed è stupendo vedere come i militari, perfettamente inquadrati, marciano impeccabili. Un improvviso passaggio di sei formazioni di aerei da caccia accompagnano la sfilata, seguiti da una grossa formazione di aerei da bombardamento e poi da altre formazioni che mi sembrano velivoli dell’Osservazione Aerea. Mussolini tiene un discorso in piazza Venezia ma non riesco né a vederlo né a sentirlo. Riesco a capire che si celebra l’anniversario della Vittoria dell’Italia sull’Austria del 4 novembre 1918. Negli U.S.A. celebriamo tra qualche giorno, l’11 di novembre, l’Armistice Day. Terminata la parata, la folla si disperde; gruppi di scolari e scolare felici e contenti rientrano a scuola cantando. Vado a pranzare in una trattoria vicino alla Stazione Ferroviaria, acquisto un quotidiano americano e vado a leggerlo in camera. Faccio un po’ di conti dei dollari che mi sono rimasti, sono poco più di 50, penso a cosa farò quando anche questi ultimi saranno finiti se non sarò arruolato nell’Aviazione Italiana. Preoccupato, non riesco a prendere sonno fino a notte inoltrata. Mi sveglio al mattino presto e, dopo aver preso un caffè in un bar, mi dirigo verso il Ministero.

Il Ministero della Regia Aeronautica Italiana
Quando arrivo al Ministero c’è un grande movimento di personale dell’Aeronautica che si reca al lavoro. Mi presento allo stesso posto di guardia di ieri ma non posso entrare fino alle nove. A quell’ora vengo accompagnato all’Ufficio “Affari Esteri” al piano terra. Dopo una breve attesa vengo ricevuto da un Ufficiale che mi rivolge parola in italiano. Non capisco e glielo dico. Mi guarda stupito, gli consegno la lettera del Console americano, la legge attentamente, alza la testa ed emettendo un breve fischio di sorpresa mi porge la mano. Vuol sapere tutto di me, dei miei familiari e della mia esperienza di volo. Gli porgo il libretto di volo spiegandogli che ho cinquanta ore tra “doppio comando” e “solo pilota”, che ho volato sugli aeroporti di “Flushing” e “North Beach” e che ero iscritto al “Metropolitan Flying Club”. Mi chiede anche il curriculum scolastico e gli rispondo che ho frequentato poco meno di tre anni di Scuole Superiori. Tutto il colloquio si svolge in perfetto inglese. Sono sorpreso e rasserenato da questo primo impatto positivo con la “Regia Aeronautica”. Gli chiedo se la mia esperienza di volo e i miei studi scolastici sono adeguati per essere ammesso ai corsi di pilotaggio. Sono teso: dalla sua risposta dipenderà il mio futuro. Quando mi risponde “Hai tutti i numeri per diventare un buon Sottufficiale Pilota!”, mi sento sollevato. “Se invece vuoi diventare Ufficiale Pilota”, aggiunge, “devi studiare l’italiano e superare gli esami per entrare in Accademia a Caserta oppure, dopo 4 anni di Reparto, chiedere di essere ammesso all’Accademia e, se supererai le prove, inizierai dal terzo anno”. Rispondo che, dopo aver imparato l’italiano, penserò se sarà il caso di fare domanda per il Corso Ufficiali, ammesso che superi quello per Sottufficiali. Aggiunge “Come stai di salute?”. “Per quello che so e per come mi sento, non c’è male!”, rispondo. Sorride, con il suo aiuto riempio un modulo con i miei dati. Ha molte decorazioni sulla giacca che immagino si sia guadagnato in alcune Campagne, è il Maggiore Pilota Giuseppe Baudoin, un Ufficiale molto disponibile e cordiale. Prima di congedarmi mi chiede “Hai visto Italo Balbo quando è arrivato a New York a luglio di quest’anno con i suoi 24 idrovolanti S55?”. Gli rispondo che purtroppo quel giorno ero in servizio come bagnino ma ho seguito tutto il Raid dei Savoia Marchetti dalla stampa. Mi offre un caffè e dopo avermi invitato a ripresentarmi l’indomani mattina mi consegna un pass da presentare al Corpo di Guardia per evitare attese. Con una stretta di mano e una pacca sulla spalla mi congeda. Sono stato fortunato a incontrare un personaggio così disponibile e con grande padronanza della mia lingua. Passo il resto della giornata visitando lo zoo, molto interessante, e alla sera vado al cinema a vedere un film di cowboy con l’attore americano John Wayne. Mi faccio una gran risata sentendolo parlare in italiano! Anche se non capisco quello che dice, mi diverto comunque e concludo così la giornata. Il mattino successivo, pagato il conto, lascio l’albergo. Debbo attendere che la mia domanda sia completata e le selezioni terminate, e visto che i dollari scarseggiano mi do da fare per trovare subito un albergo più economico. Ritorno al Ministero e presento il biglietto del magg. Baudoin al Corpo di Guardia. L’addetto mi accompagna dall’ufficiale superiore che mi prega di attendere fino alle nove. Dopo pochi minuti vengo accompagnato nell’ufficio del magg. Baudoin. È impegnato a leggere dei documenti, quando alza gli occhi e vede che ho in mano la valigia mi domanda dove sto andando. Gli racconto che ho lasciato l’albergo per cercarne un altro più economico. Lui di rimando mi chiede se sono a corto di soldi. “Ne ho ancora per alcuni giorni e dovrebbero bastare, se non ci vuole troppo tempo per l’arruolamento!”, gli rispondo. In quel momento un altro alto ufficiale entra nell’ufficio, lui scatta sull’attenti, e io pure, l’ufficiale viene avanti e chiede al magg. Baudoin chi sono: “È un ragazzo americano, viene da New York e vuole arruolarsi nella Regia Aeronautica come pilota”. Il magg. Baudoin mi spiega che il t.col. Ulisse Longo è il comandante del 3° gruppo di S55 che ha partecipato alla Crociera Atlantica con Italo Balbo. Il col. Longo mi chiede da quale parte di New York provengo. “Da City Island, nel Bronx, Signore!”, rispondo, sempre sull’attenti. Mi chiede della mia famiglia. “Mio padre è immigrato negli U.S.A. nel 1905 e fa il barbiere”, dico, e aggiungo “io sono nato nel 1913, ho cinquanta ore di volo e poco meno di tre anni di Scuole Superiori”. Tutto quello che dico viene tradotto dal magg. Baudoin. Il Colonnello mi chiede perché desidero arruolarmi. “Amo il volo e vorrei conoscere l’Italia, paese dal quale provengono i miei genitori e i miei antenati”, rispondo. Infine chiede al magg. Baudoin se le mie carte sono a posto e questi gli risponde che le sta attendendo dall’Ufficio del Personale al piano di sopra. Il Colonnello va al telefono, alza la cornetta e con voce perentoria chiede di avere i miei incartamenti nel suo ufficio. In meno di mezz’ora i documenti sono sulla scrivania e il t.col. Longo e il magg. Baudoin si alternano nell’aiutarmi a compilare la domanda di arruolamento. Dopo avermela fatta firmare, il magg. Baudoin va direttamente dal Capo del Personale per l’approvazione.

La visita medica all’Istituto di Medicina Legale
Il Maggiore mi consegna un foglio dicendomi che debbo presentarmi all’Istituto di Medicina Legale dell’Aeronautica per sottopormi ai test psico-attitudinali. L’Istituto di Medicina Legale è proprio accanto al Ministero, sull’altro lato della strada. Il t.col. Longo mi porge la mano e mi augura buona fortuna. Esco dal Ministero, giro a sinistra, attraverso la strada e proprio accanto al Ministero c’è l’Istituto di Medicina Legale. Sulla scalinata dell’ingresso dico tra me e me una preghiera, spero che mi aiuti a superare gli esami. All’usciere porgo il foglio e questi mi indica la sala d’attesa al piano superiore. Non capisco molto di quello che dice ma seguo altri ragazzi che hanno un foglio simile al mio, a ciascuno di noi viene consegnata una cartella nella quale i medici che ci visiteranno riporteranno i dati. Nella sala d’attesa ci sono altre cinque persone e vengono chiamate una alla volta, degli uscieri con un camice nero entrano ed escono dalle tante stanze che si affacciano sul corridoio. Quando è il mio turno il dottore mi fa alcune domande e gli rispondo che non parlo la sua lingua. Mi guarda sorpreso e quando gli dico che vengo dagli U.S.A. esclama “Toh… un americano!” e continua esprimendosi in un inglese approssimativo chiedendomi se ho avuto malattie gravi e poi di spogliarmi. Gli esami durano circa cinque ore e infine mi chiedono di attendere l’esito della visita insieme agli altri. Veniamo chiamati sempre uno alla volta nell’ufficio da un Colonnello medico, il Comandante dell’Istituto, e ci viene comunicato il verdetto: “idoneo” o “non idoneo”. Due dei ragazzi che fanno parte del gruppo non risultano idonei ed escono senza la cartella con i documenti. La tensione è enorme, in questi pochi attimi si decide la mia sorte. Arriva il mio turno ed entro nell’ufficio. Il Colonnello, seduto alla scrivania, ha in mano la mia cartella. Alza gli occhi e pronuncia la parola tanto attesa: “Idoneo!”. Mentre sta firmando i miei documenti, il telefono squilla e sento che fa il mio nome; capisco che gli chiedono di me. Probabilmente è il magg. Baudoin o il t.col. Longo. Quando posa il ricevitore il Colonnello medico dà disposizione all’usciere di accompagnarmi al Ministero, dal magg. Baudoin. Entro nell’ufficio e trovo il Maggiore e il Colonnello ad attendermi, quest’ultimo si congratula per l’esito positivo degli esami. Si è fatto tardi, e mi invita a tornare domani mattina: verrà completata la mia pratica e sarò inviato alle Scuole di Volo. Dico loro che non trovo parole per ringraziarli e azzardo un saluto militare. Il t.col. Longo mi dà una pacca sulla spalla e aggiunge “Coraggio, ora va’ a mangiare!”. Raccolta la valigia che avevo lasciato nell’ufficio del Maggiore, lascio il Ministero e vado a cercare una camera in un albergo vicino alla Stazione Ferroviaria.

Idoneo al volo
Finalmente mi sento sollevato, ringrazio il Cielo per aver superato gli esami medici e aver trovato aiuto da due persone estremamente disponibili. Respiro a pieni polmoni l’aria di Roma e decido di concedermi una cena all’italiana e un paio di bicchieri di Frascati. Il vino fa subito effetto e torno in albergo. Prima di andare a dormire prendo carta e penna e scrivo una lettera a mio padre. Dopo un sonno ristoratore il mattino successivo mi affaccio alla finestra, è nuvoloso e piove, mi vesto e prendo un pullover, fa freddo, c’è un notevole sbalzo di temperatura rispetto a ieri. Decido di confermare la camera d’albergo, non so ancora cosa succederà oggi, e vado a fare colazione in un caffè lì accanto. Ritorno al Ministero, al posto di guardia trovo il solito aviere che mi riconosce e mi chiede in un inglese stentato se voglio ancora andare dal Maggiore. “Ho pensato che eri tedesco”, mi dice. “Mi dispiace di non parlare bene la tua lingua che ho studiato ma non ho avuto occasione di praticare”. Giunti davanti all’ufficio del Maggiore mi stringe la mano e mi augura buona fortuna. Lo ringrazio e busso alla porta, un sergente mi invita ad entrare, qualche minuto più tardi arriva il magg. Baudoin. Lo saluto con un “Buon giorno” in italiano e alla mia pronuncia tutt’altro che perfetta scoppia a ridere: “Continua così ed imparerai presto l’italiano!”, mi risponde. “Quando avrai terminato il corso di volo, dovrai andare a lezioni private e leggere molto”. In quel momento entra il t.col. Longo e anche a lui mi rivolgo con un “Buon giorno”, lui mi risponde battendomi affettuosamente con la mano sulla spalla. Chiede spiegazioni per alcune questioni d’ufficio al magg. Baudoin e poi si informa della mia pratica. “L’ho inviata all’Ufficio del Personale, al piano di sopra, per farlo assegnare subito a una Scuola di Volo”, risponde il Maggiore. Poco dopo entra un Sottotenente dell’Ufficio del Personale e consegna la mia cartella al magg. Baudoin che la scorre velocemente e dice al t.col. Longo “È stato assegnato alla Scuola di Volo di Grottaglie”. Rivolgendosi a me dice “Qui c’è scritto che dovrai presentarti prima alla caserma di Benevento per la pratica di trasferimento e ritirare un acconto per l’acquisto di una parte del corredo. Il resto ti sarà consegnato a Grottaglie”. Chiedo al Maggiore dov’è Grottaglie. Mi risponde “Vicino a Taranto, poco più di venti chilometri dalla città. È un Centro Addestramento Volo dell’Aeronautica grande e moderno. Se lo desideri, puoi partire con il primo treno e, visto che non parli la nostra lingua, ti farò accompagnare da qualcuno”. Mi consegna i documenti e chiama un aviere dandogli l’ordine di starmi vicino finché non salirò sul treno per Benevento. Il t.col. Longo e il magg. Baudoin mi stringono la mano e mi augurano buona fortuna. Il magg. Baudoin aggiunge in inglese: “Tieni sempre la testa alta e fai quello che ti dicono. Ce la farai!”. Rispondo che non trovo parole per ringraziare entrambi per l’aiuto e farò del mio meglio per mettere in pratica i loro consigli. Lascio il Ministero accompagnato dall’aviere. Gli chiedo come si chiama: “Mario Rossi”, dice. “E io, Vincenzo Patriarca”, rispondo. Osserva che è un nome tipicamente italiano. Andiamo insieme in albergo, ritiro il bagaglio e pago il conto. Alla Stazione Ferroviaria ci rivolgiamo alla biglietteria riservata al personale militare e mi consegnano il biglietto per Benevento. Il primo treno parte tra tre ore, alle 15.20, così decidiamo di fare quattro passi. Mi racconta che è di Napoli e che terminerà la ferma tra un paio di mesi, poi forse andrà in Sud America. Gli chiedo che velivoli ha in dotazione l’Aeronautica per l’addestramento dei piloti, tira fuori dal portafoglio un paio di foto in cui è ritratto davanti a un aereo: “Questo è uno di quelli utilizzati per i collegamenti dagli ufficiali piloti del Ministero”. Andiamo a mangiare in trattoria e poi torniamo in stazione. Mi accompagna al treno che sta per partire, mi indica la carrozza e “Ricordati di scendere a Benevento”, mi raccomanda. “Se non sei sicuro fai vedere le tue carte e ti aiuteranno!”. Ci salutiamo e mi augura buona fortuna per il corso di volo.

La scuola di volo a Grottaglie
Arrivo a Benevento che è notte, mi ero appisolato e quasi rischiavo di perdere la fermata. Fuori dalla stazione non so dove dirigermi. Vedo due militari con una fascia blu al braccio, gli faccio vedere le mie carte, e loro dopo averle lette mi chiedono di seguirli dall’Ufficiale di Servizio della stazione. Questi incarica uno dei due di accompagnarmi al Comando, non molto distante. C’è poca gente per la strada, giungiamo in prossimità di un edificio che sembra una caserma. Davanti ad un grande portone stazionano due avieri. Anche a loro sottopongo i documenti: mi accompagnano da un ufficiale che scruta le carte e mi dice che debbo attendere fino alle nove del mattino successivo. Mi invitano a seguirli ,nell’infermeria dove nel frattempo posso riposare. Mi stendo su una brandina e mi addormento subito per la gran stanchezza. Verso le otto mi svegliano dei rumori provenienti dall’esterno e un fitto chiacchiericcio. Esco, vedo gli avieri che prendono il caffè e uno di loro me ne offre una grossa tazza con del pane. Lo ringrazio e, appena terminato di mangiare, un piantone mi chiede di seguirlo. Mi porta su per le scale fino all’Ufficio del Personale e mi fa segno di sedermi ed attendere nel corridoio. Dopo circa mezz’ora entro nell’ufficio del Colonnello, che mi invita a sedermi. Mi pone delle domande, ma gli faccio intendere che comprendo molto poco l’italiano e tanto meno lo parlo. Il Colonnello chiama un Sottotenente, una persona molto distinta, al quale chiede di fare da interprete e di tradurre quanto mi vuol dire. Quando il Colonnello finisce con le domande, mi informa di aver ricevuto una telefonata dal Ministero, dal magg. Baudoin, suo grande amico. Il Sottotenente mi chiede da dove vengo, rispondo “Da City Island, New York”. Parla talmente bene che gli chiedo da che parte degli U.S.A. provenga. “Sono nato in Italia, in un piccolo paese vicino a Firenze”, mi risponde. “Mi chiamo Franco Maggini, vivevo con i miei genitori a Chicago ed ero un ragazzo quando siamo ritornati in Italia, poco prima della grande crisi del ’29”. È entrato in Accademia e dopo quattro anni ha ricevuto i gradi di Sottotenente. Mi congratulo con lui, ci stringiamo la mano. Traduce tutto al Colonnello e questi mi informa che dovrò rimanere a Benevento un paio di giorni, in attesa che giungano altri documenti dal Ministero. I miei documenti arrivano dopo due settimane! Durante i giorni trascorsi a Benevento il s.ten. Maggini e io diventiamo amici, usciamo insieme in città in diverse occasioni e quando è in servizio gli faccio compagnia negli uffici del Comando.
Il 13 novembre 1933 mi giunge la comunicazione che, con il Decreto della Regia Aeronautica n. 14381, sono avviato alla Scuola di Pilotaggio di Grottaglie, in quanto ammesso al Corso per Sottufficiali Piloti e mi debbo presentare “non oltre” il 2 dicembre. Tutti i documenti sono pronti e debbo ritirarli all’Ufficio Comando. Il Colonnello mi convoca insieme a un altro ragazzo per darci le ultime istruzioni e ci saluta. Il s.ten. Maggini, saputo che il mio trasferimento è prossimo, viene a cercarmi nell’ufficio del Colonnello e mi trova con la nuova divisa, preparata dal sarto che confeziona anche le sue; osserva che mi sta alla perfezione. È la prima volta che rivedo il Colonnello dopo l’arrivo a Benevento ed anche lui si complimenta per la divisa. Mi consegna i documenti di viaggio, e ci congeda con un “Tanti auguri!”. Il s.ten. Maggini mi accompagna al portone principale, mi saluta con un “Good luck” e mi abbraccia. Insieme all’altro ragazzo mi incammino verso la stazione ferroviaria, acquistiamo i biglietti e saliamo sul treno per Taranto. Trascorsa la notte arriviamo verso le cinque del mattino. Abbiamo tra un’ora la coincidenza per Bari e dovremo scendere a Grottaglie. Nell’attesa andiamo a prendere un caffè al bar della stazione, dove ci sono altri ragazzi in divisa dell’Aeronautica. Quando arriva il treno saliamo e, dopo due fermate, passiamo davanti all’aeroporto: la nostra è la successiva. Sul treno ci sono molti colleghi dell’Aeronautica e ci basta seguirli quando scendono. Dalla stazione all’aeroporto ci sono circa due chilometri e, arrivati, mostriamo le nostre carte al piantone che ci chiede di presentarci al Comando alle nove. Andiamo, nel frattempo, al Circolo Sottufficiali e facciamo colazione con caffè e succo di frutta. Sono finalmente a Grottaglie, alla Scuola di Osservazione Aerea – 1ª Squadriglia, comandata dal cap. Assunto Imbasciati. Alle nove ci presentiamo al Comando e l’Ufficiale di giornata ci accompagna nell’ufficio del Comandante dell’aeroporto. Veniamo subito ricevuti dal col. De Bernardi. A prima vista, il Colonnello sembra un tipo molto severo ed autoritario ma appena inizia a parlarci con toni pacati e gentili, mi rendo conto che il mio giudizio era affrettato. Ci chiede i nomi e, quando tocca a me, dice che mi attendeva e che aveva ricevuto una telefonata dal Ministero. “Così tu sei l’americano di cui il magg. Baudoin mi ha parlato!”, sono le sue prime parole e anche a lui racconto la mia storia, dopodiché alza il telefono, si accerta che il s.ten. Mario Bucchi non sia in volo e lo convoca. Pochi minuti dopo il Sottotenente è in ufficio e il Colonnello gli chiede di assegnare il “ragazzo”, indicando il sottoscritto, a un istruttore che abbia meno allievi e poi di comunicargli il nominativo. Informa il s.ten. Bucchi delle ore di volo che ho al mio attivo e da dove provengo.

Il velivolo scuola Ca 100
Lasciato l’ufficio, il s.ten. Bucchi mi confida che è romano e mi accompagna negli hangar dove ci sono alcuni velivoli sottoposti a manutenzione, un biplano Ca 100 con motore “radiale” da 80 CV e vicino un altro Ca 100 con motore in linea Isotta Fraschini da 125 CV, raffreddato ad aria. Mi fa salire e sistemare nel posto di pilotaggio del primo e mi illustra i comandi di volo e gli strumenti. Cercherà di inserirmi nella lista di volo di domani e, prima di iniziare le lezioni, vuole valutare la mia reale esperienza di volo. Mi chiede di stare attento alle domande che mi farà e mi invita a indicare gli strumenti che nomina e le loro funzioni. Rispondo soddisfacentemente e alla fine gli spiego che negli U.S.A. ero abituato alle unità di misura anglosassoni, miglia, gradi Fahrenheit, psi e piedi, ma in compenso qui i limiti da non superare sono prudentemente indicati in rosso. Elenca tutti i limiti di temperatura e pressione, prendo nota su un pezzo di carta, infine mi dice “OK, salta giù!”. Mi accompagna nel magazzino vestiario a ritirare la combinazione di volo, il casco, i guanti e i calzini e mi indica la palazzina degli allievi. Mi invita a prendere le mie cose ed a presentarmi al responsabile degli alloggi che mi assegnerà un posto in una cameretta con tre altri allievi. Lo saluto e ringrazio e mi risponde sorridendo: “Avremo ancora molte occasioni di vederci”. Entro negli alloggi e trovo il sergente responsabile che mi prega di seguirlo. Alcuni allievi scherzano e uno di loro si presenta come Carlo Muscolini e mi chiede da dove vengo. All’inizio non sembra molto convinto della mia risposta, poi chiama un collega che ha studiato l’inglese: “Zelardi, tu che dici di aver studiato l’inglese, parla un po’ con questo americano”. Zelardi mi fa qualche domanda e poi aggiunge “Finalmente ho qualcuno con cui fare pratica d’inglese!”. È di Napoli e mi presenta a sua volta a Pardi di Milano e a Fusco, anche lui di Napoli come Zelardi. Fusco è un allievo ufficiale prossimo a lasciare la Scuola ed essere avviato ai Reparti. Mi presento infine a tutti e vengo bombardato di domande. Mi aiutano e mi spiegano i regolamenti della Scuola, come aprire e chiudere la brandina, dove sono le aule, la mensa, i servizi igienici e il cinema aeroportuale. Mi suggeriscono di presentarmi sempre puntuale alla linea di volo, altrimenti rischio di essere messo a terra per tre, quattro giorni. La giornata passa in fretta, vado a dormire nella mia brandina e mi addormento subito. La mattina successiva è il 4 dicembre, mi alzo presto, raggiungo la mensa per la colazione e poi mi reco nell’ufficio Operazioni dove si preparano i turni di volo e gli allievi vengono assegnati agli istruttori. Ci sono tre gruppi, Muscolini mi dice che faccio parte del primo e che debbo presentarmi al s.ten. Bucchi, alla linea di volo dell’hangar centrale n. 1.

Il primo volo nella Regia Aeronautica
Quando arrivo il s.ten. Bucchi sta effettuando i controlli esterni del velivolo, mi presento e continuo il giro con lui, poi mi invita a salire a bordo e insieme facciamo il check interno. Chiama lo specialista che ci assista per la messa in moto e, mentre rimango nell’abitacolo, mi si affianca e verifica che il selettore dei magneti sia escluso. Scende, si porta davanti al muso dell’aereo e fa ruotare l’elica in senso contrario per due o tre giri, per evitare ingolfamenti; mi guarda ed esclama “Contatto!”. Giro il selettore dei magneti nella posizione “1-2” e confermo “Contatto”; “lancia” l’elica con un colpo secco e il motore sia avvia al secondo tentativo. Finalmente sono di nuovo su un aereo col rombo di un motore che gira e con il soffio dell’elica sulla faccia: è una piacevole sensazione, chi non l’ha provata non può apprezzarla. Tengo gli occhi fissi sull’indicatore di pressione e temperatura dell’olio. Quando la lancetta della temperatura raggiunge i 50 gradi centigradi faccio un cenno allo specialista che sta parlando con il s.ten. Bucchi. Mi dice di portare i giri a 1000 al minuto e di effettuare la prova di efficienza dei magneti escludendone uno alla volta e osservando il calo di giri che non deve superare i 100 al minuto; porto infine il motore alla massima potenza e ripeto il controllo dei magneti. Lo specialista mi fa segno di ridurre al minimo, il s.ten. Bucchi sale al suo posto di pilotaggio posto alle mie spalle e mi chiede di quanti giri calava il motore durante la prova. Mi fa rullare lentamente verso l’inizio pista, poco prima di allinearci mi dice che effettuerà lui il decollo e che una volta in volo mi darà una manata sulla spalla per indicarmi di prendere i comandi. In un attimo siamo in volo, mi tocca sulla spalla e alza le mani verso l’alto, prendo il controllo del velivolo. Salgo a 1000 metri effettuando nel contempo leggere virate a sinistra e a destra. Raggiunta la quota, riduco potenza e tiro un po’ su il muso per vedere quando l’aereo si avvicina allo stallo. È la prima regola insegnatami da Solberg: quando si sale su un velivolo che non si conosce, è importante ambientarsi subito al comportamento alle basse velocità ed evitare così di finire in “vite”! Dopo una decina di minuti l’istruttore mi fa cenno di rientrare, metto prua verso il campo e quando sono allineato con la pista in erba mi batte nuovamente sulla spalla, alzo entrambe le braccia per conferma e prende lui i comandi per l’atterraggio. Seguo le sue manovre tenendo la mano leggera sulla cloche e osservo la velocità che tiene fino alla toccata, poco meno di 80 Km/h. Mi chiede infine che impressione ho avuto: “Ho volato solo con monoplani e questo biplano non mi sembra male”, rispondo. “Trovo invece qualche difficoltà con l’uso della manetta che è invertita rispetto ai velivoli americani”. Mi chiede poi perché ho provato a stallare al termine della salita e gli rispondo che è un insegnamento del mio istruttore americano per conoscere il comportamento del velivolo all’approssimarsi dello stallo. Non obietta, mi dice di rimanere sulla linea di volo. “Nel frattempo guarda i decolli e gli atterraggi degli altri allievi”, dice, e si avvia verso il Comando.

Il mio istruttore, il Serg.  M. GAabrielli
Quando esce sono in compagnia di altri allievi, mi chiama e mi informa che sono assegnato al 3° gruppo, il mio istruttore sarà il serg.m. Gabrielli. Se incontrassi difficoltà con la lingua mi ricorda di farglielo sapere. Domani mattina mi dovrò presentare all’Ufficio Operazioni Volo, l’istruttore ne è già informato. Rimango sul piazzale volo fino a mezzogiorno, poi vado in mensa con i compagni e da lì in aula. A Zelardi racconto che mi hanno assegnato al 3° Gruppo con il serg.m. Gabrielli. “Sei fortunato”, mi confida, “Sta completando le missioni con il suo ultimo allievo e quindi avrà più tempo per seguirti”. Comincia la lezione: il nostro insegnante è un motorista che per un’ora e trenta ci illustra la sua materia. Ci trasferiamo nell’aula di Navigazione, dove abbiamo come istruttore un Sottotenente, non capisco molto quello che dicono! Mi sono portato tre libri dagli U.S.A., uno di Van Dykes che tratta dai primi motori d’aereo fino ai più recenti, compresi quelli italiani della Grande Guerra. L’altro libro di navigazione, di Yancey, mi è di grande aiuto. Alle 17 terminano le lezioni, andiamo al Circolo Sottufficiali per un aperitivo. Dopo cena vado con Zelardi al Circolo, mi chiede se so giocare a biliardo, non so come si gioca in Italia ma negli U.S.A. si usano 15 palle, cerca allora di spiegarmi un altro gioco, la “Goriziana”, con tre palle e cinque birilli, ma è troppo difficile e così si mette a giocare con un compagno mentre io osservo. Verso le 22 torniamo nei nostri alloggi e andiamo a dormire. Non riesco a prendere sonno, continuo a pensare al volo di domani. Il giorno dopo, il 5 dicembre, viene fatto l’appello davanti al Comando ed è presente il col. De Bernardi. Quando il serg.m. Gabrielli fa il mio nome rispondo “Presente!” e il Colonnello mi fissa per un paio di secondi. Terminato l’appello mi reco nell’aula briefing dove il serg.m. Gabrielli sta preparando i turni di volo degli allievi. È molto alto di statura, quando riesco a farmi capire che sono assegnato al suo gruppo, mi stringe la mano e mi presenta agli altri. È già stato informato dall’Ufficio Addestramento ed è lieto di avermi come allievo. Si informa della mia precedente attività di volo, poi ci chiede di attendere che finisca di preparare i turni, li deve consegnare all’ufficiale di giornata e, quando questi arriva, indicandomi esclama “Tutti presenti più un americano!”. L’ufficiale sorride e passa a un altro gruppo. Gabrielli assegna le missioni a quattro allievi e le relative zone di lavoro fuori dall’area aeroportuale, le quote entro le quali operare, raccomanda di tenere d’occhio gli altri velivoli e spiega le manovre da eseguire. A me dice di attendere, deve effettuare un “check” a un allievo appena rientrato da un permesso a seguito di una emergenza in volo. Mentre è in volo va a controllare che i velivoli siano nelle zone loro assegnate e al rientro congeda l’allievo. Rimane con me fino al ritorno degli altri quattro, a ognuno di essi rivolge qualche osservazione e a me dice “Salta sul primo velivolo rifornito e metti in moto”. Corro verso lo specialista che sta completando il rifornimento di un aereo. “Questo è pronto?”, chiedo in italiano, e lui “Sì, sì!”. Salto nel posto di pilotaggio, lo specialista mi chiede con un cenno se sono pronto. Confermo con il pollice verso l’alto, mi dice di “pompare” un paio di volte con il “cicchetto”, quando vede uscire benzina dallo spurgo del carburatore attende qualche secondo e poi strilla “Contatto!”. Inserisco entrambi i magneti, confermo “Contatto!”, con uno strattone secco fa girare l’elica e il motore parte al primo colpo. Avanzo leggermente la manetta finché cessa di uscire fumo dai condotti di scarico del motore, poi riporto i giri a 800 al minuto. Nel frattempo Gabrielli ha finito di parlare con l’altro ragazzo, salta nel posto di pilotaggio dietro al mio e battendomi sulla spalla dice “Rulla fino all’inizio pista dove c’è il sergente addetto alla linea di volo”. L’addetto alla linea di volo regola i decolli e gli atterraggi e mediante indicazioni visive, bandierine, autorizza al decollo oppure dà istruzioni di “riattaccare” se ci sono impedimenti all’atterraggio. Al punto attesa ci sono altri due velivoli che aspettano l’autorizzazione al decollo, mi porto di lato per evitare di essere investito dal soffio delle eliche. Dopo il decollo del secondo mi allineo in pista, mi giro verso Gabrielli e lui, agitando la mano, mi dice “Decolla!”. Do motore gradualmente fino a raggiungere il fondocorsa della manetta. L’aereo prende velocità sussulta e poco dopo stacca, aiutato da una mia leggera pressione della cloche verso la “pancia”. Gabrielli mi batte sulla spalla per attirare la mia attenzione, mi volto e lui, alzando tre dita della mano, mi fa capire che debbo salire a 300 metri. Raggiunta la quota mi dice di effettuare delle virate a destra e sinistra, tenendo d’occhio l’altimetro. Mi vengono in mente le istruzioni di Solberg: “Quando fai delle virate, prendi due riferimenti a terra e cerca di tenere le estremità alari fisse su di loro. Ti aiuterà a capire da che parte spira il vento”. Scelgo una fattoria su una collina e un incrocio stradale e li uso come “piloni”. Per due volte Gabrielli, con una leggera pressione sulla cloche, mi corregge la quota in quanto ho perso circa 50 metri. Continuo così per una ventina di minuti finché mi dice di mettere prua verso il campo, non tocca i comandi se non vicino a terra perché ho richiamato troppo alto e atterra lui. Dopo l’atterraggio mi riconsegna i comandi e mi dice di rullare dove sono gli allievi, spegnere il motore e scendere. Chiama lo specialista e gli dice di fare il pieno in quanto deve andare in volo con altri tre allievi, poi si rivolge a me: “Aspetta qui finché ho terminato con gli altri tre”. Quando rientra dall’ultimo volo mi chiede come ho trovato il Caproni Ca.100. “Un bell’aeroplano,” rispondo “ma dovrò abituarmi ai biplani, perché ho volato solo con velivoli ad ala alta” e gli faccio vedere una foto, che tengo nel portafogli, e’ del Fairchild 22 con il quale volavo negli U.S.A. Gli domando come sono andato con il mio primo volo. “Si vede che hai già volato,” mi risponde “ma devi abituarti ai biplani. Hai fatto bene le virate ma fa attenzione alla quota, è molto importante! Un’altra cosa… non richiamare troppo alto in atterraggio. Potresti stallare, toccare il terreno con un’ala e capottare”. Conclude dicendo di ripresentarmi alla linea di volo alle 14 per effettuare insieme una missione di “touch and go” (atterra e decolla). Trascorro il resto della mattinata in aula e dopo il pranzo vado in camerata per riposarmi. Incontro Zelardi e Muscolini, gli racconto come è andato il volo e che debbo tornare in linea alle 14. Secondo Zelardi, Gabrielli vuole portarmi allo stesso livello degli altri allievi. L’idea di fare due voli in una giornata non mi dispiace.

Il motorista, M.llo Papa
Sono in linea di volo qualche minuto prima del previsto e salgo su uno dei velivoli di addestramento avanzato, un Ca100, con motore Isotta Fraschini da 150 HP. Arriva uno specialista e mi chiede se debbo andare in volo con quello, rispondo che voglio solo dare un’occhiata alla strumentazione. Mi presento e lui dice di chiamarsi Papa, un maresciallo capo motorista: è molto cordiale e mi spiega alcuni dettagli del motore Isotta Fraschini che a suo giudizio è migliore del FIAT A-80 montato sugli altri Ca 100. Quando decollerò da solo sul Ca 100 avrò a che fare con uno di questi due motori. Dopo qualche minuto arriva Gabrielli, salto giù dall’aereo, scambia qualche parola con il m.llo Papa, chiede conferma che il velivolo è pronto e viene verso di me: “Sali sull’aereo con il quale abbiamo volato questa mattina e metti in moto”. Papa mi assiste durante i preparativi prima della messa in moto, il motore si avvia al primo tentativo. Riduco leggermente la manetta e porto i giri sotto ai 1200 al minuto. Gabrielli salta nel posto di pilotaggio e mi dice di rullare verso la posizione di decollo. Siamo l’unico velivolo sull’aeroporto, mi batte sulla spalla e grida “Facciamo dei circuiti a 300 metri”. Il sergente di linea ci dà l’autorizzazione al decollo appena sono in pista. In breve sono nuovamente in volo, mi porto in sottovento e quando mi sto allineando in finale mi ricordo che debbo stare attento a non “richiamare” troppo alto, come ho fatto questa mattina: riduco motore e comincio a scendere puntando la pista, arrivo un po’ veloce, faccio un atterraggio corretto ma sono leggermente “lungo”. Ridecolliamo altre tre volte e Gabrielli non interviene. Mi corregge solo una volta perché inclino troppo in finale. A me è sembrato di esser andato bene, lui non è mai intervenuto sui comandi e mi domando quale sarà il suo giudizio. Dopo il quarto atterraggio mi dice di rullare verso l’hangar e di spegnere il motore. Noto che sta scrivendo sul libretto dove riporta le osservazioni sul volo e che poi utilizza nel debriefing con gli allievi. Mi dice che sono arrivato troppo veloce e pertanto ho superato il punto di contatto previsto. “Cerca di mantenere 85 km/h in finale, invece dei 90 km/h come hai sempre fatto” conclude. Per alcuni giorni non c’è attività di volo a causa delle pessime condizioni atmosferiche. Trascorro il tempo impegnato con le lezioni teoriche e l’istruzione militare che si svolgono all’interno di uno dei tre grossi hangar di Grottaglie utilizzati per il ricovero degli Zeppelin. Finalmente al quarto giorno il cielo è sereno anche se la temperatura è piuttosto bassa. All’appello sono il primo a cui viene assegnato il volo. Gabrielli viene verso di noi e si rivolge a me: “Salta sul primo velivolo disponibile”. Lo specialista aveva fatto girare il motore e così è già caldo. Sale al posto di pilotaggio dietro al mio e strilla per sovrastare il rumore: “Portati verso l’altra testata pista, il vento viene da Nord”. Rullo, mi allineo e decollo. Come istruito, eseguo due “touch and go” ed effettivamente, mantenendo 85 km/h in finale, gli atterraggi mi riescono meglio. Prende i comandi, saliamo a 1000 metri, effettua alcune virate sfocate con 90 gradi di inclinazione e mi invita a fare altrettanto ma le mie virate non vengono bene come le sue e sento che “scalcia” sulla pedaliera quando siamo inclinati. Terminato anche il volo con l’ultimo allievo, nel debriefing mi spiega che quando si è inclinati di 90 gradi i comandi di volo sono invertiti: il timone verticale si comporta come l’equilibratore e viceversa. Ecco perché continuava a “scalciare” sulla pedaliera, voleva che tenessi su il muso e non perdessi quota! Siamo così arrivati al 12 dicembre ed è un’altra giornata limpida, nemmeno tanto fredda. Siamo tutti sulla linea di volo, sono il secondo in turno. Dopo il decollo per circa 20 minuti effettuo virate strette, stalli con motore e senza. Cerco di entrare in vite con tutto motore e tengo su il muso finché questo si abbassa nonostante abbia la cloche “alla pancia”. Tolgo motore, allento la cloche e lascio che il velivolo continui con il muso basso e prenda velocità e poi ridò lentamente potenza. Quando livello Gabrielli mi batte sulla spalla: “Andiamo all’atterraggio!”, spento il motore salto giù dall’aeroplano e mi dice “Ci vediamo qui alle 14”. È presto e quindi me ne vado in aula fino a mezzogiorno e poi in mensa. Alle 13.20 sono di nuovo in linea di volo.

Il mio primo volo da solista in Italia
Il 28 dicembre trovo il m.llo Papa seduto davanti all’hangar, lo saluto e dico che ho un altro volo con Gabrielli, si alza e mi chiede di aiutarlo a portare fuori dall’hangar il velivolo con il numero 13 sulla fusoliera. Quando siamo sulla linea di volo mi dice “Salta dentro e preparati per la messa in moto”. Controllo che i serbatoi siano pieni ed effettuo la procedura prevista per la messa in moto. Il motore parte immediatamente, il motorista mi fa cenno di attendere che la temperatura dell’olio raggiunga i 60 gradi centigradi e rimane accanto al mio velivolo per accertarsi che tutto funzioni correttamente. Esce dall’hangar Gabrielli con accanto un allievo, gli dice di attenderlo e poi salta al suo mio velivolo indicandomi di rullare verso la pista e decollare. Effettuo un circuito, mi riporto in finale e atterro. Mi fa rullare fino all’hangar, mi dice di scendere e attenderlo e va in volo con l’altro allievo. Non capisco perché mi ha detto di scendere dall’aereo dopo un solo circuito. Sta in volo per quasi un’ora con l’altro allievo e quando rientra quest’ultimo salta giù e Gabrielli mi fa salire al suo posto. Appena allaccio le cinture salta giù, mi viene accanto e mi dice di rullare verso il punto di decollo e di attenderlo, parla con l’altro allievo, lo congeda e viene verso di me, mi batte sulla spalla: “Fatti questo volo da solo. Per te non è la prima volta, ricordati di fare attenzione alla velocità in finale. Sentirai l’aereo molto più leggero, trimma l’aereo appena sei in volo, avrà la tendenza a picchiare poiché gli mancherà il peso in coda. Sali a 300 metri, fai un circuito, vieni all’atterraggio, metti le ruote dove mi vedi, sarò accanto al punto di contatto. E mi raccomando… porta indietro l’aereo tutto intero! Auguri Americano!”. Mi fa un cenno per indicare che posso andare. Gradualmente do potenza di decollo, la coda comincia ad alzarsi e poco dopo sono in volo. Tengo ancora per un po’ l’aereo vicino al suolo per essere sicuro che la velocità sia sufficiente. Salgo a 300 metri e inizio il circuito. Quando sono in virata nel tratto controvento inizio la discesa verso il campo, riduco potenza e controllo la velocità all’aria sforzandomi di mantenere la lancetta dell’anemometro esattamente a 85 km/h. Prendo un riferimento sulla pista dove intendo posare le ruote, mentre sorvolo l’inizio pista porto la manetta al minimo. Galleggio vicino a terra senza toccare, tento di abbassare la coda senza risalire ma non vuole andare giù! Insisto ancora e, con qualche km/h in meno, la coda si abbassa e tocco sui “tre punti”. Dopo una breve corsa il velivolo si ferma. Rullo verso Gabrielli che mi attende, salta sull’ala e mi dice che sono arrivato un po’ alto ma ho fatto un discreto atterraggio per essere il primo volo da solo. Davanti a me c’è una distanza sufficiente per un altro decollo senza tornare indietro all’inizio pista, mi chiede di allinearmi controvento e aggiunge: “Fai due touch and go, attento a non mangiarti troppa pista”. Al mio secondo atterraggio arrivo un po’ alto, tocco esattamente in corrispondenza di Gabrielli e con la coda dell’occhio noto che agita il braccio, do motore e decollo nuovamente per effettuare un altro circuito, questa volta un po’ più largo. Nel tratto finale mantengo per un po’ la quota e quando mi sembra di essere alla giusta distanza e pendenza riduco motore e regolo la velocità all’aria tra gli 85 e 90 km/h. A poco meno di 100 metri dai limiti del campo tolgo motore e plano toccando più o meno come prima, giro e rullo verso Gabrielli. Lui sale nel posto dietro e mi dice di rullare verso l’hangar. Il m.llo Papa è davanti all’hangar e ci indica dove parcheggiare. Quando salto giù, Gabrielli mi stringe la mano ed esclama: “Rallegramenti!”. Anche Papa mi stringe la mano congratulandosi e mi augura buona fortuna. Gabrielli mi fa notare: “Dei tre atterraggi, il migliore era l’ultimo. Gli altri due non erano male ma eri troppo basso in finale. Se ci fosse stato del vento al traverso avresti potuto toccare con un’ala. Continua così e presto sarai assegnato ai Reparti”. Oramai è troppo tardi per tornare in aula e decido di andare nelle camerate. Alla sera al Circolo Sottufficiali incontro Zelardi e Muscolini e racconto loro che ho decollato. Si congratulano e mi ricordano che debbo offrire da bere a tutti i miei compagni. Poco dopo entra Gabrielli con altri due istruttori i cui allievi hanno pure loro decollato e mi presenta dicendo  “Questo è l’americano”. Prego Zelardi di dire loro che possono ordinare al bar del Circolo quello che desiderano, offro io. Zelardi ordina quattro bottiglie di spumante e altrettanto offrono i cinque allievi che festeggiano il primo volo da soli. È la prima volta che assaggio lo spumante e non mi dispiace! Bevo solo due bicchieri perché temo che mi dia alla testa, mi fermo al Circolo fino alle 23.30 e poi vado a dormire. Il giorno dopo il tempo non è favorevole e non si vola, al mattino abbiamo lezione di Navigazione e Meteorologia e al pomeriggio esercitazioni con il fucile e marcia in tenuta da combattimento. Durante gli esercizi mi capita a volte di sbagliare e qualche compagno ride e mi riprendo subito. L’istruttore non mi redarguisce come farebbe con gli altri allievi, è comprensivo, sa che ho difficoltà con l’italiano. Grazie al cielo gli allenamenti durano solo quattro ore, alla fine ci lasciano andare nelle nostre camerate e riposo fino all’ora di cena. Alla sera proiettano un film in caserma e lo vado a vedere insieme a Zelardi. Quando vado a dormire stento a prendere sonno, penso al mio decollo da solo e prima di addormentarmi prego Zelardi di svegliarmi domani mattina. La nuova giornata non è particolarmente bella, ma per fortuna le nubi sono alte e il vento spira da Sud-Est. Dopo l’appello vado in hangar, Gabrielli mi dice di rivolgermi al m.llo Papa e di farmi dare il velivolo sul quale ho volato l’altro giorno e rullare fino alla linea di volo. Riferisco a Papa che mi indica un aereo che ha il motore già caldo, metto in moto e rullo verso Gabrielli. Mi fa cenno di rimanere a bordo e dice “Ti ricordi quanto ti ho detto?”. Con la testa gli faccio un cenno affermativo e lui: “Va bene, portati controvento e decolla quando ti faccio segno”. Poco dopo sono nuovamente in volo da solo. Da allora non farò più nessun “doppio comando”, almeno finché resterò su questo velivolo.

Natale a Grottaglie
Dicembre arriva velocemente e siamo vicini a Natale. Il 23 tutta l’attività di volo è sospesa, vengono concordati i turni in modo che chi desidera trascorrere le vacanze con la famiglia sia esonerato dal servizio di guardia. È il primo Natale e la prima volta lontano da casa, scrivo alla mia famiglia per gli auguri e per informarli che sto bene e volo molto. Alcuni compagni che non vanno a casa per le vacanze mi invitano a unirmi a loro e ad andare a Taranto con delle ragazze che hanno conosciuto nelle sale da ballo. Taranto è una gran bella città, ed è una delle più grandi Basi Navali della Flotta Italiana. Divento molto amico del mio compagno di corso Carlo Muscolini, di Rimini, che mi sarà di grande aiuto nello studio delle materie d’esame. Trascorse le vacanze vengo trasferito sul Caproni Ca.100 I.F., più potente e molto più manovrabile e veloce. Durante i voli da solista salgo più alto di quanto prescritto per provare la piacevole sensazione dell’aria fredda e pura e godere della solitudine dell’alta quota.

Una “indisiplina” di volo
Il 19 gennaio 1934 vengo istruito a salire a tremila metri e rimanervi per venti minuti. È una di quelle giornate limpide e senza nubi, salgo alla quota come previsto e osservo l’ora sull’orologio del cruscotto e mi metto a circuitare. Quando ricontrollo l’orologio sono trascorsi solo dieci minuti, voglio vedere quanto ancora posso salire, do motore e tiro su leggermente. Il rateo di salita non è molto alto a questa quota e dopo diversi minuti arrivo a quattromila metri e mi metto a circuitare come istruito, osservando lo stupendo panorama. A questa quota posso ammirare tutto il “tacco” dell’Italia e, al di là dell’Adriatico, le montagne della Jugoslavia. Guardo l’orologio e noto che si è bloccato. “È ora di rientrare”, mi dico. Con la coda dell’occhio, sotto di me alla mia sinistra vedo un altro velivolo, e il pilota mi fa segno con il braccio di scendere dietro a lui. Scendo e mi porto alla sua destra: è il s.ten. Bucchi. Continuiamo a scendere, mi fa ancora cenno di seguirlo e di atterrare dietro di lui. Gabrielli mi attende all’hangar, Bucchi scende dal suo velivolo e vengono insieme verso di me che ho appena spento il motore. Bucchi mi chiede perché sono rimasto ben 90 minuti in volo e cosa facevo a quella quota. “Il mio orologio si è fermato”, rispondo. “Proprio quando ho visto il suo aereo, avevo iniziato a virare per rientrare al campo”. E, indicando l’orologio sul cruscotto, “È ancora fermo!”. Bucchi sorride e mi manda a quel paese in modo amichevole aggiungendo “Non andare più a quelle quote senza ossigeno, puoi perdere conoscenza e ammazzarti”. Mi chiede anche come mi sentivo a quella quota e rispondo che, a parte la sensazione di freddo, mi sentivo bene e… lo spettacolo era bellissimo. Rimasto solo con Gabrielli, mi confida che Bucchi, non vedendomi più, era preoccupato che mi fossi perso ed era venuto a cercarmi.

Gli esami per il brevetto di pilota militare
Tra lezioni in classe e voli il mese di gennaio trascorre velocemente. Vengo assegnato a un altro gruppo e dobbiamo impegnarci parecchio per essere pronti agli esami. Il m.llo Papa mi è di grande aiuto, mi spiega pazientemente il funzionamento dei motori, che ben difficilmente comprenderei durante le lezioni. Anche in Navigazione e Meteorologia il s.ten. Bucchi mi dà una grossa mano e così pure Zelardi mi aiuta a ripassare le lezioni al pomeriggio; mi confida che tra non molto dovrebbe essere assegnato a un Reparto di bombardamento in Nord Italia. Il 18 gennaio iniziano gli esami e la prima materia è Motori d’Aereo, che supero senza difficoltà. Tocca poi a Meteorologia che è un po’ più impegnativa. L’esame di navigazione prevede di elaborare un piano di volo da Grottaglie a un aeroporto situato nell’Italia centrale. Mi viene assegnato un volo da Grottaglie a Roma e ritorno. Grazie agli insegnamenti del s.ten. Bucchi mi classifico al 4° posto. Terminate le prove teoriche il 19 febbraio inizio quelle pratiche, dobbiamo affrontare gli esami di Ricognizione che comprendono Rilevazione Fotografica e Navigazione. Siamo fortunati per le condizioni meteorologiche buone, è una di quelle giornate limpide con poche nubi e alte. Quando è il mio turno mi vengono consegnati i documenti con la prova d’esame e ho pochi minuti per pianificare il volo e riferire all’ufficiale esaminatore. La prova di Ricognizione Fotografica prevede di localizzare e identificare una Stazione Ferroviaria situata tra Grottaglie e Taranto e fotografarla. Sul mio velivolo viene installata una grossa macchina fotografica, uno specialista mi spiega come usarla. Studio la carta geografica, la stazione non è molto distante. Decollo alle 14.26, salgo 800 metri e individuati i binari della ferrovia li seguo fino a localizzare la stazione e inizio a fotografare. Proseguo e fotografo anche un ponte a circa un centinaio di metri dalla stazione, ritorno dopo 19 minuti e consegno le foto che, una volta sviluppate, risultano di ottima qualità. Il giorno successivo, il 20 gennaio, la prova di Navigazione prevede di sorvolare Brindisi, tornare indietro, sorvolare Taranto e riportare per iscritto la ricognizione. Gabrielli sale sulla fusoliera accanto a me, mi segue mentre preparo il piano di volo e interviene con qualche osservazione. Quando sono pronto lo annuncio all’ufficiale esaminatore che mi autorizza al decollo. Vado dal m.llo Papa, mi assegna uno dei velivoli più recenti, metto in moto, alle 08.27 decollo con prua 080° per Brindisi. Sorvolando la città prendo nota per iscritto di tutto quanto vedo e poi torno indietro, passo leggermente a Ovest di Grottaglie e continuo per Taranto, circuito sulla città annotando accuratamente, in inglese, i dettagli più significativi. Ci sono due porti con molte navi, uno piccolo e l’altro più grande, quest’ultimo con un ponte all’ingresso. Sulla via del ritorno incrocio una coppia di velivoli e proseguo sulla rotta per Grottaglie. Atterro alle 09.57 dopo un’ora e mezza di volo, consegno il mio rapporto al s.ten. Bucchi che lo traduce all’Ufficiale della Commissione d’esami. Ora che tutti e cinque siamo rientrati dobbiamo attendere che la Commissione d’esami valuti i nostri rapporti e, se superiamo la prova, ci verranno consegnati il brevetto di Pilota Militare e l’Aquila d’Oro da portare al petto. Il giorno successivo c’è un altro gruppo di piloti che viene sottoposto agli esami, vado in linea di volo a curiosare e lì incontro il s.ten. Bucchi che mi chiede “Dove vorresti essere trasferito?”. Rispondo “A Gorizia o a Udine, dicono che lì ci siano le migliori squadriglie. Non è lì che gli italiani hanno combattuto la Grande Guerra? Mi piacerebbe visitare quei posti divenuti tristemente famosi”. Gli esami durano tre giorni, approfitto del fine settimana per riposare e poi ritorno nelle aule della Scuola dove, mentre attendo l’assegnazione al Reparto, Muscolini mi aiuta a perfezionare l’italiano e mi fa leggere alcuni quotidiani. Zelardi, che ha terminato il corso in anticipo, è già stato trasferito a Pisa. Purtroppo perderò ogni contatto con lui.

La consegna del brevetto
Tre settimane dopo, il 13 febbraio, mi viene rilasciato il Brevetto di Pilota Militare con Decreto Ministeriale n. 2886, bollettino n. 7, e consegnato il Foglio d’Ordine per presentarmi al 21° Stormo da Ricognizione Aerea di Gorizia, dove sarò assegnato a una delle Squadriglie dello Stormo. Il brevetto di volo e l’Aquila d’Oro saranno consegnati al nostro gruppo di 25 allievi con una cerimonia ufficiale che si terrà di fronte all’hangar n. 2 il 15 febbraio alle 10.30. Subito dopo potrò ritirare i documenti per il trasferimento al Comando e partire per il mio nuovo Reparto. Il giorno prima della cerimonia, mentre sono a pranzo, l’Ufficiale di Giornata mi comunica che debbo presentarmi in uniforme davanti all’hangar n. 1. Vado nella mia cameretta, mi cambio e mi dirigo verso l’hangar. Vicino all’ingresso vedo il col. De Bernardis che conversa con il magg. Baudoin. Il Colonnello si interrompe: “Ecco il tuo americano”, esclama rivolto al Maggiore. Mi avvicino e saluto, non riesco a trattenere un sorriso. Il magg. Baudoin mi saluta in inglese: “Come ti trovi qui?”, e io in italiano “Molto bene, signor Maggiore!”. Il Colonnello aggiunge “Stai pure a riposo” e, rivolgendosi a Baudoin: “Il ragazzo ha chiesto di essere assegnato ai Reparti operativi di Gorizia o Udine”, e il Maggiore: “Mica male! Vedrò domani cosa posso fare per te al mio rientro al Ministero”. Mi dà un pacca sulla spalla: “Sei sempre sorridente come quando ti ho conosciuto”, dice. “Faccio del mio meglio, Signore!”, rispondo e poi, continuando in inglese: “Posso sapere, Signore, a cosa è dovuta questa sua visita a Grottaglie? Immagino per la cerimonia di domani”, e lui: “Veramente sono qui per incontrare il Primo Ministro inglese. È prevista una sua sosta a Grottaglie prima di proseguire per Roma dove avrà un colloquio con il Duce per trovare un accordo con Malta circa l’insegnamento della lingua italiana nelle scuole di quel Paese”. Proprio in quel momento un trimotore Fokker arriva sulla verticale del campo e il Maggiore mi congeda dandomi la mano e augurandomi di tenere alto lo spirito, come sempre! Lo ringrazio e torno nella mia cameretta dove racconto tutto a Muscolini che condivide la mia scelta. Il mattino seguente ci svegliamo presto per pulire e riordinare le nostre camere che l’Ufficiale di Giornata ispezionerà. Tutto questo prima di presentarci all’Ufficio Operazioni per l’appello. Terminato l’appello il s.ten. Bucchi ci fa marciare verso l’hangar n. 2 dove alcuni familiari già attendono. Arriva il col. De Bernardi e ci ordina l’attenti. Il s.ten. Bucchi redige il rapporto, inizia la Messa e alla fine il Colonnello fa un breve discorso. Poi, aiutato dal s.ten. Bucchi, il Colonnello distribuisce il Brevetto di Pilota Militare agli allievi. Consegna anche un astuccio blu che contiene l’aquila d’oro con la corona reale che contraddistingue il pilota militare e ha qualche parola di augurio per ogni allievo. Quando tocca a me il Colonnello mi chiede se capisco quello che mi dirà. Gli rispondo “Penso di sì, signor Colonnello!”, e lui: “Sii orgoglioso di essere un pilota della Regia Aeronautica perché i piloti italiani sono considerati fra i migliori in assoluto. Ricordati di amare l’Italia e di servirla con onestà, fede e coraggio!”. Mi consegna il brevetto e l’astuccio con l’aquila, mi stringe la mano, mi batte sulla spalla e io rispondo “Farò del mio meglio, con l’aiuto di Dio, Signore”. Al termine della cerimonia si formano dei capannelli; i parenti o le fidanzate attorniano gli allievi e appuntano loro l’Aquila. Mi allontano dalla folla, incontro il mio istruttore con il m.llo Papa e altri colleghi che discorrono con il serg.m. Silvestri, mi avvicino a Gabrielli, lo saluto cordialmente e gli chiedo se posso avere l’onore di avere l’Aquila di pilota appuntata da lui. Mi fissa per un attimo senza parole e il m.llo Papa mi prende l’astuccio blu dalle mani e glielo porge, lui lo apre, è commosso, mi appunta l’Aquila e si congratula. Invito tutti al Circolo dei Sottufficiali per offrire da bere ma Gabrielli insiste per offrire lui e dopo aver brindato mi confida che ieri è giunto da Roma un dispaccio dal Ministero che prevede l’assegnazione di gran parte degli allievi ai Reparti da Bombardamento dislocati a Milano e Ferrara, nella lista non compare il mio nome. Ci rechiamo tutti quanti alla mensa e gli istruttori mi invitano al loro tavolo che è separato da quello degli allievi. Il capo degli istruttori è un anziano maresciallo pilota che ha fatto la Prima Guerra Mondiale, si chiama Sorrentino e mi fa sedere tra lui e Gabrielli. Mi dice che gli fa piacere conoscermi perché ha un ottimo ricordo dei piloti americani con i quali aveva volato durante la guerra. “Erano sempre allegri, sorridenti e di spirito!”, aggiunge. Quando Gabrielli gli dice che ho chiesto di essere trasferito a Gorizia gli si illuminano gli occhi: “Ho volato tante volte su Gorizia, Locchi la chiamava ‘Santa Gorizia’ per tutti i morti che ci è costata!”. Interviene anche Silvestri che è di Vicenza: “Io sono stato a Udine, Campoformido, al 1° Stormo ed ero spesso anche a Gorizia, un ottimo Reparto”. Il pranzo è speciale e non riesco a consumare tutte le portate, assaggio anche del vino che sorprendentemente non mi dà alla testa. Viene al nostro tavolo anche il s.ten. Bucchi e si mette a conversare in inglese, i suoi colleghi lo prendono in giro e gli dicono “Parla come tua madre ti ha insegnato. Vogliamo capire anche noi!”.

In attesa dell’assegnazione al reparto
Gli allievi che hanno ricevuto l’ordine di trasferimento ai Reparti cominciano a lasciare l’aeroporto già il giorno successivo. Rimango solo nella mia cameretta, Carlo Muscolini e Zelardi sono partiti, il primo per Ferrara e il secondo per Pisa. Per quattro giorni rimango a girovagare per l’aeroporto, vado alla linea di volo a curiosare e mi intrattengo con i nuovi allievi. Passo molto tempo facendo compagnia a Papa mentre lavora oppure con Gabrielli quando è libero dalle attività di volo. Il pomeriggio del quarto giorno arrivano gli ordini da Roma. La mia destinazione è Gorizia, debbo presentarmi al Comando del 21° Stormo da Ricognizione Aerea dove riceverò istruzioni. Scrivo al magg. Baudoin per ringraziarlo del grande aiuto che mi ha sempre dato. Gabrielli dice che sono fortunato perché Gorizia è bella e al 21° Stormo si sta bene. Il mattino seguente mi presento al Comando e il s.ten. Bucchi mi spiega quali sono gli ordini, si accerta che abbia capito tutto e mi consegna i documenti di viaggio. La partenza è prevista alle 17.30 con il treno per Bari, a Foggia debbo prenderne un altro per Venezia. Rassicuro il s.ten. Bucchi che troverò la strada come ho fatto quando sono venuto a Grottaglie. Il pomeriggio del 17 febbraio 1934 sistemo le ultime cose, riconsegno il materiale ricevuto in dotazione come previsto e porto le ricevute al Comando. Torno nella mia cameretta, chiudo il bagaglio e lascio fuori il libro Motori d’Aereo di Van Dykes, il libro di Navigazione di Yancey e gli occhiali che ho portato con me dagli U.S.A. e vado in hangar. Regalo a Papa il libro di Van Dykes che, anche se in inglese, trovava molto interessante per i disegni dettagliati di motori e mi scuso se mio padre non ha potuto inviarmene uno nuovo. Regalo i miei occhiali a Gabrielli che li ammirava sempre quando li portavo, vado infine nell’ufficio del s.ten. Bucchi e gli regalo il libro di Navigazione di Yancey, dicendogli che a lui sarà più utile in quanto ha studiato Navigazione Astronomica all’Accademia, e lo ringrazio per l’aiuto che mi ha dato. Ricambia e mi dice “Continua così come hai sempre fatto. Magari ci incontreremo da qualche altra parte, tra un paio di mesi lascio anch’io Grottaglie. Sii felice e buona fortuna!”. Intorno alle 16 sono al Circolo a prendere l’ultimo caffè, quando entra il m.llo Papa: desidera accompagnarmi alla stazione a prendere il treno per Foggia.

Finalmente a Gorizia
Come compagni di viaggio ho due colleghi destinati a Ferrara, ad un Gruppo da Bombardamento. Facciamo subito amicizia, a Foggia cambiamo treno e saliamo su quello diretto a Bologna e Venezia. Un ferroviere mi informa che a Venezia dovrò cambiare per Trieste, scendere a Monfalcone e prendere il treno per Udine via Gorizia. L’arrivo è previsto intorno alle 19, ventiquattro ore dopo aver lasciato Grottaglie. Finalmente scendo alla stazione di Gorizia, una stazione piccola e pulita. Sono stanco e ho fame, mi incammino lungo il viale alberato che porta verso il centro, dopo circa ottocento metri sulla destra c’è un parco con al centro un monumento in pietra bianca, sul lato opposto della strada vedo un bar.

Il caffe’ alle ali
Entro, appoggio il bagaglio in un angolo e la proprietaria viene al mio tavolo: “Sior, cosa la vol?”, mi chiede. Rispondo che ho molta fame e vorrei qualcosa da mangiare, mi guarda sorpresa per l’insolito accento e mi sorride. Poco dopo una signora più giovane mi porta un vassoio con del prosciutto, salame, formaggio e dei sottaceti: sarà la fame ma trovo tutto squisito! Due avieri entrano e si siedono al tavolo di fronte al mio e ordinano prosciutto e vino. Li saluto con due dita alzate; uno dei due, vedendo il mio bagaglio a terra, si avvicina e chiede da dove arrivo. “Dall’aeroporto di Grottaglie”, rispondo. Mi guarda in modo strano: “Intendo dire da che parte d’Italia vieni”. “Da New York, sono in Italia da cinque mesi”, rispondo e lui, rivolgendosi al compagno: “Ti presento un autentico americano di New York!”. Mi fanno alcune domande, poi chiedo il conto e pago anche il loro litro di vino, mi ringraziano e mi aiutano a portare il bagaglio. Usciamo in strada dove ferma l’autobus che porta il personale militare in aeroporto. È pieno di avieri e Sottufficiali che ridono e fanno confusione. Lasciata la città prendiamo una strada che passa accanto a delle caserme e ci porta diritti in aeroporto.

L’aeroporto di Merna
All’arrivo uno dei due ragazzi mi accompagna dall’Ufficiale di Giornata al quale consegno i miei documenti, me li restituisce dicendomi che dovrò presentarli al Comando del 21° Stormo domani mattina, chiama il sergente di guardia e gli chiede di accompagnarmi alla palazzina alloggi Sottufficiali e di cercarmi un letto. Ci incamminiamo lungo un viale interno, verso un edificio a tre piani che dista circa 100 metri dall’ingresso. Il sergente sale al secondo piano e lo seguo tra le camere; ne trova infine una con tre letti, due occupati e il terzo momentaneamente libero in quanto il legittimo occupante è in licenza. Il sergente mi dice “Per questa sera dormi qui, domani ti troveranno un’altra sistemazione”. Lo ringrazio e, cercando di fare il minimo rumore possibile, mi spoglio e scivolo sotto le coperte. Il mattino successivo non sono neanche le 7.30 che uno dei compagni di camera mi sveglia dicendomi “Sbrigati, altrimenti non troverai più nulla da mangiare!”. Lo ringrazio, vado in mensa a fare colazione e poi esco. Il Comando del 63° Gruppo, che comprende la 116ª , la 41ª e la 38ª Squadriglia, si trova in un piccolo edificio tra i due hangar della Ricognizione, proprio vicino alla palazzina Sottufficiali. Mi viene fatto cenno d’entrare, saluto e rimango accanto alla porta. Ci sono tre capitani che stanno ascoltando un Tenente Colonnello, immagino sia il Comandante del 63° Gruppo. Mi pare di capire che stiano pianificando le operazioni odierne. Quando hanno terminato il Comandante mi chiama e mi ordina “Riposo!”. Gli porgo i documenti, li osserva e mi chiede le ore di volo, nota subito che non parlo correttamente l’italiano e quando gli spiego il motivo si rivolge agli altri ufficiali dicendo “Signori, da oggi abbiamo un americano nel nostro Stormo!”. Mi porge la mano e così fanno gli altri. Poi si rivolge a me: “A quale Gruppo vuoi essere assegnato Udine, Padova o Bolzano?”. La domanda mi coglie di sorpresa e dopo qualche attimo rispondo “Veramente, Signore, se fosse possibile preferirei rimanere a Gorizia”. Sta per rispondermi quando il Capitano accanto a lui lo interrompe: “Abbiamo il serg. Renzo Merlini che tra uno o due giorni deve essere congedato, potremmo tenere il ragazzo al nostro Gruppo, ha lo stesso grado, andrebbe proprio bene”. Il Comandante si gira verso il tabellone con i nominativi dei Sottufficiali in forza al 63° Gruppo e dopo qualche secondo esclama “Sì, va bene, lo prenda lei”.

Assegnato alla 41ª Squadriglia
Il Capitano si rivolge poi a me: “Sono il cap. Arnoldo Marino, Comandante della 41ª Squadriglia, benvenuto tra noi”. Mi fa qualche domanda e sorridendo aggiunge “Non parlo molto bene l’inglese e questa è un’ottima occasione per fare un po’ di pratica”. Gli rispondo che in effetti il mio è un inglese americano ma che comunque non c’è tantissima differenza. Quando il Comandante di Gruppo mi congeda il cap. Marino mi chiede di attenderlo all’hangar della Squadriglia. Lo ringrazio per il suo intervento determinante a soddisfare il mio desiderio di rimanere a Gorizia e mi incammino verso l’hangar della 41ª. L’attività di volo sul campo è enorme ed un rumore assordante sovrasta tutti: cinque velivoli in formazione stanno effettuando un looping. Non ho mai visto nulla di così spettacolare, sono così preso nell’ammirare le loro acrobazie che cammino con lo sguardo in su e finisco con l’urtare un ufficiale. Lo saluto e mi scuso, intuisce che sono nuovo del luogo e risponde ridendo “Ragazzo, occhio a dove metti i piedi! Comunque non è nulla!”. Incontro uno dei due avieri che ho conosciuto la sera prima in trattoria e lo informo della mia assegnazione alla 41ª Squadriglia. Mi confida che è la migliore: ha i migliori specialisti e i migliori piloti e il comandante è un gentiluomo. Subito dopo arriva il cap. Marino che mi invita ad entrare, manda a chiamare il s.ten. Cozzi ed il s.ten. Lualdi che arrivano subito. Il Capitano mi presenta e spiega che sono il “nuovo acquisto” del Gruppo e che andrò a sostituire il serg. Merlini che lascerà il Reparto tra breve. Ci stringiamo la mano e poi il cap. Marino spiega loro il programma della giornata. Congedati i due sottotenenti mi illustra le regole, l’attività e l’addestramento della Squadriglia e quali saranno i miei compiti. Conclude dicendomi “Il 21° Stormo ha avuto l’onore di avere come Comandante di Stormo, fino ad aprile dello scorso anno, Sua Altezza Reale Amedeo di Savoia Duca d’Aosta, nipote del Re d’Italia. Ora comanda il 4° Stormo Caccia ma spesso torna in visita al nostro Reparto, vedi di essere sempre in ordine con la divisa quando non sei impegnato in attività di volo!”. Gli chiedo “Come faccio a riconoscere Sua Altezza il Duca?”, e lui: “È facile, è la persona della Base più alta di tutti, 1 metro e 98!”. Il capitano fa chiamare il serg. Merlini. Ci presenta e gli chiede di accompagnarmi a sbrigare tutte le pratiche concernenti l’attività di volo, inserirmi nel ruolino della Squadriglia e farmi assegnare una camera. Impiego quasi un’ora per sistemare tutto e tornare alla Squadriglia.

Un brindisi con la mia nuova squadriglia
Merlini mi dice “Hai ordinato qualcosa per festeggiare il tuo arrivo?”. Rispondo che non ci avevo pensato e così mi accompagna al Circolo Sottufficiali, nello stesso edificio dove ho dormito. Ordino quattro bottiglie di vermouth Martini e una trentina di pasticcini, chiedo al barista di consegnarli nell’hangar della 41ª Squadriglia alle 11.30. Salgo con Merlini nella mia camera, sistemo le varie cose e torniamo alla Squadriglia. Nel frattempo sono rientrati i due velivoli che erano in volo: piloti ed osservatori sono a rapporto nell’ufficio del Capitano. Terminato il colloquio, il cap. Marino viene in hangar e convoca tutto il personale della Squadriglia, mi chiama accanto a lui, mi presenta e spiega che sono il nuovo arrivato e che ora faccio parte della famiglia. Aggiunge che non parlo ancora bene la loro lingua e quindi sono tutti pregati di aiutarmi. Lo ringrazio e invito i presenti al centro dell’hangar dove i meccanici hanno montato un tavolo e il barista lo ha allestito. Il più anziano della Squadriglia versa il vermouth, porge il bicchiere prima al Capitano e poi a me, gli altri si servono da soli. Il Capitano, esclama “Cin, cin!” alzando il bicchiere e tutti, in coro, lo imitano, il barista in giacca bianca passa tra gli invitati offrendo i pasticcini su un vassoio. I colleghi mi stringono la mano e si rallegrano dandomi il benvenuto alla 41ª Squadriglia.

Alla mensa sottufficiali
È ora di pranzo, ci salutiamo e avviamo verso la mensa, al piano terra della palazzina Sottufficiali, sotto i nostri alloggi. Salgo un attimo nella mia cameretta, mi rinfresco e scendo alla mensa, non vedo i miei compagni di Squadriglia finché mi sento battere sulla spalla: è Merlini che mi accompagna al tavolo dove sono seduti i Sottufficiali anziani e mi presenta al maresciallo responsabile della mensa, che mi porge la mano e dice “Sei il benvenuto. Per qualunque problema rivolgiti pure a me! Accomodati e serviti!”. Mi siedo accanto ai piloti e specialisti della mia Squadriglia: i m.lli Mariani e Madussi, entrambi piloti della Grande Guerra, i serg.m. piloti Blason, Giusti, Fusacchia, Falabracco, Cavallo e Merlini; i motoristi m.llo Breda, il più anziano e che ha fatto la Prima Guerra Mondiale, il serg.m. Montresor, Della Rovere, Rigger, il serg. Gatti e il serg. Della Rosa, armiere della Squadriglia. I piloti sono 11, compreso il cap. Marino, il s.ten. Cozzi e Lualdi. Mi fanno tutti un sacco di domande. Quando sto per alzarmi Merlini e Falabracco mi presentano alcuni piloti del 4° Stormo che, dopo le solite domande di rito, mi chiedono informazioni sui caccia americani. Spiego che non ho fatto il pilota militare negli U.S.A. ma che avevo solo il brevetto civile, ho appreso dalle riviste quello che so sui caccia americani e concludo “In ogni caso la Curtiss e la Boeing fanno aerei niente male!”.

Al circolo sottufficiali
Lasciamo la mensa e ci spostiamo al bar, mentre prendiamo un caffè sento provenire da un’altra sala del Circolo le note di un piano, riconosco l’aria di “Stormy Weather”, poso la tazza sul bancone e mi lascio guidare dalla musica verso il sergente che suona senza spartito, è molto bravo. Quando finisce mi chiede se anch’io suono. “Solamente il campanello di casa”, rispondo, e lui sorridendo osserva “Tu non sei italiano”. Parla un po’ d’inglese e mi dice di essere napoletano, si chiama Mario Tessieri. Merlini intanto sta giocando a ramino con i colleghi, è ora di tornare alla Squadriglia e il cap. Marino mi dice che sono libero il pomeriggio per ambientarmi nell’aeroporto. Posso lasciare la base al termine dell’attività giornaliera ma dovrò essere di ritorno non oltre le 21. Rimango nell’hangar della 41ª per conoscere meglio i nuovi colleghi, Merlini mi presenta ai m.lli Mariani e Madussi, due piloti che hanno partecipato alla 1ª Guerra Mondiale. Mariani è un tipo molto gioviale e allegro che racconta spesso barzellette che anch’io comprendo. Mi confida che durante la Grande Guerra ha istruito alcuni piloti americani a Foggia e ora, guarda caso, gliene capita un altro a Gorizia. Mentre sto curiosando tra gli aerei della Squadriglia sono distolto dal rumore di alcuni velivoli del 4° Stormo Caccia che scaldano i motori accanto ai tre hangar a Sud dell’aeroporto, verso Merna. Mi viene il desiderio di andarli a vedere da vicino e chiedo consiglio a Merlini che mi risponde “Vai pure ma vedi di non intralciare il lavoro degli specialisti e torna presto”.

Una visita agli hangar del 4°Stormo
Per arrivare dall’altra parte dell’aeroporto, verso Merna, ci vogliono una decina di minuti. Percorro il vialetto interno parallelo alla strada e quando sono in prossimità dell’hangar della 73ª e 97ª Squadriglia, quello più a est dei tre, mi tengo un po’ in disparte per non interferire con le operazioni. Due sergenti piloti mi vedono e mi chiedono cosa faccio lì, rispondo che osservo i velivoli e uno dei due mi dice “Sei della Ricognizione? Vuoi salire su un CR Asso e vederlo da vicino? Vieni pure”. Mi accompagnano all’interno dell’hangar e mi fanno salire nel posto di pilotaggio. Osservo gli strumenti e noto subito le due mitragliere Vickers davanti al pilota ed il collimatore del tipo a telescopio. Il sedile di pilotaggio è confortevole nonostante l’abitacolo sia alquanto stretto. Mentre scendo si avvicina un Sottotenente e chiede se sono un nuovo arrivato della Squadriglia. “Nossignore”, rispondo. “Sono della 41ª Squadriglia Ricognizione Aerea … purtroppo!”. Sorride e si allontana. Sulla coda del velivolo c’è la scritta “FIAT” e sotto C.R.A. Chiedo cosa vuol dire “C sta per Caccia, R per Rosatelli, il progettista, e A per Asso, il nome del motore”, mi rispondono. Mi spiegano pure che il motore è un 12 cilindri a “V”, raffreddato ad aria e con una potenza di 500 Cavalli (HP), costruito dalla Isotta Fraschini. “È un ottimo aereo”, aggiunge uno dei due. “Molto manovrabile e adatto all’acrobazia”. “Chissà che non diventi pure io un pilota da Caccia, un giorno”, rispondo. Ringrazio e ci salutiamo.

La vita al reparto
Il pomeriggio passa velocemente, tutti i velivoli vengono ricoverati nell’hangar mentre quelli che provengono da altri aeroporti rientrano alle rispettive basi. Rimango in aeroporto, dopo cena vado al Circolo ad ascoltare la radio e a veder giocare a biliardo, intorno alle 22 vado a dormire. Il mattino del 21 febbraio Merlini mi sveglia chiedendomi di sbrigarmi, facciamo colazione insieme e poi subito all’hangar. Il cap. Marino è già lì a decidere con il m.llo Breda quali aerei sono da mettere in linea. Salutiamo il Capitano e Merlini lo informa che il suo congedo sarà pronto tra dieci giorni. Chiedo al Capitano se posso rendermi utile aiutando il personale tecnico a portare i velivoli sulla linea di volo. Mi risponde che il m.llo Breda apprezzerà il mio aiuto: questa mattina è a corto di personale. Spingiamo fuori dall’hangar quattro grossi biplani e un piccolo monoplano, il Ro.5, di dimensioni simili al Farchild 22. Il cap. Marino chiama il m.llo Mariani e gli chiede di farmi un briefing sul Ro.5 e un volo a “doppio comando”. Mi siedo al posto di pilotaggio, Mariani mi spiega gli strumenti e i comandi, mi illustra le manovre e i parametri di volo e poi si sistema nel posto dietro. Il meccanico è pronto davanti all’aereo, ordina “Contatto!”, “lancia” l’elica e il motore parte subito. Mariani mi dice di rullare e quando il sergente della linea agita bandiera verde decollo. Facciamo due giri campo, al terzo mi fa fare un paio di “otto” e poi dice “Andiamo all’atterraggio, americano!”. Il cap. Marino ci attende all’hangar e quando Mariani lo raggiunge gli chiede “Come va il ragazzo?”. Gli risponde in dialetto veneto e non riesco ad afferrare la risposta. Il Capitano intuisce che non ho capito, sorride e dice “Torna sull’aereo che ti fai questo voletto da solo!”.

Il primo volo a Gorizia
Dopo essermi sistemato nell’abitacolo il Capitano mi chiede se sono pronto, rispondo “Sissignore, questo aereo è molto simile a quello che pilotavo negli U.S.A.”, e lui: “Fai tre circuiti e atterra!”. Decollo senza problemi, mi porto in sottovento, poi in finale, infine atterro e riparto. Quando sono in finale per la terza volta vedo un caccia più alto dietro a me, do motore, risalgo e virando a destra mi riporto nuovamente in sottovento e atterro. Quando scendo dall’aereo il cap. Marino e Mariani, che non avevano perso d’occhio un istante il mio velivolo, mi vengono incontro. “Cosa è successo?”, mi chiede il Capitano. “C’era un caccia dietro a me e l’ho fatto passare perché più veloce”, rispondo. “OK, hai fatto bene. Tieni sempre gli occhi aperti quando sei sul campo”. Mi fermo in linea per un’altra ora con il cap. Marino e al momento di congedarmi il Capitano mi invita a recarmi nell’Ufficio della Squadriglia ad aiutare il serg. Falabracco a compilare i Registri di Volo, cosa che a turno tutto il personale di volo fa quando è libero da altre attività. Il serg. Falabracco, un pilota fra i più anziani Sottufficiali di carriera della 41 ª Squadriglia, mi spiega come e quali dati debbo prelevare dallo “Stralcio Voli” della giornata che un addetto compila a ogni atterraggio e decollo. I velivoli sono contraddistinti da un numero di serie e debbo riportare i minuti di volo sul relativo libro della “cellula” e su quello del “motore”. Ciò permette agli specialisti di avere sempre sotto controllo le ore della cellula e del motore di ogni velivolo e programmare le ispezioni periodiche, dalle 50 ore di volo in su. Giovanni Falabracco ha i libri abbastanza aggiornati e il lavoro non è particolarmente gravoso, comunque non complicato. Lo chiamo “Johnny”, all’americana, è contento di questo soprannome e nasce tra noi una profonda amicizia, con la sua pazienza e tenacia imparo molte nuove parole d’italiano, è un anziano della Squadriglia. Ho notato che tutti i libri dei velivoli portano in copertina una grande scritta: “Ro.1”, Johnny mi spiega che la sigla sta per “Romeo n. 1” , il velivolo viene costruito dalla IMAM di Napoli su licenza della Fokker, e aggiunge “È prassi che i nuovi piloti che giungono in Squadriglia volino inizialmente con il Ro.5 o con il Ca.100 e solo successivamente, quando hanno preso confidenza con le procedure e la zona, transitano sul Ro.1”.

Il Duca
Sono a Gorizia da circa una settimana, Johnny e io siamo seduti davanti all’hangar della 41ª dove nessuno ci può disturbare. Mi sta insegnando la corretta pronuncia di alcuni verbi italiani e le espressioni di uso comune quando notiamo un ufficiale molto alto, accompagnato da altri quattro, dirigersi verso di noi. Mi dico “Deve essere il Duca”. Quando si avvicinano ci mettiamo sull’attenti e salutiamo. Uno degli ufficiali è il cap. Marino che mi chiama. Davanti a Sua Altezza Reale saluto nuovamente rimanendo sull’attenti. Lui ordina il riposo, mi chiede il nome e da che parte degli Stati Uniti vengo, quante ore ho fatto prima di venire in Italia, da quanto sono in Italia, se ho fratelli, ecc., e tutto in un perfetto inglese. Rispondo a tutte le domande e aggiungo che mi trovo a mio agio in Italia, sono tutti molto disponibili e sempre di buon umore. Mi chiede cos’è il libro che ho in mano e gli rispondo che studio l’italiano con l’aiuto del mio collega. Mi batte sulla spalla: “Nel caso tu abbia bisogno di qualsiasi cosa”, aggiunge, “fammelo sapere”. Il Duca si dirige verso un Ro.1, stringe la mano al m.llo motorista Breda che ha già scaldato il motore e sale a bordo. L’Aiutante di Campo, magg. Raoul Moore, si sistema nel posto dell’osservatore e poco dopo decollano. Il cap. Marino torna verso di noi, ci alziamo in piedi, ci fa cenno con la mano “Comodi!”, e si rivolge prima a Falabracco: “Bravo Falabracco ad aiutare Patriarca con l’italiano!”, e poi a me: “Bravo Patriarca, mi è piaciuto il modo in cui hai risposto a Sua Altezza. Da oggi, ogni volta che saremo soli, mi devi parlare in inglese. Così potrò migliorare la mia pronuncia”. Con un sorriso gli rispondo che se dovrò parlare in inglese sarà difficile che impari l’italiano! Johnny aggiunge “Conosce le parole ma ha sempre un dannato accento del quale non riesce a liberarsi”, e il Capitano: “L’importante è che impari la lingua. L’accento non è un problema!”, e continua “Com’è andata la compilazione dei Registri di Volo? Patriarca ha capito qualcosa?”. Johnny risponde che i libri sono stati aggiornati e che l’ho aiutato. Infine il Capitano ci congeda: “Va bene. Voi due per oggi avete finito, avete il pomeriggio libero. Se volete, andate pure a Gorizia ma rientrate prima delle 21”. Andiamo al cinema e poi in un ristorante che Johnny conosce dove ceniamo da veri signori, siamo di ritorno in aeroporto prima del previsto e quando salgo nella mia cameretta trovo Merlini che prepara i bagagli. È arrivato il suo congedo e domani mattina se ne torna nella sua vecchia e cara Milano. La Squadriglia organizza una festicciola d’addio dopo cena e il cap. Marino gli fa omaggio di un portasigarette d’argento con l’emblema dello Stormo, tutti gli auguriamo il meglio. Il mattino successivo siamo svegli presto, Merlini passa al Comando a ritirare i documenti e il foglio di viaggio e poi torna alla Squadriglia per salutare tutti noi. Non lo rivedrò più e non avremo più sue notizie salvo qualche cartolina alla Squadriglia.
Non sono neanche le 7.30 e sono già nell’hangar della 41ª, trovo il cap. Marino con il m.llo Breda ed altri due motoristi, stanno spingendo gli aerei fuori dell’hangar verso la linea di volo e poi li mettono in moto per scaldare i motori. Mi avvicino al Capitano, lo saluto e gli dico che immaginavo di essere il primo ad arrivare in hangar questa mattina ma lui mi ha battuto nuovamente, sorride e mi risponde che sono almeno 40 minuti che lavorano, mi invita a seguirlo in ufficio e a parlare in inglese. Il suo è un inglese scolastico, grammaticalmente corretto, e la pronuncia è perfetta. Tutti i piloti della Squadriglia arrivano in orario, alle otto, e contemporaneamente suona la sirena che segna l’inizio della giornata lavorativa.

In volo con il Ca.100
Prima di congedarmi il cap. Marino mi dice che oggi andrò in volo con il Ca.100 e dovrò rimanere sul campo a 1500 metri in modo da poter essere visto da terra. Dovrò effettuare delle virate sfogate a destra e sinistra, cabrate e stalli con e senza potenza e infine simulare una “piantata” di motore e, mantenendolo al minimo dei giri, portarmi sopra la pista a 800 metri e atterrare con un 360°. Alla fine mi chiede se ho compreso bene quello che debbo fare. Usciamo dall’ufficio, il Capitano chiede a Breda se il Ca.100 è pronto e poi rivolgendosi a me “Metti in moto, vai e fai attenzione”. Decollo, mi porto a 1500 metri e inizio le manovre, nonostante la quota riesco ancora a distinguere alcuni uomini, dei puntini davanti all’hangar, che mi osservano. Effettuo delle cabrate molto ripide, tengo il muso alto finché l’aereo perde velocità, vibra ed è quasi in stallo, abbasso dolcemente il muso e mi metto in volo orizzontale. Do potenza, prendo velocità abbassando nuovamente il muso, tiro su quasi in verticale, ruoto l’aereo a destra con gli alettoni e il piede. Quando sono quasi a testa in giù cerco di ruotare a sinistra ma l’aereo “vuol continuare” a destra e mi ritrovo, qualche secondo dopo, diritto e con le ali livellate. Ho eseguito un “roll”, tonneau in italiano, invece di un “wing over”, virata sfogata in italiano. Ripeto la manovra con minore pressione sulla pedaliera, usando di più la cloche e riducendo motore quando sono a testa in giù. Faccio due tonneau a destra e due a sinistra, scendo a 800 metri sulla verticale del campo, porto la manetta al minimo, disinserisco i magneti, abbasso il muso e mi metto in una leggera virata a sinistra. Quando sono nel tratto controvento mi accorgo di essere un po’ alto, incrocio i comandi, pedaliera a destra e cloche sinistra, in modo da scivolare d’ala e perdere quota rapidamente. Tocco sui tre punti, smaltisco la velocità e mi fermo in mezzo al campo. Il m.llo Breda mi raggiunge, dà un colpo secco all’elica, il motore riparte e rullo fino all’hangar. Quando scendo il cap. Marino si avvicina e mi dice in inglese “Molto bene, Patriarca! Hai fatto i tonneau lenti volutamente o ti sono riusciti per caso?”. “Veramente, Signore, ho usato eccessiva pedaliera con la cloche tirata e l’aereo è entrato in autorotazione”, rispondo. Lui sorride e si allontana. Chiedo a Johnny cosa pensa delle mie manovre. “Andava tutto bene ma cerca di essere più dolce sui comandi”, risponde. Un giorno sono con il cap. Marino davanti all’hangar e gli chiedo quando pensa che potrò iniziare a volare con il Ro.1. Mi risponde di avere pazienza perché dovrò trascorrere almeno sei mesi in Squadriglia ed avere l’autorizzazione dalla 2ª Zona Aerea Territoriale di Padova. Sono a Gorizia solo da due mesi e quindi non riprendo più l’argomento con il cap. Marino. Circa un mese dopo, il 16 aprile, appena atterrato il m.llo Breda mi avvisa che il Capitano mi vuol vedere in ufficio. Dico al s.ten. Cozzi, appena uscito dal suo ufficio con dei documenti in mano, che il Capitano mi ha chiamato, mi annuncia e mi fa cenno di entrare. Quando il s.ten. Cozzi esce il cap. Marino tira fuori una lettera e mi chiede di leggerla. C’è scritto il mio nome e “Autorizzazione”: posso iniziare l’addestramento per il “passaggio” sul Ro.1, il grosso biplano costruito su licenza della Fokker. “Domani, se è bel tempo”, aggiunge il Capitano, “inizierai il doppio comando con uno degli istruttori anziani e, quando lo riterrà opportuno, ti farò un controllo in volo e potrai volare da solo”. Mi congeda poiché ha altre cose da fare, lo saluto e ringrazio.

Il doppio comando con il Ro.1
Mi confido con Johnny: è lieto per me e dice che sono fortunato, solo pochi piloti giovani vengono autorizzati a volare sul Ro.1 dopo un paio di mesi, la regola è dopo un anno di permanenza in Squadriglia e in alcuni casi anche più tardi. Andiamo in hangar e salgo nel posto di pilotaggio di un Ro.1 per ambientarmi con i comandi e la strumentazione, finalmente volerò con un velivolo militare disegnato da “Anthony” Fokker, famoso progettista d’aerei. Il giorno dopo, il 17 aprile sono in hangar al mattino presto, prima del cap. Marino, ancora in ufficio a preparare il programma di volo giornaliero. Quando arriva mi dice che andrò in volo con il m.llo Mariani, il velivolo che dobbiamo prendere è in volo per una missione di pattugliamento con altri Ro.1 lungo il confine con la Jugoslavia. Al loro rientro vengono subito riforniti, Mariani mi dice “Salta dentro al n. 8” e sale sulla semiala inferiore, accanto al mio posto di pilotaggio. Si accerta che conosca bene i comandi di volo, gli strumenti di bordo e le manovre da compiere. Prima di mettersi al posto dell’osservatore mi raccomanda “Attento che il Ro.1 ha il carrello con le ruote alquanto vicine tra loro e dunque fai attenzione in atterraggio se c’è vento al traverso. C’è il rischio che tocchi terra con un’ala e poi metti giù il muso con una conseguente ‘capottata’! Farò io il primo decollo e l’atterraggio. Tu seguimi sui comandi”. Si sistema al posto dell’osservatore e mi dice di mettere in moto, prende i comandi e rulla verso il sergente della linea, mette il muso controvento e decolla: sono le 10.10. Facciamo un circuito sul campo e seguo le sue manovre con le mani e i piedi leggeri sui comandi. Quando siamo in “sottovento” e abbiamo lasciato il traverso dell’inizio pista, inclina e comincia a scendere dolcemente. Termina la virata a circa 500 metri dalla pista, perfettamente allineato, tocca sui tre punti e quando l’aereo è quasi fermo mi dice di prendere i comandi e rullare verso la posizione di decollo. Mi allineo e quando il sergente mi dà la bandiera verde aumento gradatamente la potenza. La velocità cresce e spingo avanti la cloche per alzare la coda, una manovra delicata, non bisogna eccedere perché si può toccare il suolo con l’elica. Allento la pressione sulla cloche perché aumenta l’efficacia dei comandi, l’aereo si stacca da terra quasi da solo dopo una breve corsa, non c’è bisogno di “tirare”. Salgo a 500 metri e circuito sul campo. Per due volte Mariani scuote la cloche, mi volto verso di lui per vedere cosa vuole, è per verificare che tenga bene saldi i comandi e mi mostra il pollice alzato che vuol dire “tutto OK”. In sottovento, dopo il traverso della pista, inclino e inizio l’avvicinamento mantenendo la velocità tra i 90 e 95 km/h. Quando sorvolo i limiti del campo metto il motore al minimo e continuo planando, tocco sulle ruote anteriori e al calare della velocità la coda si abbassa da sola e tocca il terreno. La corsa di atterraggio è breve, quando mi fermo Mariani dice di fare un altro circuito cercando di atterrare sui “tre punti” cioè toccando contemporaneamente con il carrello principale e il ruotino. Mi consiglia anche di tenere la velocità tra 85 e 90 km/h e di non livellare troppo alto quando sono vicino al suolo. Facciamo un altro circuito e, non so se per caso o per abilità, tocco perfettamente sui tre punti. Ripartiamo per un ultimo circuito e anche questo atterraggio mi riesce bene, Mariani interviene solamente sulla pedaliera per correggere una mia leggera imbardata. Rullo verso l’hangar e spengo il motore, Mariani salta giù ed entrambi ci dirigiamo verso lo spogliatoio. Mentre ci togliamo la tuta di volo mi dice che debbo abituarmi ad atterrare sempre sui tre punti e il più “corto” possibile in quanto la nostra Squadriglia opera su campi molto corti, soprattutto in montagna. Poco dopo arriva Johnny e chiede a Mariani come sono andato, gli risponde qualcosa che non capisco e che fa ridere entrambi, e aggiunge “Per essere la prima volta che vola sul Ro.1 non è male! Ed ora andiamo al Circolo che Patriarca ci deve pagare un Vermouth”. È ora di cena e dal Circolo ci spostiamo alla sala mensa che è accanto, sullo stesso piano. Mentre stiamo mangiando Johnny mi confida che Mariani mi sta dando un bell’aiuto e mi consiglia di fare tutto quello che dice: “Ti sta facendo crescere le piume per farti volare!”, aggiunge, e io: “Anche le galline hanno le piume, ma non sono buone a volare!”. Ride e osserva che in compenso sono buone arrosto. Trascorro il pomeriggio con Johnny ad aggiornare i registri delle ore di volo degli aerei e dei motori, quando abbiamo terminato andiamo al cinema dell’aeroporto dove proiettano un film su Pancho Villa con Wallace Berry. Dico a Johnny che non mi sarei mai aspettato che Wallace Berry parlasse così bene l’italiano e lui ride divertito. Il giorno dopo vado nuovamente in volo con Mariani e questa volta mi fa vedere come si fanno le virate sfogate. Provo a farne una a destra e poi una a sinistra, mi corregge perché non riduco potenza quando l’aereo esce dalla manovra e me ne fa fare altre due. Questa volta ce la metto tutta! Appruo l’aereo, quando ha sufficiente velocità cabro finché sono vicino allo stallo, do piede e cloche dallo stesso lato, l’aereo quasi gira su se stesso e abbassa il muso, riprendo velocità e livello. Mi volto per guardare la sua faccia: ha il pollice alzato, vuol dire che va tutto bene, e mi fa cenno di stare fuori dall’area aeroportuale. Siamo circa su Gradisca quando Mariani mi batte sulla spalla per dirmi che prende lui i comandi. Circuita un po’ sulla cittadina, mette l’aereo in una ripida affondata con tutto motore e tira un mezzo looping, in cima rovescia, riduce il motore e l’aereo esce dolcemente dalla manovra. Quando siamo livellati saluta qualcuno a terra facendo oscillare ripetutamente le ali, non riesco a vedere chi sia. Mettiamo prua verso l’aeroporto e mi fa atterrare, salto giù dall’aereo, mi dice soltanto “Va bene. Bravo americano!”. Per tre giorni non volo più a causa delle cattive condizioni meteorologiche, c’è un forte vento che qui chiamano bora, approfitto con Johnny per continuare le lezioni d’italiano e nel tempo rimanente aggiorniamo i registri dei velivoli, dei motori e anche i libretti di volo degli altri piloti.

Il decollo con il Ro.1
Il 28 aprile è una giornata serena, non c’è la bora ma spira una leggera brezza, tutti gli aerei sono allineati davanti all’hangar sulla linea di volo e mi preparo a volare con Mariani. Decolliamo, facciamo due circuiti e atterriamo. Torniamo all’hangar e Mariani mi chiede di rimanere a bordo, penso tra me “Forse deve andare in ufficio”. Quando ritorna è in compagnia del cap. Marino, mi dice “Puoi decollare da solo. Attendi che il m.llo Breda ti sistemi un sacco di zavorra nel posto dell’osservatore”. Il sacco di sabbia deve compensare il peso mancante dell’istruttore. Quando è tutto pronto il Capitano sale sull’ala inferiore, mi viene vicino e mi dice “Occhio agli aerei che sono intorno. In bocca al lupo!”. Anche Mariani si avvicina, mi dà gli ultimi consigli e poi con l’indice puntato all’occhio mi ricorda di stare attento. Metto in moto e rullo verso il sergente della linea, dopo pochi secondi sono in volo, tengo l’aereo vicino a terra fino al limite del campo e poi inizio la salita fino a 500 metri, non trovo difficoltà alcuna, i primi voli da solo sono quelli che più si apprezzano. Mi porto in sottovento, in finale tengo 95 km/h, a circa trecento metri dai bordi del campo porto la manetta al minimo e plano, tocco sui tre punti e mi fermo dopo un breve rullaggio. Rullo verso l’hangar e vedo il cap. Marino che agitando un braccio mi fa cenno di ridecollare. Effettuo un altro circuito, dopo l’atterraggio Mariani mi attende con il Capitano vicino al sergente addetto alla linea, quando gli sono accanto mi fa cenno di fermarmi, salta sull’ala e mi dice di rullare verso l’hangar. Il cap. Marino invece ci segue con la bicicletta, quando spengo il motore e scendo Mariani mi dice “OK, va bene. Atterra sempre così!”. Il Capitano si avvicina e mi stringe la mano, arriva pure Johnny che si congratula e mi passa una mano tra i capelli. Da questo momento mi vengono date tutte le opportunità per volare con il Ro.1, ogniqualvolta se ne presenti l’occasione: quando c’è da provare un motore revisionato o nuovo o altro. Effettuo delle missioni di navigazione di corto raggio e il cap. Marino ogni volta controlla i miei rapporti che Johnny mi aiuta a compilare in italiano. Inizio anche l’addestramento al volo in formazione, prima con due velivoli, poi con tre e quando dimostro di essere un buon gregario passo alle formazioni da cinque e sette velivoli. A volte capita che mentre sorvoliamo il campo una pattuglia di velivoli da caccia del 4° Stormo si affianchi alla nostra. Un giorno, dopo l’atterraggio, il Comandante di una pattuglia del 4° Stormo viene nel settore della Ricognizione a salutarci e si complimenta con il cap. Marino per come teniamo la formazione.

Un volo di ricognizione
L’addestramento sul Ro.1 continua e un mattino il Capitano mi chiama nell’ufficio per informarmi che dovrò sottopormi a un esame di navigazione. Avrò a bordo, al posto dell’osservatore, un operatore fotografico che effettuerà delle rilevazioni. Spiega una carta geografica sulla scrivania: dovrò partire da Gorizia, passare al traverso di Campoformido, dirigere su Aviano, su Casarsa, invertire la rotta puntando su Palmanova e ritornare a Gorizia. Elaboro il piano di volo, calcolo le prue delle varie tratte, le distanze e il tempo di volo totale previsto, che risulta di un’ora e venti minuti. Sottopongo il tutto al Capitano che mi risponde “OK, va bene. Domani mattina decolli alle 9.00. Comunicalo al m.llo Breda”. Il giorno dopo, il 2 maggio, mi viene assegnato il velivolo n. 8 che è stato revisionato da poco ed è tutto luccicante e verniciato color argento. Il mio osservatore è il caporal maggiore marconista Taborra. Il m.llo Breda mi informa che il motore è già riscaldato e così vado in ufficio dal cap. Marino che mi autorizza al decollo. Con Taborra andiamo a bordo, ci accertiamo di avere abbastanza carburante e che tutto funzioni correttamente, mettiamo in moto, il m.llo Breda ci toglie i tacchi e decolliamo. Passiamo vicino a Udine e sorvoliamo Campoformido, base operativa del 1° Stormo Caccia. Dirigiamo su Aviano che dista una quindicina di minuti di volo, circuitiamo per qualche minuto e viriamo per Casarsa il cui aeroporto si individua da lontano grazie all’enorme hangar per i dirigibili Zeppelin. Il cielo è limpido e la visibilità ottima, mentre dirigo su Casarsa scorgo in lontananza Venezia con la sua laguna, mi volto verso Taborra e gli dico “Facciamo una breve diversione: andiamo su Venezia, scattiamo qualche foto e torniamo su Casarsa”. Sono sicuro di avere abbastanza carburante a bordo, prima di partire ho verificato che tutti e quattro i serbatoi fossero pieni e pertanto ho un’autonomia di otto ore. La diversione, tra l’andata e il ritorno e qualche giro su Venezia, ci porta via quasi un’ora. Torniamo indietro a una quota di 3000 metri e abbiamo pure il vento contrario. Sorvolando Palmanova, Taborra scatta alcune foto sulla bellissima cittadina, costruita all’interno di una fortezza a forma di stella e con una grande piazza centrale. Giunti a Gorizia, atterriamo dopo 2 ore e 20 minuti di volo e rulliamo verso l’hangar. Quando spengo il motore il cap. Marino, il s.ten. Cozzi, il serg. Mariani e Johnny mi vengono incontro, salto giù dall’ala e il cap. Marino mi chiede “Come mai hai impiegato un’ora più del piano di volo? Ti sei perso?”. Rispondo “Nossignore, quando ho lasciato Aviano per Casarsa ho visto Venezia, non mi sembrava molto lontana e ho pensato che arrivarci e fare un giro sopra non avrebbe comportato alcun rischio”. Il com.te Marino mi chiama in disparte e alquanto adombrato mi rimprovera: “La prossima volta, quando ti ordino di fare qualcosa, desidero che tu faccia solo quello e nulla più! Eravamo tutti preoccupati per te e Taborra!”. Sono imbarazzato e gli rispondo in inglese scusandomi per aver creato tanto scompiglio. Accennando un sorriso mi risponde “Per questa volta vada, ma la prossima non te la caverai tanto facilmente, ti prenderai una severa punizione. Ora vai a cena”. Mi scuso e lo ringrazio per non avermi punito. Resto solo con Johnny e gli racconto com’è andata, mi racconta che il Capitano era sulle spine finché non mi ha visto in distanza, pensava mi fossi perso o avessi avuto un’avaria al motore. Gli rispondo che non ho realizzato subito che la diversione su Venezia potesse portarmi via tanto tempo, sembrava così vicina. Se l’avessi immaginato non l’avrei fatto! Aggiungo che nonostante tutto il Capitano è stato fin troppo tollerante nei miei riguardi, Johnny mi confida che il cap. Marino è considerato molto comprensivo con i propri subalterni e per questo tutta la Squadriglia ha un gran rispetto per lui. Con l’aiuto di Taborra e Johnny compilo il mio rapporto e vado a consegnarlo in ufficio. Il Capitano mi riceve, legge il rapporto e mi porge la posta in mezzo alla quale ci sono due riviste Aero Digest inviatemi da mio padre; mi chiede se può averle dopo che le avrò lette. Il pomeriggio tutta la Squadriglia, sette velivoli, effettua un volo in formazione mentre io rimango a terra perché ho già volato al mattino. Si esibiscono in un passaggio sul campo e una formazione di tre caccia del 4° Stormo si unisce a loro, leggermente sfalsati, formando così una bella formazione mista di dieci velivoli.

Un volo da Gorizia a Parma
Il 14 maggio mi viene assegnato un volo per Parma insieme ad altri due Ro.1 con il compito di prelevare parti di ricambio per il nostro Reparto. Gli altri due piloti sono il m.llo Madussi e il serg.m. Giusti. Il Capo Formazione sarà il m.llo Madussi e ogni velivolo porterà uno specialista al posto dell’osservatore. A me viene assegnato l’aviere scelto fotografo Ultimino. Mi fa piacere averlo a bordo, è sardo e siamo già amici, in un paio d’occasioni mi ha portato nel laboratorio fotografico per spiegarmi il funzionamento e le caratteristiche delle camere fotografiche di bordo. Madussi è il più anziano, ha perso tre dita della mano nel corso della Grande Guerra a causa di una raffica di un aereo tedesco. Decolliamo alle 08.40 e giungiamo a Parma dopo tre ore e dieci minuti; il tempo in rotta è discreto e riconosciamo da lontano il grande hangar per i dirigibili Zeppelin, attualmente utilizzato come magazzino. Madussi ha con sé l’elenco delle parti di ricambio da caricare e alle 16.10 ripartiamo per Gorizia, non prima di essere stati alla mensa. Il tempo in rotta non si preannuncia molto bello, verso Est il cielo è tutto nero. Ora leader della formazione è il serg.m. Giusti. Dopo circa venti minuti di volo finiamo dentro un temporale, Giusti tenta di aggirarlo ma, invece di tenersi a destra del temporale, il che ci avrebbe anche portati su un terreno pianeggiante o sulla costa, accosta a sinistra in direzione delle montagne. Quando siamo in prossimità di Verona Ultimino mi segnala con la mano l’anfiteatro al centro della città. Mi sporgo dall’abitacolo e quasi contemporaneamente vengo colpito da una violenta grandinata. Rimetto il capo dentro e mi proteggo dietro il parabrezza. Ho difficoltà a controllare l’aereo a causa della forte turbolenza e mi auguro che i pezzi di ricambio siano bloccati saldamente nel compartimento di carico. Raggiungiamo infine l’aeroporto di Vicenza e atterriamo per aspettare che il temporale passi, vado a verificare che il carico sia ancora bloccato e circa un’ora dopo ripartiamo. Ora è il m.llo Madussi a guidare la pattuglia, quando ci avviciniamo a Treviso notiamo un’altra grossa perturbazione, è una formazione temporalesca che si estende lungo tutta la costa solcata da lampi e saette che si sprigionano senza sosta dalle nubi che sembrano arrivare fino al suolo. Madussi modifica la rotta deviando un po’ verso Nord, finiamo sopra Aviano e ci fa cenno di portarci all’atterraggio: la rotta per Gorizia è interessata da scuri e minacciosi cumulinembi e procedere non è prudente. Appena atterrato Madussi si premura di telefonare al cap. Marino per rassicurarlo e informarlo del nostro dirottamento. Il Capitano gli risponde di fermarsi ad Aviano e pernottare, in quanto anche a Gorizia la situazione meteorologica è pessima. I tre velivoli vengono subito riforniti e controllati, mi accerto delle condizioni del mio e constato che la vernice è stata completamente scrostata dalla grandine sul bordo d’attacco dell’ala e sulle pale dell’elica, tanto da scorgere il legno nudo. Il mattino successivo le condizioni atmosferiche sono migliorate e decolliamo mettendo prua direttamente su Gorizia. Arrivati sul campo notiamo il personale tecnico della Squadriglia che, avvertito il rumore dei nostri motori, è uscito e ci attende sul piazzale di volo. Parcheggiamo i velivoli di fronte all’hangar, il cap. Marino ci viene incontro, ci stringe la mano e ci convoca nel suo ufficio per la stesura del rapporto. Ultimini compila il rapporto anche per me, lo firmo e lo consegno al Capitano. Congedati gli altri, il Capitano chiede ad Ultimini che impressione ha avuto di me quando eravamo nel temporale e lui risponde “Ha sempre mantenuto la sua posizione nella formazione, verificava in continuazione la rotta ed è rimasto calmo anche quando abbiamo incontrato turbolenza e grandine”. Intuisco che il Capitano è lieto di sentire il giudizio favorevole di Ultimini che ha una grande esperienza di volo, anche se in qualità di osservatore. Lasciamo l’ufficio e ci rechiamo in hangar e poi al Circolo dove brindiamo con del vermouth.

Una visita a Trieste
Prima di mezzogiorno il cap. Marino ci convoca e comunica che abbiamo il pomeriggio libero. Propongo a Johnny di andare insieme a Trieste, ma ha già alcuni impegni a Gorizia e così decido di andarci da solo. Chiedo al Capitano un permesso, lo compila e me lo consegna subito invitandomi a sbrigarmi perché altrimenti perderò la corriera che passa davanti all’aeroporto alle 12.30. Ringrazio, saluto, corro a mettermi la divisa e mi precipito all’ingresso dell’aeroporto, faccio giusto in tempo. La corriera attraversa il Carso e arriva in vista del mare poco dopo Sistiana, costeggiamo e passiamo davanti al parco di Miramare dov’è la residenza del Duca. Dopo circa 50 minuti di viaggio sono a Trieste, la città sembra pulita e tranquilla anche se c’è traffico e molta gente per la strada. Non c’è il solito frastuono dei clacson che si sente nelle altre città, l’unico rumore è lo sferragliare dei tram. Mentre passeggio due ragazze mi fermano e mi chiedono dov’è Piazza Unità, rispondo che è la prima volta che vedo Trieste e che sono sicuro che sanno bene dov’è la piazza e che mi prendono in giro. Una delle due mi chiede di dove sono e perché ho uno strano accento e l’altra, quando spiego la mia origine, mi dice che ha studiato l’inglese a scuola ma non ha mai avuto l’occasione di fare pratica con chi lo parla correttamente.

Ada e Linda, due ragazze di Trieste
Propongo loro di andar a bere qualcosa insieme e ci presentiamo: Linda è quella più loquace e Ada la più riservata e carina. Linda propone di andare alla birreria Dreher, una grande cantina simile a quelle tedesche e austriache. Ci sediamo a un tavolo, io ordino Frankfurter e Sauer Kraut e le ragazze due panini con roast beef e birra. Trascorriamo insieme alcune ore piacevoli e mi fanno conoscere un po’ Trieste finché giunge il momento di prendere la corriera per Gorizia. Prima di salire, propongo loro di incontrarci la prossima domenica al caffè dell’Excelsior intorno a mezzogiorno. Linda dice che deve fare una telefonata e che tornerà in un paio di minuti e si allontana. Ada e io rimaniamo soli, i nostri sguardi si incrociano, mi guarda a lungo senza parlare. Viene il momento di salire a bordo, Linda non è ancora tornata, dico “Arrivederci!” ad Ada e lei rimane accanto alla corriera finché non inizia a muoversi per lasciare la stazione.

L’addestramento in previsione delle manovre di “aerocooperazione”
Arrivo in aeroporto intorno alle 22 e vado subito a letto. Il giorno seguente il tempo è brutto e non si vola, chiedo al cap. Marino se posso essere libero il pomeriggio per recarmi a Gorizia a fare alcune spese. Mi concede un permesso di tre ore e così approfitto per ordinare una nuova uniforme e un soprabito e poiché ho messo da parte qualche risparmio acquisto una radio per poter ascoltarla in pace nella mia cameretta. Quando sanno dell’acquisto i miei compagni, invece di andare al Circolo, vengono nella mia cameretta e così sono a punto e daccapo! Anche i colleghi piloti del 4° Stormo si uniscono al gruppo e poiché la radio è a onde corte e riceve stazioni in lingua inglese debbo pure fare da interprete e tradurre le parole delle canzoni. Conosco un collega del 4° Stormo, il serg. pilota Fausto Marcia, di Napoli, e tra noi si instaura un rapporto di sincera amicizia. Lui e Johnny si prendono sempre in giro: Johnny è di Tortona, una cittadina vicina al confine francese, e tra i due si instaura un amichevole antagonismo in quanto provengono da due punti estremi d’Italia. Fausto è un bravo pilota del 4° Stormo e spesso partecipa all’addestramento della Pattuglia Acrobatica dello Stormo, è sveglio e parla un buon inglese, i suoi genitori hanno una importante farmacia a Napoli, al Vomero.
La nostra Squadriglia è impegnata in un intenso addestramento, e dopo circa un mese il Comandante del 21° Stormo, assieme a quello del nostro Gruppo, il 63°, ci convoca e ci informa che le tre Squadriglie di Gorizia, la 41ª, 38ª e 116ª, parteciperanno alle manovre di “Aerocooperazione” per la valutazione del livello di addestramento di tutto lo Stormo, comprese le tre Squadriglie dislocate a Bolzano, Padova e Bologna. Effettueremo missioni di volo in formazione, navigazione aerea in montagna, esercitazioni al fuoco, osservazione e ricognizione. È previsto il trasferimento su un campo di fortuna in montagna per dirigere dal cielo i tiri dell’artiglieria, compito specifico degli osservatori dell’Esercito che voleranno con noi e saranno assegnati alla nostra Squadriglia. Il com.te di Gruppo ci riunisce, illustra come si svolgeranno le manovre e dice che nella Commissione che valuterà il nostro operato ci saranno lui e il Comandante della 3ª Regione Aerea. Conclude augurando buona fortuna a tutti noi e ritorna nel suo ufficio. Il cap. Marino chiama il m.llo Mariani, Johnny Falabracco e me, ci comunica che formeremo una pattuglia di tre velivoli e voleremo sempre insieme per addestrarci alle gare. Infine si rivolge a me “Ti ho scelto perché sei il più giovane del 21° Stormo. Volerai in pattuglia con il pilota più anziano, il m.llo Mariani, che ti terrà d’occhio e controllerà i tuoi progressi. Desidero dimostrare al Comandante di Stormo che anche un giovane pilota può raggiungere il livello di preparazione di un anziano. Mi auguro che tu sia all’altezza e faccia una bella figura”. Infine ci comunica che domani inizieremo l’addestramento e decolleremo per Plezzo [Bovec, Slovenia, n.d.T.], un piccolo aeroporto a Nord fra le montagne, vicino al confine con la Jugoslavia e l’Austria. Preparo subito il piano di volo e consulto la carta geografica, la prima cosa che noto è che Plezzo si trova vicino a Caporetto dove avevo letto che gli austriaci e i tedeschi lanciarono i gas asfissianti contro le truppe italiane nell’ottobre del 1917. La mattina successiva Mariani effettua il briefing con gli ultimi dettagli sulla missione e mentre ci dirigiamo verso i nostri velivoli De Rosa mi viene a salutare rammentandomi che il campo è a circa 1200 (correggere, circa in 500) metri sul livello del mare e che dovrò essere cauto e preciso. Gli atterraggi e i decolli a quella quota sono più impegnativi poiché il motore sviluppa meno potenza e inoltre le velocità rispetto al suolo sono più alte di quelle indicate dall’anemometro.

Un volo di ricognizione a Plezzo
Decolliamo in formazione e mettiamo prua verso Nord, sorvoliamo il Sabotino, seguiamo la valle dell’Isonzo e fiancheggiamo le montagne che diventano sempre più alte. Intravedo Caporetto nella valle e sull’altro lato, più lontano, dovrebbe esserci Plezzo. Quando siamo sopra il campo Mariani ce lo segnala con il braccio e mi fa cenno di far passare avanti Johnny che inizia subito a spiralare per perdere quota e atterrare. Quando tocca a me comincio a scendere in virata nella valle, che non sembra molto larga. Vedo Mariani che ha già liberato la striscia d’erba e Johnny, che dopo aver toccato sta smaltendo la velocità. Faccio un secondo giro sul campo per accertarmi meglio della posizione degli ostacoli, mi porto in sottovento e poi inizio l’avvicinamento. Passo a circa 10 metri dalla sommità degli alberi, tengo un po’ di motore e quando sono sicuro di essere sulla traiettoria giusta porto la manetta al minimo, plano toccando all’inizio della striscia d’erba e dopo una breve corsa mi fermo. Mariani mi fa cenno di raggiungerlo, quando gli sono vicino scende dall’aereo, si avvicina al mio e per sovrastare il rumore del motore strilla “Decolla nuovamente, fa’ due circuiti come quello che hai appena fatto che andava bene e, se non arrivi troppo lungo, ridecolla senza fermarti”. Eseguo quanto ordinatomi e al mio rientro Mariani, che era rimasto a osservarmi insieme a Johnny, mi dice “OK, atterra sempre così sui campi corti”. Il personale civile dell’aeroporto ci offre caffè e panini con il prosciutto e ci invita a restare a pranzo, offerta quest’ultima che rifiutiamo poiché dobbiamo decollare tra breve. Ringraziamo dell’accoglienza e ci prepariamo per il ritorno a Gorizia. Parto per primo e circuitando sopra il campo attendo Mariani e Johnny che decollano in formazione e in breve mi raggiungono. Quando arriviamo a Gorizia ci mettiamo a rapporto dal cap. Marino che come prima cosa si accerta di come sono andato. Mariani e De Rosa riferiscono entrambi che non ho incontrato problemi e concludono “L’americano è OK!”. Domani saranno assegnati alla Squadriglia sei osservatori, due del 4° Reggimento Alpini, due dell’8° Reggimento e due Ufficiali di Fanteria, dovremo cooperare con i loro Reggimenti.

La mobilitazione sul fronte austriaco
Trascorro il pomeriggio ascoltando la radio nella mia cameretta in compagnia di Johnny, Fausto e altri due colleghi. Lo speaker della radio annuncia che Hitler sta meditando di occupare l’Austria e Mussolini minaccia di reagire inviando l’Esercito e dichiarare la guerra se la Germania tenterà un’azione simile. Alcuni miei compagni si rallegrano prevedendo un loro possibile impiego e Fausto aggiunge che non ha mai avuto simpatie per Hitler e per la sua politica. Una parte dell’Aviazione Italiana è già posizionata non molto lontano dal confine e così pure i Reggimenti degli Alpini. Il giorno dopo decolliamo per Plezzo con una formazione composta da cinque Ro.1 e il s.ten. Cozzi guida la pattuglia. Il serg. Fusacchia è assegnato alla nostra Sezione e con l’amicizia che ci lega non posso che esserne lieto. Nei giorni successivi effettuiamo alcune missioni di pattugliamento in collegamento con i Reggimenti degli Alpini. È un’occasione per individuare alcuni passi stretti che posso attraversare senza grosse difficoltà con il Ro.1, come quello del Predil vicino al confine tra Plezzo e Tarvisio. Una volta attraversato il passo, per tornare a Plezzo bisogna salire a 4000 metri e passare sopra il monte Canin oppure, se le cime sono coperte dalle nubi, girare intorno alla montagna, uscire a Gemona e poi tornare lungo la vallata a Plezzo. Con la nostra sezione rimaniamo a Plezzo per alcuni giorni finché la situazione torna normale e Hitler rinuncia ai suoi propositi. In pochi giorni la tensione fra i due Paesi si placa e tutto torna alla normalità. Rientrati a Gorizia mi viene concesso un permesso di ventiquattro ore e ne approfitto per tornare a Trieste. Non incontro nessuno, vado a passeggiare sul lungomare di Barcola, alla sera vado al ristorante e poi rientro a Gorizia con un collega del 4° Stormo che mi riconosce e mi dà un passaggio in automobile. Riprendiamo l’addestramento per le Gare di Specialità, gli osservatori che ci sono stati assegnati rimarranno con noi fino al termine delle esercitazioni e insieme a loro iniziamo un ciclo di addestramento che comprende volo in formazione e tiri “reali” al poligono, gli osservatori utilizzeranno le mitragliatrici brandeggiabili Lewis e noi le fisse.

Il Magg. Baudoin in visita a Gorizia
Il pomeriggio mi dirigo verso gli hangar del 4° Stormo, nel lato Sud dell’aeroporto, e passando davanti alla palazzina Comando incontro il comandante del 4° Stormo, il col. Augusto Bonola, che sta uscendo accompagnato da un altro ufficiale che riconosco immediatamente: è il magg. Baudoin. Lo saluto e anche lui mi riconosce: “Come va a Gorizia, Patriarca?”, mi chiede in inglese. Gli rispondo in italiano che sono al 21° Stormo Ricognizione, noto che ha una “striscia” in più sulla manica e mi congratulo con lui per la promozione a Tenente Colonnello. Il col. Bonola è stupito che conosca Baudoin e gli chiede quando mi ha conosciuto, Baudoin gli racconta la mia storia e conclude “Questo ragazzo mi piace perché ha sempre il volto sorridente”, battendomi affettuosamente sulla spalla. Mi chiede da quanto tempo sono a Gorizia, come mi trovo, quante ore di volo ho al mio attivo. “Sono qui da sette mesi e volo sul Ro.1 da cinque”, dico, e aggiungo “Ho un Comandante di Squadriglia che mi tratta come un figlio!”. Il t.col. Baudoin mi dice che se necessito di qualcosa di farglielo sapere. “Veramente”, rispondo in inglese, “avrei qualcosa da chiedere… ”. “Ok, dillo in italiano”, mi risponde. “Mi farebbe molto piacere essere trasferito al 4° Stormo Caccia”. Baudoin si volta verso il col. Bonola: “Colonnello, si può fare qualcosa per il ragazzo?”, e lui: “Personalmente non ho nulla in contrario, è un ragazzo giovane ed allo Stormo abbiamo bisogno di giovani piloti da Caccia. Dovrò però sentire prima il parere del cap. Marino”. Il t.col. Baudoin risponde di telefonargli al Ministero nel caso ci sia l’approvazione del mio Comandante, penserà lui che il trasferimento avvenga in breve. Poi conclude “Se passi per Roma vieni a salutarmi, sarò lieto di rivederti”. Non menziono con nessuno, nemmeno con Johnny, il mio colloquio con il col. Bonola e il t.col. Baudoin. Due giorni dopo il cap. Marino mi convoca nell’ufficio, mi invita a sedere e mi offre una sigaretta. Firma alcuni documenti e poi alza lo sguardo, mi dice che il col. Bonola gli ha accennato alla mia richiesta di trasferimento al 4° Stormo. Mi chiede se non mi trovo bene al 21° Stormo. “Al contrario”, rispondo, “non avrei mai potuto immaginare di trovare una simile accoglienza e tanti amici come al 21° Stormo e soprattutto apprezzo moltissimo tutto quello che lei ha fatto per me! Il 21° Stormo resterà per me il primo Stormo e serberò un ottimo ricordo di tutti”. Aggiungo che desidero passare al 4° Stormo in quanto è stata sempre la mia ambizione e ritengo che per il mio temperamento potrei dare di più volando su un aereo da caccia. Dopo avermi ascoltato il cap. Marino dice che mi comprende e che anche lui, se fosse stato più giovane e se gli si fosse presentata l’occasione, avrebbe fatto la stessa scelta. Aggiunge che è lieto di sentire i miei apprezzamenti nei confronti del 21° Stormo e che chiamerà il col. Bonola per informarlo del suo benestare al trasferimento. Mi congeda ricordandomi che comunque dovrò partecipare alle esercitazioni, le Gare di Specialità, e che desidera che metta tutto il mio impegno, il col. Bonola gli ha chiesto di avere un rapporto sui miei risultati. Continuano le esercitazioni in formazione, prima con tre aerei, poi cinque e infine sette, l’ottavo velivolo della Squadriglia rimarrà di riserva nel caso di avarie agli altri e sarà assegnato al m.llo Madussi o al serg.m. Fusacchia. Mi confido con Johnny circa la mia richiesta al col. Baudoin e al col. Bonola di trasferimento al 4° Stormo e lui mi rassicura che verrà accettata con molte probabilità. In quell’istante arriva nell’hangar il cap. Marino e ci fa cenno di raggiungerlo: insieme al s.ten. Cozzi dobbiamo andare in volo ed esercitarci alla formazione con gli altri piloti della Squadriglia.

L’addestramento al volo in formazione
Decolliamo uno alla volta e circuitiamo sopra l’aeroporto per effettuare il congiungimento. Dietro a me nel posto dell’osservatore c’è il m.llo De Rosa. Faccio del mio meglio per rimanere in formazione precisa con Johnny che è la mia ala sinistra, debbo “smanettare” per non “sfilarmi”. Comincio a prendere la mano. Il cap. Marino inizia delle virate alquanto strette, faccio molta più fatica a mantenere la mia posizione, soprattutto quando sono “esterno” alle virate. Quando atterriamo il cap. Marino mi chiede “Come va?”. Gli rispondo che mi sento stanco. “È normale”, risponde, “volare in formazione, soprattutto agli inizi, è molto impegnativo”. Johnny mi dà qualche suggerimento: “Cerca di tenere bene allineata l’ala con il timone del tuo leader e anticipa le correzioni”. Il giorno successivo la formazione sarà di cinque velivoli, il cap. Marino leader, il s.ten. Cozzi e il m.llo Mariani gregari di sinistra e il serg.m. Fusacchia e il sottoscritto gregari di destra. la mia posizione sarà quella più esterna. Johnny mi dice che questa volta sarà ancora più impegnativa: “Ricordati che le correzioni dovranno essere più ampie e più repentine, non stare troppo sotto e tieni d’occhio anche il cap. Mariani in modo che la formazione sia anche simmetrica. Attento quando sei esterno alla virata”. Ci avviamo ai nostri velivoli e decolliamo in formazione, facciamo quota e ci portiamo sull’area prescelta, il cap. Marino effettua alcune virate a destra e sinistra e riesco a mantenere abbastanza bene la mia posizione, sorvoliamo in formazione il campo e poi ci portiamo in fila indiana a 50 metri l’uno dall’altro e infine atterriamo.

Le aerocooperazioni a Plezzo, 20 giugno – 09 agosto 1934
Mi sveglio più tardi del solito e mi presento all’hangar verso le nove. Il personale di terra è impegnato a lavare gli aerei e c’è molta attività di volo. Mentre mi avvio verso gli hangar della 38ª e della 116ª Squadriglia arriva l’ordine della 1ª Zona Aerea Territoriale che una Sezione della 41ª deve spostarsi verso le montagne, al campo intermedio di Plezzo, dove ero già atterrato. Quattro aerei debbono rimanere a Plezzo in attesa di disposizioni e poi rientrare a Gorizia. Il cap. Marino chiama la squadriglia a rapporto e ordina al personale di terra di preparare gli aerei come previsto per una missione reale, con tutte le munizioni comprese le bombe, le radio di bordo e le macchine fotografiche. Tutto questo per essere pronti a qualsiasi evenienza poiché dobbiamo partecipare alle manovre congiuntamente ai reggimenti degli Alpini in prossimità del confine con l’Austria. Il s.ten. Cozzi comanda la Squadriglia e i gregari sono il m.llo Mariani, il serg.m. Giusti, il serg. Falabracco e il sottoscritto. Il capitano ci spiega che ha scelto personale di terra che non ha famiglia, eccetto Mariani che si è offerto volontario, gli osservatori sono stati invece scelti dal Comando di Reggimento. La sera lavoriamo fino a tardi lavando a fondo gli aerei tanto da farli sembrare nuovi nelle loro livree color argento. Il serg.m. Giusti si porterà a Plezzo via terra, con il convoglio militare insieme a tutti gli specialisti. Verso le 21 abbiamo completato il lavoro. Johnny e io andiamo in mensa a mangiare. Subito dopo andiamo a dormire, siamo ancora stanchi per la serata precedente.
La mattina dopo, è il 20 giugno, alle 9.30 si decolla per Plezzo e, prima di puntare verso la nuova destinazione, il s.ten. Cozzi, con quattro aerei in formazione a diamante, effettua un passaggio a bassa quota sul campo per salutare il cap. Marino e il resto della squadriglia che è ritta sugli attenti davanti ai nostri hangar. Lasciata Gorizia ci mettiamo in rotta per Plezzo, incontriamo delle nubi e saliamo di quota per sorvolarle, così arriviamo alquanto alti sul campo di Plezzo, fortunatamente senza nubi. Il monte Canin, il più alto nell’area, domina le altre montagne, Plezzo e l’aeroporto. Il s.ten. Cozzi, effettuati alcuni giri campo, mi fa segno di ridurre la velocità e a Mariani e Johnny di seguirmi. Cozzi inizia una discesa a spirale con noi dietro e, effettuato un altro giro per rilevare la direzione del vento, si porta in sottovento e atterra. Mi tengo a debita distanza e atterro subito dopo, seguito da Mariani e Johnny. Rulliamo fino in prossimità di una tenda, spegniamo i motori, scendiamo e due osservatori del Reggimento Alpini ci vengono incontro e ci salutano. Sono stati assegnati in appoggio alla nostra Squadriglia in quanto conoscono bene la zona di operazioni. Aiutiamo i due specialisti a sistemare gli aerei per la sosta e il s.ten. Cozzi ci chiama a rapporto per informarci che i nostri alloggi sono nella casa del custode del campo. Dovremo dividere la stanza con serg.m. Giusti e gli specialisti. Per i pasti ci appoggeremo a una trattoria appena fuori dal campo, il conto ci verrà rimborsato al nostro rientro a Gorizia. Trascorriamo il resto della giornata preparando i velivoli e pianificando la prossima missione, per l’ora di cena, quando arriverà il serg.m. Giusti con il resto della squadra di terra, tutto dovrà essere già sistemato. Il s.ten. Cozzi che ha preparato il programma per la missione del 23 giugno ci riunisce per il briefing, decollerà per primo insieme al cap. Della Rovere per localizzare il posto d’osservazione del 4° Reggimento Alpini. Al suo rientro decolleranno Mariani e Johnny. Le radio installate sugli altri due velivoli sono fuori uso e io andrò in volo con uno specialista e, circuitando sul campo, testeremo i nuovi apparati inviatici in sostituzione di quelli in avaria. “Fai attenzione a non sconfinare in Jugoslavia o in Austria”, aggiunge il s.ten. Cozzi, “siamo vicini al confine”. Impartisce le ultime disposizioni ai meccanici e infine, tutti insieme, andiamo nella nostra trattoria: dopo una cena tipicamente friulana rientriamo nel nostro alloggio al campo. Disteso sul letto, ascolto piacevolmente il gracidare delle rane interrotto a intervalli dal cupo verso di un gufo. Sono le due del mattino quando un forte boato mi sveglia. C’è un temporale, e un tuono così potente non l’avevo udito prima. Suppongo che, essendo in una valle, il tuono rimbombi e si amplifichi da una montagna all’altra. Il temporale continua per almeno due ore e non riesco più a prender sonno finché, alle 7.30, Johnny mi chiama. Esco dall’alloggio: non c’è più una nube, il cielo è terso e l’aria è piacevolmente fresca e pulita. Rimango in piedi respirando a pieni polmoni, mi sento in forma e ricco di energia. Il campo è già asciutto nonostante i rovesci di questa notte. Gli ufficiali degli Alpini e il s.ten. Cozzi si sistemano in un piccolo albergo del paese mentre il nostro centro comunicazioni viene allestito presso l’ufficio postale, dove è stata approntata una linea diretta con i Reggimenti impegnati nelle manovre e con il Comando Generale della nostra Squadriglia, dislocato a Gorizia. Alle otto arriva il s.ten. Cozzi con gli osservatori del Reggimento Alpini, ci chiede come abbiamo trascorso la notte, se abbiamo fatto colazione e si informa del personale di terra. La moglie di Mario, il guardiano, prepara il caffè per gli specialisti mentre i motoristi sono già al lavoro, scaldano i motori dei tre velivoli ed effettuano i controlli previsti per il primo volo della giornata. Sono nella tenda con Johnny e stiamo sistemando le nostre cose quando squilla il telefono; Johnny alza la cornetta e l’interlocutore dall’altra parte chiede di parlare col cap. Della Rovere. Corro a chiamarlo e al termine della conversazione Della Rovere comunica al s.ten. Cozzi, vicino a lui, che il Comando di Reggimento ha programmato l’inizio dell’esercitazione tra un’ora. Il s.ten. Cozzi ordina ai meccanici di approntare subito il suo velivolo e poco dopo decolla con a bordo il cap. Della Rovere. Dico a Mariani che vado a dare un’occhiata dall’altro lato del campo. “Ok”, mi risponde, “devi attraversare il campo, non ci sono sentieri”.

Gli alpini e le trote
Durante il tragitto vedo una coppia di lepri, li rincorro ma sono troppo veloci. Arrivato sull’altro lato del campo mi trovo su di un ripido dirupo con un sentiero che scende verso il fiume. È l’Isonzo, che il quel punto forma delle piccole rapide con un forte flusso d’acqua fra massi di colore grigio chiaro, quasi bianco. Noto tre alpini lungo la riva che scrutano l’acqua. Uno di loro lancia qualcosa nel fiume, segue un’esplosione e una colonna d’acqua si alza dal letto dell’Isonzo. Tre trote vengono a galla vicino alla sponda: gli alpini non mi possono vedere perché sono nascosto da una curva del letto, le raccolgo e le getto in un cespuglio, corro verso i tre alpini e chiedo loro se sono feriti e perché hanno lanciato la bomba a mano. Mi chiedono se ho visto galleggiare dei pesci mentre mi dirigevo verso di loro: rispondo negativamente. Mentre stiamo conversando si avvicina un uomo, ci mostra i suoi documenti e si qualifica come guardacaccia; rivolto agli alpini li informa che farà rapporto al Reggimento. Intervengo, sono in uniforme, assicuro il guardacaccia che accompagnerò personalmente i militari alla loro Compagnia e mi faccio dare i loro nomi. Il guardacaccia mi ringrazia, deve inseguire un altro gruppo di soldati circa cinquecento metri più avanti e me li indica. Con i tre mi incammino per tornare indietro e giunti nella boscaglia, in direzione del campo, tiro fuori il pezzo di carta con i loro nomi, lo straccio e dico loro di non farsi cogliere di nuovo in fallo. Mi sorridono imbarazzati, mi stringono la mano e si incamminano verso il paese: appena li perdo di vista torno indietro sulla riva del fiume dove avevo gettato le tre trote nel cespuglio. Trovo un sacchetto di carta, ci metto dentro le trote e velocemente attraverso il campo. Giunto nella tenda della Squadriglia faccio vedere il pesce a Johnny che stupito mi chiede dove l’abbia trovato; si fa una gran risata, chiama i colleghi e racconta la mia avventura. Arriva anche Mario, il guardiano, e Johnny gli chiede se sua moglie può cucinarlo. Il guardiano ci informa che il guardacaccia è suo cugino. Mi scuso e lo tranquillizzo, in caso di complicazioni affermerò di aver smarrito il foglio con i nomi attraversando il bosco. A mezzogiorno Johnny e io siamo invitati a pranzo con Mario e la sua famiglia e ci gustiamo le trote abilmente cucinate dalla moglie, il tutto innaffiato da un vino che si accompagna bene col pesce. Verso le 15 il s.ten. Cozzi mi chiama e mi ordina di decollare con Taborra, il tecnico della radio, per un volo in zona di una quarantina di minuti. Decollo e faccio quota, esco dalla valle e mi porto sopra il monte Canin che è alto più di tremila (correggere!) metri. Al di là c’è Tarvisio, sul confine con l’Austria. Taborra intanto prova la radio mettendosi in contatto con il Reggimento Alpini. La ricezione e la trasmissione sono soddisfacenti e così metto la prua verso il campo, scendo fino al passo del Predil che mi separa da Plezzo, lo supero, effettuo un giro campo ed atterro. Taborra riferisce al ten. Mariani che la radio è efficiente e che si è sintonizzato sulla frequenza utilizzata dal suo Reggimento. Poco dopo decolla anche il serg.m. Giusti con il suo osservatore per testare l’altra radio.

A caccia di lepri
Trascorriamo il resto del pomeriggio giocando a pallone, gioco che non conoscevo, altri colleghi invece giocano a carte sotto la tenda. Chiacchierando con Johnny gli racconto che, attraversando il campo, ho incontrato delle lepri. “Sei capace di guidare un’auto?” mi chiede. “A New York avevo una Buick”, rispondo, e lui: “Chiediamo le chiavi della FIAT 501 al cap. Della Rovere e andiamo a caccia con la macchina!”. Trovato il capitano, Johnny gli chiede le chiavi spiegandogli che io avrei guidato l’auto, ma il capitano non sembra molto convinto. Mi domanda da quanto tempo ho la patente e, consegnandomi le chiavi, vuol vedere come guido. Gli chiedo come sono le marce, poi metto in moto e faccio un giro del campo. Quando ritorno esclama “Ok, potete andare”. Johnny gli risponde “Se tutto va bene, domani ceneremo con lepre alla cacciatora”. Chiedo a Johnny come potremo cacciare le lepri senza un fucile e poi… servirebbero un permesso di caccia e dei cani. Sorride e mi dice di pazientare finché fa buio e l’avrei scoperto.
A Plezzo si sta veramente bene ed è la prima volta che sono fra le montagne. Trascorriamo le ore che mancano per la cena giocando a carte e, finito di mangiare, Johnny mi dice che è il momento per andare a caccia di lepri. Mentre ci dirigiamo alla vettura, Johnny mi spiega la sua strategia sulla caccia alle lepri. Il m.llo Mariani e un tecnico della manutenzione di nome Gatti si siedono sui sedili posteriori, avvio il motore e Johnny, seduto accanto, mi raccomanda di entrare nel campo facendo attenzione a non investire i nostri velivoli. Appena oltre gli aerei mi dirigo lentamente verso il centro del campo a fari spenti. A un tratto Johnny accende improvvisamente gli abbaglianti illuminando, a non più di cinquanta metri, una coppia di lepri che corrono nel fascio di luce, nella nostra stessa direzione. Johnny grida “Accelera!”. Raggiungo la prima, gli passo sopra con la macchina e freno di colpo. Mariani salta giù dall’auto, afferra la lepre e la getta sui sedili posteriori. Continuo a girare dentro il campo descrivendo un ampio cerchio e quando ho percorso circa un quarto di giro Johnny accende di nuovo i fari e illumina altre due lepri che corrono, una accanto all’altra, davanti a noi. Do tutto gas, ne colpisco uno, accelero ancora per raggiungere l’altro e così urto anche il secondo che, raccolto ancora vivo, Johnny prende per la collottola e lo finisce con il palmo della mano. Torniamo indietro e Mariani rintraccia il primo con la torcia e lo mette insieme agli altri. Johnny soddisfatto esclama “Torniamo indietro. Il pranzo di domani con lepre alla cacciatora è garantito!”. Giunti alla tenda, Johnny e Mariani spellano le tre lepri e le appendono per farle frollare tutta la notte. Arriva anche Mario, il guardiano, e ci assicura che la moglie ce li preparerà per domani a cena. Rientriamo nei nostri alloggi a giocare a ramino col m.llo De Rosa e il serg.m. Giusti. Il m.llo De Rosa vince sempre, “Ci toglie anche i pantaloni!”, e fa di tutto per farmi arrabbiare dicendo che “l’americano” non sa come si gioca a ramino. Io ci rido sopra, non mi arrabbio mai quando perdo, dico solo che “non è la mia giornata”. Ci infiliamo tutti nei nostri letti a castello e mi addormento subito. L’indomani Mariani ci sveglia e ci esorta a sbrigarci ad andare in cucina dove la moglie di Mario ha già preparato caffè, cacao e torta di mele. Prima di tornare alla tenda ringraziamo calorosamente entrambi e Johnny, presa una lepre, lo porge al cap. Della Rovere ringraziandolo per averci prestato la sua FIAT.

Sul monte Canin – le aerocooperazioni
Il 3 luglio il s.ten. Cozzi chiama me e il ten. Mariani, l’ufficiale degli Alpini, ci illustra gli ordini ricevuti dal Quartier Generale del Reggimento: “Le condizioni meteorologiche lungo tutto il fianco delle montagne sono previste buone ma, nel caso si incontrassero delle formazioni cumuliformi, bisogna evitare a ogni costo di entrarvi”. Aggiunge che se per guadagnare tempo preferisco attraversare il passo ed evitare di salire nella valle fino a superare il monte Canin lo posso fare a mia discrezione. Conclude con un “Stai attento!” e mi saluta. Mi dirigo verso l’aereo e prima di salire a bordo De Rosa consegna al ten. Mariani una pistola lanciarazzi Very con le relative munizioni. Avvio il motore e lo faccio girare a regime ridotto per riscaldarlo: con un cenno chiedo a Mariani se è pronto, annuisce con il capo, alzo il pollice verso il meccanico che libera le ruote dai “tacchi”, rullo verso il centro del campo e decollo. Salgo fino a raggiungere poco più di mille metri e poi mi dirigo verso il passo che ho sorvolato ieri, tenendomi a distanza di sicurezza dalle pareti rocciose alquanto vicine e minacciose. Sto virando per seguire un canalone quando osservo alcuni Alpini impegnati a risalire il fianco della montagna che ci salutano agitando le braccia. Impiego circa dieci minuti per superare il passo e, giunto dall’altra parte, il ten. Mariani mi dice di puntare su Tarvisio.

L’artiglieria da montagna
Nel frattempo si mette in contatto radio con il Reggimento, mi fa cenno di seguire una strada sterrata sulla cresta della montagna e a due chilometri dalla cima mi chiede di abbassarmi di cinquecento metri in quanto ha scorto due pezzi d’artiglieria tra gli alberi. Qualche secondo dopo intravedo un’altra batteria a poca distanza dalla precedente e glielo comunico. Il ten. Mariani ora è in contatto radio con le batterie che ci avvertono che si approntano ad aprire il fuoco su alcuni bersagli posti sul fianco opposto della montagna. Mariani mi raccomanda di tenere gli occhi aperti per poter individuare dove esplodono gli spezzoni e contemporaneamente mi indica con la mano i bersagli, collocati su di una sporgenza a circa un chilometro. Viro mantenendomi a metà strada fra i bersagli e le batterie quando notiamo tre sbuffi di fumo in prossimità dei bersagli. Sono un po’ “corti” ma subito dopo ne arriva un altro un po’ “lungo”. Intuisco che Mariani continua a trasmettere informazioni sui tiri, vedo infatti le sue labbra muoversi vicino al microfono. Infine si interrompe e, tenendo l’indice sull’occhio, mi fa capire di stare attento: dopo qualche secondo due colpi arrivano dritti sul bersaglio. Mi dà un pacca sulle spalle e lancia un bacio verso le batterie che ora hanno aggiustato il tiro e stanno piazzando tutti i colpi in prossimità del bersaglio. Mariani spara un razzo rosso per far cessare il fuoco, mi fa cenno di scendere e di portarmi sopra le batterie. Mi mostra un tubo legato a un piccolo paracadute freno che contiene il rapporto sull’esito dei tiri che ci accingiamo a lanciare sopra la batteria. Riduco la velocità, e, quando sono sopra, Mariani lascia cadere il tubo. Viro per permettere a Mariani di accertarsi che il tubo venga raccolto e poi dirigo per Plezzo non prima di aver fatto quota e sorvolato il monte Canin, trecento metri più alti. Sull’altro lato del Canin notiamo alcuni Alpini che marciano sulla neve, anche loro ci hanno notato e agitano le braccia per salutarci, Mariani ricambia il saluto. Effettuo larghe virate nella vallata per perdere quota e distinguo nettamente in distanza il campo di Plezzo con il personale di terra fermo davanti alle tende che guarda verso noi. Con un cenno chiedo a Mariani se ha nulla in contrario a fare un passaggio radente sul campo: capisce al volo e annuisce con il capo. Faccio un giro largo e quando sono in sottovento abbasso il muso e aumento la potenza per prendere velocità. Dirigo sul campo puntando alla tenda mentre alcuni alpini corrono per cercare riparo. Quando sono a un centinaio di metri da loro interrompo la discesa, sorvolo il campo, cabro bruscamente e, grazie alla velocità raggiunta, tolgo motore e contemporaneamente viro con una scivolata d’ala che mi riporta sul campo dove tocco impeccabilmente sui tre punti. Rullo lentamente fino alla tenda e quando scendo Mariani con un sorriso smagliante esclama “Abbiamo fatto un buon lavoro. Sicuramente riceveremo un elogio dal Reggimento per come abbiamo diretto i tiri sul bersaglio”. Mentre il s.ten. Mariani si accinge a scrivere il rapporto per il Reggimento e per lo Stormo, Johnny si avvicina e si congratula per il mio atterraggio mentre il s.ten. Cozzi si informa come ho svolto la missione. Ho il permesso di lasciare la tenda e chiedo al m.llo Mariani a che ora si pranza. “Dopo le 12”, mi risponde. Johnny è impegnato a compilare i registri di manutenzione dei velivoli, poso il caschetto e lo aiuto.

La visita del Cap..Marino a Plezzo
È passato da poco mezzogiorno e abbiamo appena terminato le registrazioni quando sentiamo il rumore di un aereo; nessuno dei nostri ci risulta in volo, quindi deve essere qualcun altro che sta atterrando. Usciamo e vediamo un Ro.1 in circuito d’atterraggio; è della nostra squadriglia, contraddistinto dal numero 1, quello del cap. Marino. Lo seguiamo mentre atterra, rulla e si porta davanti alla nostra tenda. Il capitano è insieme al m.llo Breda, scende e si avvicina stringendoci la mano. Si informa su come stanno procedendo le manovre. Lo rassicuriamo sull’andamento delle esercitazioni e sullo stato d’animo e proponiamo di “trasferire” tutta la Squadriglia a Plezzo. Sorride e scambia qualche parola con il s.ten. Cozzi. Quando il m.llo Mariani annuncia che il pranzo è pronto il s.ten. Cozzi invita il Capitano all’albergo del paese, ma Mariani interviene subito affermando che aveva già riservato un posto a tavola per il Capitano nell’alloggio improvvisato dei Sottufficiali, la casa di Mario, il custode. Il s.ten. Cozzi e gli osservatori se ne vanno al paese e il cap. Marino con il m.llo Breda e Mariani a casa di Mario. Il Capitano prende posto a capotavola, ci invita a sedere e la moglie di Mario ci serve lepre alla cacciatora con polenta. Il cap. Marino è sorpreso del piatto e Mariani e Johnny gli raccontano della caccia alle lepri dell’altra notte. Johnny racconta anche della mia abilità alla guida dell’auto e delle trote che ho rimediato dagli Alpini che pescavano con le bombe a mano. “Faccio sempre del mio meglio per aiutare il prossimo”, rispondo a Johnny, e osservo il Capitano che ascolta divertito. Al termine del pranzo la moglie di Mario ci porta una grande “cuccuma” di caffè e Mario una bottiglia di grappa e alcuni bicchieri. Facciamo un brindisi insieme agli ospiti e ringraziamo Mario e sua moglie per l’ottimo pranzo che ci hanno preparato.

Pattugliamento lungo i confini
Quando usciamo il s.ten. Cozzi è appena rientrato al campo insieme agli osservatori con un messaggio ricevuto dall’ufficio postale che consegna al cap. Marino: è un ordine della 2ª Zona Aerea Territoriale di Padova che chiede di pattugliare il confine dell’Austria e della Jugoslavia dall’alba al tramonto. Il Capitano, letto il messaggio, dà subito disposizioni al s.ten. Cozzi di programmare lui il pattugliamento in quanto lui deve rientrare immediatamente a Gorizia, e ci garantisce che invierà un altro pilota a Plezzo, così saremo in sei, lui compreso. Il s.ten. Cozzi decolla alle 16.30 per il primo pattugliamento con il cap. Della Rovere come osservatore e ritorna al tramonto. Siamo in agosto, le giornate sono lunghe, il buio scende solo verso le otto della sera. Prima di ritirarci rimaniamo nella tenda a lungo per preparare il programma di pattugliamento del giorno successivo che prevede l’impiego di tutto il personale del campo. Il mattino del 2 agosto vengo svegliato dai motori che i motoristi stanno riscaldando, il m.llo Mariani e il serg.m. Giusti sono i primi piloti a partire per il pattugliamento alle 7.30. Il m.llo Mariani ha come osservatore il s.ten. Mariani e il m.llo Giusti il s.ten. Vannetti, fresco di nomina. Mentre faccio colazione li vedo decollare attraverso la finestra della baracca. Vado alla tenda e controllo i registri di manutenzione dei velivoli e li trovo già aggiornati, poco dopo Johnny mi raggiunge e rimaniamo seduti a osservare gli specialisti che riforniscono e preparano gli altri due Ro.1. Il s.ten. Cozzi si avvicina e informa Johnny e il sottoscritto che dobbiamo pattugliare insieme il confine Jugoslavo nel pomeriggio. Debbo volare in formazione stretta con Johnny e tenere gli occhi aperti per localizzare eventuali altri aerei. Ci consegna infine una mappa e ci illustra la rotta e la zona da perlustrare. Alle dieci arriva l’aereo da Gorizia che porta il pilota di rinforzo promessoci: è Fusacchia. Lo accogliamo con entusiasmo e anche lui si dice felice di rivederci e di unirsi a noi. Dopo aver pranzato tutti insieme, verso le 16 il ten. Cozzi e il cap. Della Rovere mi convocano insieme a Johnny nella tenda per pianificare la missione. Della Rovere andrà in volo con Johnny sull’aereo leader mentre io andrò con il m.llo De Rosa. Le condizioni atmosferiche sono ottimali, non ci sono nubi, almeno nell’area di Plezzo, e la visibilità è illimitata. Decolliamo a pochi secondi l’uno dall’altro e saliamo a 4000 metri puntando verso il confine con la Jugoslavia. A questa quota il freddo si fa sentire, posso vedere sull’altro Ro.1 il cap. Della Rovere stringersi le braccia intorno le spalle per proteggersi e battere le mani per scaldarsi. Lo saluto e lui porta una mano alla bocca e soffia per farmi capire che fa molto freddo. Siamo sopra Postumia [Postojna, Slovenia, n.d.T.], il Capitano mi indica che in basso, a 1000 metri, ci sono due caccia che volano in direzione opposta. Circuitiamo ancora un po’ e poi mettiamo prua su Plezzo, siamo in volo già da due ore.
Proseguiamo con i pattugliamenti per alcuni giorni ma, alla mia terza missione, scendendo dall’abitacolo scivolo e mi slogo la caviglia e svengo dal dolore. Quando rinvengo De Rosa mi sta sorreggendo il capo. “Cosa è successo?”, chiedo ancora intontito, e lui “È stata una brutta caduta, non è niente, sei solo svenuto, stai tranquillo”. Tento di alzarmi ma una fitta tremenda mi fa desistere, non posso nemmeno posare il piede per terra. Rimango a riposo per quattro giorni prima di poter camminare con l’aiuto delle stampelle, nel frattempo il pattugliamento lungo il confine è finito e la nostra Sezione riprende le esercitazioni con il reggimento degli Alpini. Rientro a Gorizia il 9 agosto e il serg.m. Cavallo prende il mio posto. Dopo una settimana rientrano tutti gli altri e nel frattempo la mia slogatura va molto meglio, non sento più il dolore e posso camminare senza stampelle.

Le esercitazioni al poligono di Vivaro – Aviano
La Squadriglia inizia l’addestramento in previsione delle Manovre e sia i piloti che gli osservatori vi prendono parte. Il cap. Marino dà disposizioni affinché una pattuglia, guidata dal m.llo Mariani, con Johnny e me come gregari, si porti sul poligono di tiro per effettuare esercitazioni al fuoco. I piloti utilizzeranno le armi fisse e gli osservatori le Lewis, brandeggiabili a doppia canna. I bersagli saranno costituiti da palloncini color arancio che, per ottenere il miglior punteggio, dovremo colpire usando il minimo indispensabile di colpi. Il poligono di Vivaro è nelle vicinanze di Aviano, situato nel letto asciutto del Tagliamento. L’Ufficiale che verifica i tiri e che stabilisce il punteggio è al sicuro all’interno di in una trincea, lungo la riva del fiume, da dove è possibile osservare i velivoli e controllare che poligono sia libero prima di autorizzare un nuovo passaggio. Mariani ci dice di sfilarci di 500 metri l’uno dall’altro prima di giungere sul bersaglio e di fare fuoco con l’arma fissa solo dopo che il velivolo che ci precede abbia liberato il poligono con una virata in cabrata. Decolliamo e circuitiamo sopra il bersaglio e quando l’ufficiale dal poligono ci segnala che possiamo iniziare Mariani ci fa cenno di picchiare dietro a lui, Johnny mi segue alla distanza prevista. Eseguiamo il primo passaggio senza aprire il fuoco per prendere confidenza con le manovre, seguono tre passaggi sulla trincea situata appena oltre i palloncini, gli osservatori iniziano a sparare con le mitragliatrici binate Lewis, tentando di mettere a segno il massimo numero di colpi. Centro due palloncini, Marino pure e Johnny tre. Il s.ten. Marino è un buon tiratore e l’ufficiale controllore addetto al poligono si congratula con lui e con me per la mia tecnica d’avvicinamento al bersaglio. Rientriamo a Gorizia e il cap. Marino si informa dei miei risultati e Mariani lo rassicura dicendogli che ho centrato lo stesso suo numero di palloncini. Per una settimana ci dedichiamo a varie attività addestrative e siamo in ottima forma. Le esercitazioni inizieranno tra due giorni e si terranno a Campoformido. Tutte le squadriglie dovranno partecipare con i velivoli equipaggiati di mitragliatrici, munizioni, macchine fotografiche adatte alla ricognizione aerea, bombe, ricetrasmettitori radio e scorte di carburante. La commissione valutatrice assegnerà il punteggio iniziando dal sorvolo del campo in formazione e dall’atterraggio. Con tutta l’attrezzatura i velivoli saranno alquanto pesanti ma non dovrebbero darci particolari problemi. I preparativi sono ultimati e attendiamo domani per la prova finale del decollo e volo in formazione con il carico al limite massimo.

Le gare di specialita’
Arriva l’ordine: dovremo essere a Udine domani, 3 settembre, per l’inizio delle Gare di Specialità. Ai meccanici viene dato l’ordine di allestire i velivoli con mitragliatrici, munizioni, bombe, apparati radio, macchine fotografiche e di rifornirli di carburante. I piloti aiutano nel loro lavoro i meccanici, i montatori e gli armieri. I meccanici lavorano fino a tardi, si trasferiscono in treno a Udine e da lì a Campoformido. Due meccanici rimangono a Gorizia per assicurare la messa in moto e l’assistenza ai velivoli in partenza e, a bordo degli stessi o dei Ro.5, si porteranno anche loro a Campoformido. Al mattino nell’Ufficio Operazioni della Squadriglia il cap. Marino ci impartisce le ultime informazioni: le Squadriglie di Bolzano, Padova e Bologna sono già dislocate a Campoformido, la mia squadriglia, la 41ª, decollerà dopo la 38ª e la 116ª. Dovremo fare del nostro meglio fin dall’atterraggio a Campoformido, saremo valutati dalla Commissione su ogni operazione; ogni Squadriglia riceverà un suo punteggio e saranno presenti in qualità di osservatori Ufficiali del Ministero e della 2ª Zona Aerea Territoriale di Padova. Lasciamo l’ufficio, fuori i piloti della Squadriglia aiutano gli specialisti a spingere i velivoli sul piazzale antistante l’hangar e scaldano i motori. Mi aggrego e aiuto finché gli aerei non sono tutti allineati sulla linea di volo. De Rosa si avvicina e mi informa che verrà con me in quanto tutti gli altri osservatori sono già a Campoformido, l’Ufficiale Controllore della Commissione è già stato informato. Alle 10 precise il cap. Marino arriva in hangar e ci ordina di salire a bordo e di avviare i motori, effettuiamo i previsti controlli e con un cenno della mano confermiamo “Tutto OK!”. Rulliamo, ci allineiamo con il cap. Marino in testa e decolliamo in formazione di sette velivoli. L’ottavo velivolo di “riserva”, pilotato dal m.llo Madussi, decolla da solo. Il Capitano è il Capo formazione e come ala sinistra ha il s.ten. Cozzi, Johnny e Fusacchia e come ala destra il s.ten. Lualdi, Mariani e il sottoscritto. Manteniamo una formazione larga finché non abbiamo fatto un po’ di quota e poi ci stringiamo, portiamo l’ala all’altezza della coda del velivolo leader ma leggermente più alta per tenere l’estremità alare fuori dalla sua scia e contemporaneamente allineata con l’ala dell’aereo sull’altro lato della formazione. Continuiamo a volare in formazione fino in prossimità di Campoformido, il cap. Marino fa oscillare le ali per attirare la nostra attenzione e a gesti ci dice di stringere ancora la formazione. Il m.llo Madussi, la riserva, si mette in “slot position” dietro al cap. Marino, leggermente più basso per non entrare in scia, e allineato con i primi due aerei affiancati al Capitano. Subito dopo il cap. Marino riduce potenza e comincia a scendere per iniziare l’avvicinamento a Campoformido. Lo seguiamo mantenendo una formazione perfetta e sorvoliamo il Comando dell’aeroporto a circa trecento metri di quota. Distolgo per qualche frazione di secondo gli occhi dall’ala del mio leader e vedo i velivoli delle altre Squadriglie e il personale dell’aeroporto che guardano verso l’alto, con la mano sulla fronte per proteggersi dalla luce del sole. Appena lasciato l’aeroporto, il Capitano fa cenno ai velivoli alla sua sinistra di portarsi in coda ai gregari di destra e mi ritrovo così con il m.llo Madussi gregario destro. Allarghiamo la formazione portandoci a una distanza di trenta metri l’uno dall’altro. Il cap. Marino sorvola nuovamente il campo e iniziamo l’apertura per portarci all’atterraggio, tocchiamo tutti mantenendo la stessa distanza e rulliamo verso gli specialisti che ci attendono. Johnny, che era l’ultimo della fila indiana e che poteva osservare meglio la formazione, scende dal velivolo, ci raggiunge e ci dice che abbiamo mantenuto una separazione perfetta.

A Campoformido
Il cap. Marino è soddisfatto, si congratula con noi stringendoci la mano. Anche l’Ufficiale Comandante del 1° Stormo Caccia e altri ufficiali presenti si congratulano per la nostra formazione. Il cap. Marino convoca tutta la Squadriglia e ci presenta a uno dei componenti della Commissione, il col. Popi, un suo vecchio amico. Quando il Capitano mi presenta, aggiunge “Questo è il nostro più giovane pilota della 41ª Squadriglia che partecipa all’esercitazione. È con noi da soli sette mesi e l’abbiamo sottoposto a un intenso addestramento. Per questo partecipa alle esercitazioni”. Terminate le formalità veniamo lasciati liberi per un’ora con l’impegno di non allontanarci e rimanere reperibili. Campoformido è conosciuto per la sua famosa Pattuglia Acrobatica e sia Johnny che Fusacchia hanno amici che vi fanno parte. Andiamo a salutarli e mi presentano, naturalmente mi fanno un sacco di domande sulle mie origini e ci invitano al piccolo bar sistemato all’interno dell’hangar dove consumiamo dei panini al prosciutto. Torniamo ai velivoli e notiamo che è arrivato il Comandante del 21° Stormo e che i comandanti di Squadriglia sono a rapporto dai commissari. Vengono impartite le istruzioni e spiegate le regole: “Se un velivolo commetterà un errore la penalità sarà addebitata a tutta la Squadriglia, salvo che sia causato da avaria meccanica. L’osservatore dovrà individuare e localizzare l’obiettivo piazzato dagli Alpini, fotografarlo e trasmettere le coordinate. Il pilota dovrà tornare al più presto alla base”.

Gemona e il panettone
Vengono stabiliti quattro differenti obiettivi e i Comandanti di Squadriglia saranno i primi a partire. Il cap. Marino decolla con il m.llo Della Rovere come osservatore e il suo obiettivo è nelle vicinanze di Gemona. Dopo circa venti minuti, dalla radio piazzata nella tenda della giuria arriva il messaggio del cap. Marino: l’obiettivo è stato localizzato sotto la montagna all’inizio della valle del Tagliamento, chiamata “Panettone” per la sua forma caratteristica della cima. Insieme a Johnny siamo i successivi nella sequenza di decollo, stacchiamo le ruote alle 8.35 e poco dopo individuiamo sulla carta il punto dove il cap. Marino ha precedentemente localizzato il bersaglio. Il s.ten. Marino, l’osservatore del 4° Reggimento Alpini, è con noi e consultando la carta conclude che ci sono solo due strade per spostare il bersaglio: una porta verso la valle del Tagliamento, nella direzione di Tarvisio e l’altra va da Gemona verso Udine. Nel frattempo il cap. Marino è rientrato a Campoformido ed è il primo a presentare il rapporto ai giudici. I fotografi sbarcano la macchina fotografica, estraggono la pellicola e la portano al laboratorio. Dieci minuti dopo, insieme al s.ten. Marino, siamo di ritorno e ci presentiamo ai giudici per ricevere ulteriori disposizioni. Dobbiamo decollare nuovamente, salire a 2000 metri sul campo e dirigere sul bersaglio. Prima del decollo il cap. Marino mi consegna la sua carta e mi indica la posizione del bersaglio specificando che è identificabile da una grossa “X” disegnata con dei teli bianchi, sovrapposta da un’altra con le stesse dimensioni, ma rossa. Il col. Popi si avvicina al mio velivolo con un cronometro in mano e mi autorizza a decollare. Il cap. Marino salta giù dall’ala e inizio a rullare verso il sergente addetto alla linea di volo, quando alza la bandiera verde applico tutta la potenza del motore e decollo. Come istruito salgo a 2000 metri sul campo, metto prua per Gemona e quando sono in prossimità della cittadina il s.ten. Marino individua il bersaglio sull’altro lato del Tagliamento e comincia a chiamare con la radio la base per riportare la posizione. Ci è stato ordinato di mantenere i 2000 metri per tutto il volo e poiché a bordo è installato un barografo sigillato che registra l’altitudine debbo fare attenzione alla quota. Mentre Marino continua a trasmettere supero il bersaglio, torno indietro e, quando lo sorvolo di nuovo, Marino è pronto a fotografarlo dal vano bombe e lo piazza perfettamente al centro della pellicola. Mi batte infine sulla spalla e con un cenno mi indica di mettere prua verso Campoformido, inizio una leggera discesa per incrementare la velocità e punto diritto sull’aeroporto. Nessuno pensava potessimo ritornare così presto e si accorgono del nostro arrivo solo quando rulliamo in prossimità della tenda che ospita la Giuria: in tutto abbiamo impiegato poco più di 40 minuti di volo. Sblocco il barografo portatile che era stato fissato con alcuni elastici e lo consegno al cap. Marino insieme alla sua carta geografica. Il s.ten. Marino redige il rapporto ed sono autorizzato a rimediare qualcosa da mangiare, è quasi mezzogiorno! Mentre prendo un caffè Johnny e Fusacchia decollano e contemporaneamente i s.ten. Cozzi e Lualdi salgono a bordo dei loro velivoli e si tengono pronti a decollare. Il m.llo Madussi e il serg.m. Cavallo attendono accanto ai rispettivi velivoli: hanno ordine di decollare una decina di minuti dopo il rientro di Johnny e Fusacchia. I piloti delle altre squadriglie si trovano intorno al com.te Tent e discutono dei voli e dei punti che secondo loro la Squadriglia avrebbe ottenuto. Tutti e quattro i velivoli sono ora in volo, gli ultimi due a decollare sono stati i s.ten. Cozzi e Lualdi, della nostra Squadriglia. I quattro rientrano circa un’ora più tardi e i fotografi scaricano le pellicole dalle macchine fotografiche, su ognuna segnano i nomi dell’equipaggio e le portano allo sviluppo. Ci viene ordinato di andare a pranzo e ritornare dopo un’ora e intanto la Commissione inizia subito a controllare le foto, coadiuvata dai comandanti di Squadriglia. L’unico che ha centrato il bersaglio è Johnny: tracciando sulla sua foto due linee da un angolo all’altro, il punto d’incrocio risulta esattamente sul bersaglio. I commissari assegnano due punti in più alla nostra squadriglia nella prova di Ricognizione Fotografica ma abbiamo rischiato di non farcela a causa di una foto non valida dell’osservatore che era con il serg. Cavallo, sarebbe stato un brutto colpo. Due velivoli della Squadriglia di Padova non hanno localizzato il bersaglio e pertanto sono stati squalificati, siamo terzi nella classifica a punti, con la Squadriglia di Bolzano in testa. I giudici, dopo aver comunicato i risultati, ci informano che possiamo rientrare a Gorizia ma ci dobbiamo tenere pronti a ritornare al poligono per le esercitazioni.

Le gare al poligono di Vivaro
Il 4 settembre la gara riprende con le prove a fuoco sul poligono di Vivaro, insieme alle altre Squadriglie. Il cap. Marino, dopo aver sentito i giudici di gara, ci chiama a rapporto: ogni squadriglia deve decollare in formazione, portarsi sul poligono e una volta sopra picchiare con una virata a destra e portarsi in fila indiana mantenendo la distanza di sicurezza dal velivolo che ci precede. Al primo passaggio bisogna sorvolare l’obiettivo senza sparare, soltanto al secondo, terzo e quarto passaggio si potrà far fuoco sul bersaglio, costituito da una trincea e da un mucchio di casse. I commissari saranno al sicuro in un bunker e in grado di osservare i nostri colpi. Gli ordini sono di sparare tutte le munizioni prima di rientrare a Udine. Quando tutti i piloti avranno esaurito le munizioni delle armi fisse in fusoliera, toccherà agli osservatori fare fuoco con le due armi brandeggiabili Lewis. La 41ª è la terza nell’ordine di decollo in quanto al momento siamo al terzo posto nella classifica con le altre cinque squadriglie. Il cap. Marino raccomanda di fare attenzione all’aereo che ci precede, di non sparare finché questi non ha cabrato e liberato il poligono e di tenere una distanza di almeno 300 metri l’uno dall’altro per evitare di essere colpiti dai rimbalzi dei proiettili di chi ci precede. La prima squadriglia rientra e riceviamo l’ordine di decollo; mentre siamo in volo verso l’obiettivo incrociamo gli altri velivoli sulla via del ritorno. Giunti sulla zona del bersaglio, il cap. Marino comunica al pilota di sinistra di portarsi in ala destra e quando questi è in posizione circuita sul poligono. Raggiunta la posizione di attacco mette l’aereo in picchiata e sorvolato l’obiettivo richiama con una virata in cabrata. Lo seguiamo, si riporta nuovamente sull’obiettivo, fa fuoco con la mitragliatrice frontale e tutti noi lo imitiamo. Ripetiamo la manovra per tre volte, quando aziono l’arma posso constatare dove cadono i proiettili dalla polvere che si solleva da terra. Spariamo tutte le munizioni delle armi frontali, infine il cap. Marino effettua un giro per assicurarsi che la squadriglia sia al completo e sorvola il bersaglio affinché l’osservatore possa prendere i riferimenti; lo seguiamo e al giro successivo ci portiamo leggermente di lato al bersaglio, applico una leggera pressione del timone per inclinare l’ala sinistra e facilitare il compito dell’osservatore. A un centinaio di metri dal bersaglio il ten. Mariani fa fuoco con entrambe le Lewis, i proiettili centrano il bersaglio e mentre continua a sparare la terra sembra bollire. Quando anche l’ultimo aereo ha completato il suo passaggio ci riportiamo in formazione e dirigiamo su Udine. Mariani ci ha fatto guadagnare altri due punti ma non sono ancora sufficienti per il primo posto nella graduatoria. La squadriglia di Bolzano invece perde il primo posto in favore della 38ª: due dei loro aerei non hanno fatto fuoco sul bersaglio a causa di inceppamenti alle armi. Dopo il rientro delle altre due nostre squadriglie i giudici si riuniscono per stabilire la graduatoria delle esercitazioni: risulta al primo posto la 38ª Squadriglia con 55 punti, seconda la 116ª con 53 punti, la 41ª e la 118ª pari, con 52 punti, mentre le squadriglie di Padova e Bolzano ottengono 47 punti. Siamo soddisfatti anche se non ci siamo classificati al primo posto a causa delle foto andate a vuoto. Aiutiamo gli specialisti a preparare gli aerei per il rientro a Gorizia. Il cap. Marino ci chiama a rapporto per il briefing, ci spiega che ci sarà un cambiamento nella formazione, lui condurrà cinque velivoli con il m.llo Mariani e io in ala destra e con il m.llo Madussi e il serg. Fusacchia in ala sinistra. Il s.ten. Cozzi condurrà un’altra formazione ed avrà come gregari il s.ten. Lualdi e Johnny. Il serg. Cavallo si terrà fuori dalla formazione con il Ca.100. Decolliamo in formazione a V e, arrivati in vista del nostro campo, il cap. Marino fa oscillare le ali. Come convenuto ci stringiamo, almeno per quello che permette un Ro.1, e Cozzi con i suoi due gregari si porta dietro e leggermente più basso. L’aria è calma, non incontriamo turbolenza, sorvoliamo gli hangar della Ricognizione a una quota di trecento metri, viriamo e ci portiamo in sottovento. Il cap. Marino inizia la discesa e andiamo all’atterraggio seguiti dalla formazione di Cozzi. Giunti a terra, rulliamo verso il nostro hangar, spegniamo i motori e il cap. Marino ci chiama a rapporto, ci ringrazia e si complimenta per il risultato conseguito a Campoformido e per la perfetta formazione. Aiutiamo a rimettere gli aerei nell’hangar e alcuni colleghi del 4° Stormo, incuriositi da tutto quel movimento, ci vengono a trovare e si congratulano. Il cap. Marino infine ci congeda e la sera stessa torniamo a Udine, invitati a una serata di gala con i giudici, il Duca d’Aosta e i piloti delle altre squadriglie, in un ristorante di Tarcento frequentato abitualmente dai piloti del 1° Stormo.

Di ritorno a Gorizia
Riprendiamo la nostra attività di routine a Gorizia. Con Johnny una sera vado a cena “Al Trovatore”, prendiamo l’autobus dell’aeroporto e dopo cena c’è ancora tempo per andare al cinema ma i film in programma non sono granché e Johnny propone una sala da ballo. Gli spiego che non sono molto bravo a ballare ma non disdegno di conoscere qualche ragazza. Quando entriamo nella sala la prima persona che incontro è il serg. Fausto Mascia: seduto in un angolo con due amiche, ci chiama e ce le presenta. Racconta alle ragazze che sono americano e loro a quel punto si interessano più a me che a Fausto o a Johnny. La musica inizia e una delle ragazze mi invita a ballare, le spiego che dovrà essere paziente poiché sono un ballerino poco esperto. Mi risponde di non preoccuparmi e di accompagnarla seguendo solamente il movimento dei suoi piedi. Inizialmente danziamo scostati l’uno dall’altra in modo tale che possa seguire i suoi passi ma dopo un paio di balli non ne ho più bisogno e posso stringerla al petto. Trascorriamo una piacevole serata e dopo aver accompagnato le ragazze a casa rientriamo alla base.
A Gorizia riprendo la consueta attività, e tra ricognizioni fotografiche, prove radio, pattuglie, aerocooperazioni e allenamenti arriviamo a metà novembre. Un giorno ricevo un pacco dagli USA, è di mio padre che mi spedisce alcune riviste aeronautiche che gli avevo richiesto, lo apro seduto al sole davanti all’hangar della Squadriglia per leggerle. Poco dopo il cap. Marino mi si avvicina e mi chiede di raggiungerlo nell’ufficio della Squadriglia, l’edificio tra l’hangar della 38ª e quello della 41ª Squadriglia, mi fa accomodare e come prima cosa mi chiede da dove ho avuto quei libri e cosa trattano. “Sono Aero Digest e Flying Magazine, due riviste che avevo l’abitudine di leggere negli USA”, rispondo. Il Capitano cambia argomento: “Sei sempre intenzionato a richiedere il tuo trasferimento al 4° Stormo?”. “Certamente, se è possibile”, rispondo. “Va bene! Considerati trasferito al 4° Stormo da domani. L’ordine di trasferimento è stato approvato dal Ministero dell’Aeronautica, inviato alla 2ª Zona Aerea Territoriale di Padova e trasmesso sia al 21º Stormo che al 4º Stormo”. Mi invita infine a formalizzare la mia richiesta per iscritto, su carta legale, indirizzata al Ministero dell’Aeronautica a Roma, Ufficio del Personale. Lascio l’Ufficio Comando e la prima persona che incontro è Johnny, al quale comunico la lieta notizia. Johnny si congratula e mi augura buona fortuna, sono di buon umore e lo invito a cena per celebrare l’evento, poi andiamo al cinema e siamo di ritorno alla base poco prima delle 22. Il mattino successivo mi reco all’hangar, come tutti gli altri, e mi metto a rapporto. Non sono previsti voli per le tre Squadriglie, tutto il personale della 41ª, 38ª e 116ª dovrà invece presentarsi in uniforme alle 10 per essere passato in rivista dal nuovo Comandante di Stormo, col. Popi. La cerimonia sarà tenuta nell’hangar della 116ª Squadriglia e sarà presente Sua Altezza Reale il Duca D’Aosta. Ritorno alla palazzina Sottufficiali, dietro all’hangar, salgo nella mia cameretta, indosso l’uniforme e ritorno in Squadriglia. Alle 9.50 siamo già tutti allineati nell’hangar, gli ufficiali sono a destra, i Sottufficiali a sinistra mentre il personale tecnico e i civili sono allineati di fronte al palco. Il Comandante “uscente” arriva poco dopo con il col. Popi. Il comandante dello schieramento ordina l’attenti quando entrano nell’hangar e va loro incontro: annuncia ad alta voce che tutto il personale dello Stormo è presente, ritorna al centro dell’hangar e dopo averci ordinato il riposo rimane sull’attenti. Il Comandante di Stormo uscente pronuncia un breve discorso e presenta il col. Popi che si dice onorato e lieto di assumere il comando del 21º Stormo, considerato il miglior Reparto da Ricognizione dell’Aeronautica Italiana. Conclude con cenni di riconoscimento per ogni Squadriglia e per l’elevato grado di addestramento dimostrato in occasione delle ultime manovre, invitandoci a mantenere questo livello di professionalità e di efficienza. Infine si volge al Comandante uscente e, sull’attenti, lo saluta militarmente. Il comandante dello schieramento ordina l’attenti, infine fa rompere le righe e la cerimonia si conclude. Il cap. Marino ordina alla Squadriglia di mettersi a rapporto nel nostro hangar alle 13.45. Dopo il pranzo ci riuniamo nell’hangar, al centro è allestito un tavolo con vermouth e pasticcini. Quando siamo tutti presenti il s.ten. Lualdi ci invita ad avvicinarci al centro e subito dopo entrano il ten. Cozzi e il cap. Marino. Il s.ten. Lualdi ordina l’attenti, fa rapporto al cap. Marino e infine ordina il riposo. Il cap. Marino prende la parola e manifesta la sua soddisfazione per il lavoro svolto durante le ultime manovre e si dice fiero della Squadriglia. Infine mi chiama fuori dal gruppo facendomi cenno di mettermi al suo fianco. Mentre sono sull’attenti, annuncia il mio trasferimento al 4° Stormo e aggiunge “Sono lieto che il serg. Patriarca, giovane e pieno di entusiasmo per l’Aviazione, possa transitare al 4° Stormo dove avrà occasione di migliorare le sue qualità di pilotaggio e nello stesso tempo sono dispiaciuto di perdere un elemento come lui che ha dato prova di grande professionalità e responsabilità”. Estrae un astuccio blu e me lo porge aggiungendo che è un ricordo che la mia Squadriglia ha voluto donarmi in segno di amicizia. Ringrazio lui e la Squadriglia e apro l’astuccio: contiene un anello in oro con l’insegna della Squadriglia e il mio nome inciso all’interno. Il cap. Marino mi abbraccia e dice che posso lasciare il 21° Stormo per la mia nuova destinazione. Il s.ten. Lualdi ordina l’attenti e il cap. Marino gli fa dare l’ordine di rompere le righe e di invitarci a brindare tutti insieme. Mostro l’anello a Johnny che mi stringe la mano, è commosso, porgo a lui ed al cap. Marino un bicchiere di vermouth. Il Capitano brinda augurandomi buona fortuna: “Non scordare la 41ª Squadriglia che ti ha formato come pilota”. Trascorro tutto il pomeriggio con la mia Squadriglia e alla sera il ten. Lualdi mi chiama e mi consegna il foglio di trasferimento, mi stringe la mano e aggiunge “Auguri Americano!”. Torno insieme a Johnny alla palazzina Sottufficiali e salgo nella mia cameretta al primo piano per riordinarmi. Poiché c’è ancora tempo per la cena, suggerisco di andare in città a vedere la prima di “Le Follie di Broadway” con Eleonor Powell. Prendiamo il bus che porta a Gorizia il personale dell’aeroporto, Johnny vuole pagare lui il biglietto, la sera precedente avevo offerto tutto io, ma insisto: “Facciamo alla romana!”. Lui ride e risponde “OK”. Quando usciamo dal teatro Verdi incontriamo Fausto che ci invita ad andare a ballare con due ragazze che lo aspettano. Dico a Johnny che preferisco rientrare in aeroporto con il primo bus, desidero ritirare la corrispondenza di mio padre e mio fratello e poi andare a cena. Sono seduto a letto a leggere le lettere quando rientra Johnny, gli chiedo come è andata al ballo e mi risponde “Non male, peccato che ci fossero più uomini che donne!”.

Al 4°Stormo Caccia Terrestre
Al mattino del 14 novembre mi presento con i miei documenti al Quartier Generale del 4° Stormo Caccia, l’Ufficio Comando, un’elegante palazzina di fronte all’alloggio ufficiali situato dall’altro lato della strada che porta a Gorizia. Vengo accompagnato nell’ufficio del magg. Raoul Moore, Aiutante di Campo del Colonnello. Il Maggiore mi conosce per aver sentito parlare di me dal cap. Marino, suo caro amico. “Ho visto l’ordine di trasferimento al 4° Stormo, giunto dal Comando di Padova ”, dice, e mi accompagna verso l’ufficio del Colonnello. Attendo qualche minuto, sono invitato a entrare e rimango sull’attenti. Il col. Bonola mi dà il riposo e mi invita ad avvicinarmi alla scrivania per consegnargli i documenti dai quali risulta che ho chiesto il trasferimento. Il Colonnello sfoglia la cartella, alza lo sguardo: “Vedo che desideri venire al 4° Stormo”, esclama, “Sissignore, ringrazio Lei e il col. Baudoin per il vostro aiuto a realizzare questo mio desiderio”, rispondo. Il col. Bonola dice che è lieto di avermi nel suo Stormo e mi augura di poter dare il meglio come ho già fatto al 41° Stormo. “Ma qui troverai molte cose differenti”, aggiunge, e chiede al Maggiore l’elenco dei Sottufficiali piloti. Dopo averlo consultato conclude “Sei assegnato alla 90ª Squadriglia, X Gruppo. Il comandante di Gruppo è il magg. Amantea, un asso della Grande Guerra, e il comandante di Squadriglia è  il cap. Rovis che ha volato con Italo Balbo durante la Trasvolata Atlantica. Vai dal Comandante di Gruppo e mettiti a rapporto, è già stato informato del tuo arrivo”. Poi mi saluta e mi congeda.

L’incontro con il Magg.. Amantea, il Cap. Rovis e il Ten. Dequal
Lasciato l’ufficio vado direttamente dal Comandante di Gruppo percorrendo a piedi il vialetto che porta ai tre imponenti hangar Lancini situati a Sud del campo, dal lato opposto della Ricognizione e vicino al paese di Merna. Vengo accolto da un sottotenente al quale mi presento: “Sono il sergente Vincenzo Patriarca, il nuovo pilota assegnato al Gruppo”. Mi invita a entrare nell’ufficio del Comandante, saluto e quando vedo il magg. Amantea rimango impressionato dalle decorazioni, quasi tutte al valore. È di poche parole, mi dice solamente che gli fa piacere avermi nel suo Gruppo e poi chiama il ten. Dequal ordinandogli di accompagnarmi al Comando della 90ª Squadriglia, nell’hangar più a ovest, dove è sistemata anche la 91ª Squadriglia. Mentre mi accompagna, il ten. Dequal mi confida che anche lui è della 90ª e mi stringe la mano. Al cap. Rovis mi presenta come il nuovo pilota della Squadriglia e i due si scambiano alcune battute in triestino che non comprendo. Il ten. Dequal aggiunge che vengo dagli Stati Uniti e il cap. Rovis, incuriosito, mi chiede in inglese alcuni dettagli sulle mie esperienze precedenti. Il Comandante di Squadriglia ha già una copia della mia cartella sulla scrivania e sfogliandola osserva “Vedo che sei uscito dalla Scuola di Volo di Grottaglie, assegnato al 21° Stormo e infine transitato al 4° Stormo, il tutto in meno di un anno, non è male!”. Termina la conversazione invitando il ten. Dequal ad accompagnarmi nella sala briefing dei piloti e presentarmi ai colleghi, diversi dei quali già conosco per averli incontrati al Circolo Sottufficiali. Sono presentato al s.ten. Talarico, al s.ten. Malusa e a Citterio, al capo dei montatori e agli altri specialisti. Il giorno dopo pago da bere a tutti, come d’uso e già feci a suo tempo quando arrivai al 21º Stormo. Il pomeriggio sono convocato dal cap. Rovis nel suo ufficio, mi annuncia che andrò appena possibile a Grottaglie per l’addestramento basico sui caccia: “Avrei voluto mandarti ad Aviano”, aggiunge, “ma purtroppo i due ultimi corsi sono al termine e non ne sono previsti altri”. Ha già gli ordini e i documenti di viaggio sulla scrivania e una lettera personale per il Comandante della Scuola, il col. Assunto Imbasciati con la richiesta di accelerare l’addestramento. Per due giorni gironzolo per gli hangar curiosando e osservando i voli dei piloti del mio nuovo Stormo. Salgo anche all’interno di alcuni CR20 e CR Asso per familiarizzarmi con gli strumenti e i comandi di volo e seguo i decolli e gli atterraggi nel lato Sud dell’aeroporto, quello assegnato alle operazioni del 4° Stormo. Come già ero solito fare al 21° Stormo, aiuto il serg. Baccara a tenere aggiornati i libri dell’attività di volo, di piloti e velivoli.
A partire dal 28 novembre, per non farmi perdere l’allenamento al volo, il com.te di Squadriglia mi fa volare sul Caproni Ca.100, un piccolo aereo da addestramento usato dal Reparto per i collegamenti. Quando mancano pochi giorni alle festività natalizie il cap. Rovis ci convoca e ci chiede se vogliamo andare in licenza per trascorrere qualche giorno in famiglia. I miei unici parenti sono gli zii Francis e Joe che vivono a Castelforte presso Gaeta, troppo lontani per affrontare il viaggio. Chiedo solamente un paio di giorni per andare a Trieste, il Capitano mi dice di tornare in ufficio verso le 15 a ritirare una licenza di cinque giorni e mi prega di passare al Comando per consegnare alcuni rapporti. Quando esco dall’ufficio del magg. Moore mi trovo di fronte a S.A.R. il Duca d’Aosta. “Cosa fai qui?” mi chiede. Non faccio in tempo a rispondere che il magg. Moore esce dall’ufficio e risponde per me. Il Duca vuol sapere come mi trovo e come procedo con i voli. Mi chiede pure se ho notizie della mia famiglia e infine, in inglese, mi dice di rivolgermi a lui per qualunque necessità.

Natale a Gorizia
Il giorno di Natale fa freddo e piove, la S. Messa è officiata nella palazzina degli avieri, di fronte alla nostra e vicina all’ingresso dell’aeroporto, insieme a Fausto e l’Ufficiale di Giornata assisto alla funzione. Al circolo Sottufficiali i pochi rimasti giocano a ramino, a mezzogiorno ci rechiamo tutti nella sala mensa, decorata con festoni; in un angolo è posta una piccola grotta che rappresenta la Natività, una novità per me. Il pranzo è speciale, ravioli e pollo arrosto con patate fritte, pesce e insalata russa, frutta fresca e secca e soprattutto un ottimo vino. Una bottiglia di Asti Spumante è sul tavolo per ogni quattro commensali. Il sottufficiale più anziano alla fine del pasto fa aprire le bottiglie di spumante e riempire i bicchieri, pronuncia un breve discorso d’augurio e tutti insieme brindiamo. Ho mangiato così tanto che ho bisogno di muovermi e, nonostante la pioggia, cammino avanti e indietro lungo il perimetro dell’aeroporto per circa due ore. Trascorro i giorni successivi in aeroporto e l’ultimo giorno dell’anno rientra Johnny. Con lui e Fausto andiamo a Trieste per trascorrere la notte di capodanno al Castello di S. Giusto. Il locale è affollato e fatichiamo a trovare un tavolo, il pubblico balla anche tra i tavoli. Fausto ordina una bottiglia di Lacrima Christi, ne bevo cinque bicchieri, mi sento più allegro ma sopporto bene. Lasciamo il Castello alle sei del mattino, Johnny e Fausto rimangono a Trieste perché hanno conosciuto due ragazze mentre io torno alla stazione ferroviaria per rientrare a Gorizia. Sono molto stanco, vado a dormire e mi sveglio a mezzogiorno. Il giorno successivo vado nell’hangar della mia Squadriglia, il serg.m. Vittorio Rossi sta lavorando su un velivolo. “Abbiamo un nuovo pilota, il s.ten. Malusa”, mi dice. “È stato appena assegnato alla nostra Squadriglia. Me lo ha detto poco fa il Capitano”. Trascorro il resto della giornata con il serg.m. Rossi e vado a letto presto perché voglio essere riposato per domani. Faccio colazione con Johnny e poi andiamo al nostro hangar. Ci sono tutti, il cap. Rovis presenta il s.ten. Malusa e poi fa il briefing per il volo della giornata, andrà in volo con il serg.m. Bergamini, Bandini, Baccara e il m.llo Poltronieri. Il s.ten. Talarico effettuerà il volo di controllo al s.ten. Malusa che prevede alcuni “touch and go” e stalli. Quando effettua il terzo stallo Malusa entra in vite e ne esce molto basso, Talarico si prende un grosso spavento e quando Malusa atterra lo inquadra di brutto. Trascorro il resto della giornata in ufficio ad aggiornare i quaderni tecnici dei velivoli insieme ai serg.m. Bandini e Nicolussi.
Il 19 gennaio 1935, dopo due mesi, finalmente giunge al cap. Rovis l’autorizzazione dal Comando di Stormo di inviarmi alla Scuola Centrale di Pilotaggio, 2° Reparto Volo di Grottaglie. Il Capitano mi convoca nel suo ufficio, mi consegna gli ordini, la lettera per il Comandante della Scuola, il cap. Assunto Imbasciati, e mi autorizza a partire quando desidero. Gli rispondo che preferisco andare questa notte: dormirò durante il viaggio in treno. Il T.Colonnello mi consiglia di prendere la 2ª Classe che è più comoda della 3ª, posso trovare uno scompartimento tutto per me e dormire. Lo saluto, mi stringe la mano e aggiunge “In bocca al lupo. A presto”. Vado in camera e riempio la borsa con l’indispensabile, il resto lo lascio a Johnny che quando sa della mia partenza improvvisa tira fuori dal suo stipetto un orario ferroviario: “C’è un treno che parte da Gorizia verso le 17 e arriva circa ventiquattro ore dopo a Grottaglie”, mi annuncia. In breve sono pronto, mancano un paio d’ore alla partenza. Saluto Johnny. “Ti auguro di superare brillantemente il corso”, mi dice. “Sarà come Dio vorrà!”, gli rispondo.

Nuovamente a Grottaglie
All’ingresso dell’aeroporto trovo un passaggio e arrivo alla stazione ferroviaria in pochi minuti, acquisto un biglietto e alle 17 precise sono sul treno. Il viaggio in 2ª classe è confortevole e arrivo a Grottaglie il giorno dopo nel tardo pomeriggio. Mi presento al Comando con i documenti e l’Ufficiale di Giornata mi fa accompagnare da una guardia agli alloggiamenti e dice di ripresentarmi al Comando l’indomani al mattino. Sistemati i bagagli mi reco in sala mensa e incontro il m.llo Silvestri al tavolo con altri due istruttori. È sorpreso e allo stesso tempo felice di rivedermi e mi chiede come mai sono a Grottaglie “Ero a Gorizia al 21° Stormo da Ricognizione e sono stato trasferito al 4° Stormo”, rispondo. “Sono qui per il Corso di Volo della Caccia”. Silvestri mi presenta agli altri istruttori e, non vedendo Gabrielli, chiedo di lui. “Si è ammalato circa otto mesi fa,” risponde, “credo che gli resti poco tempo ancora”. La notizia mi rattrista molto; ricordo che mi parlava di Gorizia: “Un ottimo Reparto!”, diceva. Silvestri continua: “Così sei al 4° Stormo, è un grande stormo, anch’io avrei voluto esservi assegnato!”. Per una settimana le condizioni atmosferiche sono tali da non consentire l’attività di volo. Trascorro gran parte del tempo nell’aula di Navigazione della Scuola, insieme agli altri allievi. Vengo assegnato al m.llo Silvestri per l’addestramento a doppio comando sul CR20 e il 24 gennaio, quando finalmente il tempo migliora, effettuo il primo volo. Qualche giorno dopo, mentre sono sulla linea di volo in attesa del mio turno, un allievo che sta effettuando l’esame finale, appena toccato il terreno, rimbalza violentemente più volte e infine capotta. Corriamo tutti verso l’aereo che giace capovolto, l’allievo si trascina faticosamente fuori dal posto di pilotaggio. Non è ferito, e l’aereo apparentemente non ha subito molti danni. Torno alla linea di volo e Silvestri mi dice che per oggi non ci saranno più voli, sono amareggiato ma non lo do a vedere. Silvestri mi confida che l’allievo che ha appena capottato e altri cinque suoi compagni, che già avevano alcune difficoltà, saranno esonerati. Mi dispiace per loro, solo chi ama il volo come me può capire cosa possa voler dire. Mi reco all’Ufficio Operazioni Volo, Silvestri è già lì e mi comunica che domani, tempo permettendo, sarà una giornata impegnativa e mi raccomanda di essere in linea di volo prima delle 7.30. Il mattino successivo mi alzo con buon anticipo e faccio colazione con comodo. Quando arrivo all’hangar gli specialisti stanno spingendo fuori gli aerei, Silvestri arriva puntuale e mi fa il briefing illustrando le manovre che dovrò eseguire. Saliamo a bordo, avvio il motore, rullo, metto il muso contro vento e Silvestri da dietro strilla: “Vai!”, accompagnando il comando con il gesto della mano. Faccio un primo giro campo poi mi dice di atterrare e ripartire. Andiamo avanti così un’ora e mezza a forza di “touch and go” e infine mi fa salire a 1500 metri, prende i comandi, mi mostra due stalli, mi dice di ripeterli e di andare all’atterraggio. Dopo l’atterraggio rullo lentamente zigzagando, il muso alto del CR20 impedisce la vista in avanti e solo così posso vedere se davanti ci sono ostacoli. Mi porto sulla linea di volo, Silvestri salta giù dall’aereo. Slaccio le cinture di sicurezza per fare altrettanto ma lui mi fa cenno di aspettare. Va dall’ufficiale responsabile della Scuola e gli comunica che a suo giudizio sono pronto ad andare in volo da solo. Avuto il consenso torna indietro, mi dice di mettere in moto, portarmi al punto di attesa e, a un suo segnale, di decollare. Insieme all’ufficiale si porta in prossimità dell’inizio pista e mi fa segno di “andare”. Circuito sul campo effettuando sei avvicinamenti. Mi sento a mio agio, gli atterraggi mi vengono bene, è la prima volta che sono da solo su un caccia. Quando rientro Silvestri mi sta attendendo e mi chiede di riposarmi perché vuole farmi andare subito in volo con un CR20 in versione monoposto.

Il decollo con il CR CR20
Venti minuti dopo sono nuovamente in volo con un CR20 monoposto, è molto meglio di quello a doppio comando. Compio tre atterraggi, torno all’hangar e quando scendo Silvestri mi stringe la mano e si complimenta: “OK americano!”. Nella settimana successiva effettuo altre sei ore di volo da “solista” e in “doppio comando” con Silvestri, che mi addestra a mettere le ruote su una X con atterraggi di precisione da differenti quote. Mi fa effettuare looping e tonneau veloci e lenti e mi controlla da terra, non è soddisfatto dei tonneau lenti perché esco con il muso troppo basso, non spingo sufficientemente la cloche avanti quando sono in volo rovescio. Mi fa andare in volo con lui sul velivolo biposto, esegue alcuni tonneau lenti e me li fa ripetere finché non sono perfetti. Vuol vedere anche come metto l’aereo in vite e come lo “rimetto”. Alla fine, soddisfatto delle manovre, mi chiede di ripeterle con il monoposto, mi ricorda di fare attenzione alla rotazione che sarà più veloce senza il peso del secondo pilota. All’indomani vado in volo e Silvestri mi segue ancora da terra, rimango sul “cielo campo” come istruito e quando atterro mi dice “L’esame finale con l’ufficiale Comandante del 2° Reparto è previsto per domani. Se lo superi puoi tornare al 4° Stormo”. Il Comandante della Scuola è il col. Imbasciati, vive qui in aeroporto con la famiglia e così pure il Capo Istruttore che ha a disposizione un piccolo appartamento. Il mattino successivo all’Ufficio Operazioni Volo mi informano che l’esame è alle 10, debbo farmi trovare pronto in hangar. Alle 10 trovo il Comandante del 2° Reparto che mi attende e mi dà le istruzioni sulle manovre da eseguire: debbo salire a 800 metri, effettuare degli atterraggi di precisione ovvero ridurre la potenza al minimo e senza più dare motore, mettere le ruote nel cerchio disegnato a terra, a circa 150 metri da dove si troverà lui. Dovrò poi risalire a 1000 metri, effettuare due virate di 360° e atterrare nuovamente nello stesso punto, salire per la terza volta a 1500 metri, escludere i magneti e con il motore che gira trascinato dall’elica effettuare un atterraggio di emergenza simulato. Decollo ed eseguo la prima prova, poi salgo a 1500 metri ed escludo i magneti, abbasso il muso per mantenere una velocità di 110 km/h, l’elica si ferma. Aumento la discesa, l’elica riprende a girare lentamente e in modo irregolare, trascinata dall’aria. Chiudo anche il rubinetto del carburante e la presa d’aria del radiatore per non raffreddare troppo velocemente il motore. Effettuo due virate di 360° e, mantenendo la velocità di massima efficienza, plano variando l’inclinazione laterale in modo che la traiettoria possa terminare esattamente sul punto dove debbo posare le ruote. Quando sono in virata base, gli ultimi 180°, mi rendo conto di essere alto e pertanto rischio di arrivare lungo sul punto prestabilito. Per aumentare la resistenza aerodinamica e perdere la quota in eccesso, effettuo una scivolata d’ala, porto il timone a fondo corsa da un lato e gli alettoni fondo corsa dalla parte opposta, una manovra non istintiva che vista da terra fa un certo effetto. Raddrizzo l’aereo poco prima di toccare e metto le ruote nel cerchio disegnato sul terreno, di fronte al Comandante del 2° Reparto. Due specialisti mi raggiungono dove si è fermato l’aereo e mettono in moto il motore facendo girare l’elica a mano. Rullo verso il punto dove il Comandante e Silvestri mi attendono, quest’ultimo quando mi avvicino mi lancia un bacio e alza il pollice facendomi capire che è soddisfatto. Salto giù e il Comandante mi viene incontro e mi chiede di ripetere tutto il programma, probabilmente ha ancora qualche dubbio che vuole togliersi. Decollo, salgo a 1500 metri, tolgo i magneti e torno all’atterraggio con il motore spento, questa volta non sono costretto a effettuare la scivolata d’ala. Deve essere stata questa manovra, forse considerata da lui un rimedio a una traiettoria calcolata male, il motivo della ripetizione dell’esame. Tocco al limite del cerchio a terra e, terminata la corsa d’atterraggio, gli specialisti corrono per avviarmi nuovamente il motore con il consueto “lancio” dell’elica. Quando gli sono vicino, il Comandante mi fa segno di rullare verso l’hangar, scendo e trovo il m.llo Papa. “Cosa ci fai qui?”, mi chiede sorpreso nel vedermi. “Sono venuto per il corso della Caccia”, rispondo. “Veramente sapevo che eri stato assegnato alla Ricognizione. Mi dispiace di non averlo saputo prima, sono rientrato solo oggi dalle ferie”, aggiunge Papa.

Il decollo con il CR ASSO
Mentre il Comandante insieme a Silvestri si incammina verso l’hangar faccio in tempo a spiegare brevemente a Papa come sono finito in un Reparto da Caccia famoso come il 4° Stormo. Il Comandante prima di allontanarsi mi dice di presentarmi nel suo ufficio entro venti minuti, faccio giusto in tempo a mettermi in divisa e mi reco al Ufficio Comando. Il col. Imbasciati mi accoglie e mi fa accomodare, quando entra Silvestri gli dice “Domani lei porterà in volo il sergente con il Breda Ba25, gli farà fare un po’ di acrobazia e vedrà come procede. Se lo ritiene opportuno, lo faccia decollare con il nostro CR Asso”. Sono felice, se il Comandante vuol farmi volare sull’unico CR Asso della Scuola vuol dire che ho fatto una buona impressione. Trascorrono i giorni, comincio a sentire nostalgia di Gorizia e mi auguro di potervi rientrare appena possibile, l’anno scorso ho trascorso il Natale qui a Grottaglie e d’inverno non c’era molto da fare in questa piccola cittadina del Sud. L’indomani, il 6 febbraio, vado in volo con Silvestri sul Breda Ba 25, è un bel biplano leggero e maneggevole, ci prendo subito mano. Silvestri mi lascia fare quello che voglio e infine mi fa cenno di portarmi all’atterraggio, mi dice che per lui è abbastanza. “Puoi tornartene a Gorizia!”, esclama soddisfatto. Debbo rimanere a Grottaglie ancora due giorni in attesa dell’esame finale e dei documenti per il rientro. Il giorno dopo, il 7 febbraio, torno ancora in volo con Silvestri, facciamo un po’ di acrobazia e infine senza preavviso mi toglie i magneti e mi dice di atterrare, lo faccio senza problemi. Quando arriviamo alla linea di volo c’è il Colonnello e Silvestri gli dice che per lui sono pronto per Gorizia e che se lo desidera può farmi un controllo finale. Il Colonnello ci pensa un attimo, poi annuisce, va a prendere il caschetto e sale nell’abitacolo posteriore. Ripeto le consuete manovre, il Colonnello non dice nulla ma dallo specchietto vedo che sorride. Mi batte sulla spalla e mi chiede di atterrare, dopo la corsa d’atterraggio mi fa segno di dirigere verso l’hangar e spegnere il motore. Salta giù dall’aereo e si avvia verso l’hangar, lo seguo, si toglie il caschetto e dice “Va bene! Preparati che ora vai in volo con il CR Asso”. Per un attimo rimango senza parole e poi rispondo “Sissignore!”. Il Colonnello chiama il m.llo Papa e gli ordina di portar fuori il FIAT CR Asso, gli specialisti lo spingono sulla linea di volo, il m.llo Papa sale a bordo e lo mette in moto e scalda il motore. Silvestri si avvicina, mi dà alcuni consigli e mi ricorda le principali differenze rispetto al CR20. Il Colonnello mi dice di fare tre circuiti con altrettanti “touch and go”. Salgo a bordo, allaccio le cinture e le bretelle e faccio i miei tre circuiti. Quando torno all’hangar Silvestri è soddisfatto, con le dita della mano mi fa il segno OK e mi dice che farò un altro volo con il CR Asso nel pomeriggio. Quando ritorno alla linea di volo il m.llo Papa sta mettendo a punto l’aereo, arrivano poco dopo Silvestri e il Colonnello e quest’ultimo mi dice di decollare e di eseguire qualche acrobazia con il CR Asso. Salgo a 2000 metri e provo qualche stallo per saggiare il comportamento del velivolo che, diversamente dal CR20, ha le wing slots (Handley-Page) sul bordo d’attacco delle ali superiori. Vicino allo stallo, anche tirando la cloche alla pancia, il velivolo abbassa il muso ma non vuole entrare in vite. Per farlo, bisogna forzarlo con i comandi e comunque rilasciandoli istantaneamente ne esce: un ottimo aereo! Eseguo due looping e un paio di virate sfogate e infine mi porto all’atterraggio. Quando scendo il Colonnello si avvicina e mi informa che il mio addestramento a Grottaglie è terminato: dovrò presentarmi domani alle 15 al Comando per ritirare i documenti di viaggio e il rapporto per il col. Bonola sul mio addestramento. Si rivolge quindi al m.llo Papa ordinandogli di rifornire il CR Asso perché intende andare in volo. Al Circolo Sottufficiali pago da bere a Silvestri, a Papa e ad altri due istruttori. Papa mi dice che ho migliorato il mio italiano ma ho ancora un forte accento straniero per cui nessuno crede che sia italiano. Il Circolo non è molto affollato, alcuni istruttori sono andati in licenza e così pure alcuni specialisti. In un angolo del Circolo ci sono i sei Sottufficiali, sono stati esonerati e sono in attesa di un nuovo incarico. Il giorno dopo mi sveglio tardi dato che non ho nulla da fare, non faccio colazione e vado all’hangar dove resto con Papa fino all’ora di pranzo. Alle 14, dopo aver preparato tutte le mie cose, mi metto a rapporto all’ufficio Comando. Attendo fuori dall’ufficio l’arrivo del Maggiore che, dopo alcuni minuti, mi chiama e mi consegna i documenti. Firmo la ricevuta e, insieme ai fogli di viaggio, mi porge una lettera per il Comandante del 4° Stormo che contiene il rapporto sull’esito del mio periodo d’addestramento a Grottaglie, è una prassi per tutti i piloti che hanno frequentato la Scuola. Uscendo dall’Ufficio incontro il Comandante della Scuola che si informa se ho ritirato tutta la documentazione. “Allora, quando parti?”, mi chiede. “Vorrei prendere il treno per Bari che parte poco dopo le 16”, gli rispondo. Mi stringe la mano, mi fa gli auguri e mi dice di portare i suoi saluti alla 91ª Squadriglia, lo ringrazio e aggiungo che serberò un buon ricordo della Scuola di Grottaglie e che per superare le prove mi è stata d’aiuto l’esperienza acquisita al 21° Stormo di Gorizia. Raccolgo il bagaglio e mi incammino verso il Circolo Sottufficiali dove sono certo di trovare il m.llo Papa e Silvestri. Li informo che sono in procinto di partire. Il m.llo Papa mi offre un brandy e mi augura buona fortuna, Silvestri mi stringe la mano e anche lui mi augura quanto di meglio possa avere, gli spiace di non potermi accompagnare in stazione perché deve andare in volo. “Ti accompagno io”, esclama Papa. Indossa la giacca e ci incamminiamo verso l’uscita dell’aeroporto dove rimediamo un passaggio per la città su un camion. Dopo mezz’ora arriva il treno per Taranto, Papa mi abbraccia e nuovamente mi augura buona fortuna. Provo per lui l’affetto che si prova per un padre. A Taranto prendo la coincidenza per Bari che ha una carrozza diretta per Venezia, viaggio tutta la notte e riesco a dormire fino a Bologna dove mi sveglia il vocìo degli operai che salgono per andare al lavoro. Arrivo a Venezia verso mezzogiorno, salgo sul treno per Trieste, ho fame, vado nella carrozza ristorante e mangio qualcosa, scendo a Monfalcone e cambio per Gorizia dove arrivo nel tardo pomeriggio.

Di ritorno a Gorizia
A Gorizia fa più fresco che al sud, la giornata è piacevole e decido di rientrare in aeroporto la sera e di approfittare per trascorrere il resto della giornata in città. Mi concedo una cena “Al Trovatore”, il ristorante di via Morelli frequentato dal personale di volo e gestito da Angelo Furlani. Quando esco torno al caffè “Alle Ali”, dove avevo lasciato il bagaglio, e attendo l’autobus per l’aeroporto. Sono felice di essere di nuovo a Gorizia, la città mi piace e mi sento a casa mia, in aeroporto ormai conosco tutti e mi sembra di essere in famiglia. Arrivato nella mia cameretta sistemo i bagagli, faccio una doccia e vado subito a letto, sono stanco per il viaggio e mi addormento immediatamente, non sento neppure Johnny che rientra più tardi. Quando al mattino mi sveglio Johnny dorme ancora. “Sveglia dormiglione, è ora di alzarsi”, gli dico, e lui: “Buongiorno a te, sono felice di rivederti, com’è andata a Grottaglie?”. Gli racconto tutto mentre mi vesto e gli chiedo cos’è successo di nuovo durante la mia assenza. “Non ci sono grandi novità”, risponde,  “Sono appena arrivati due nuovi piloti alla 41ª e non ci sono più letti liberi, sarà il caso che ti sposti al piano superiore dove sono alloggiati i Sottufficiali del 4° Stormo”. Preferisco invece non muovermi e attendere gli ordini dal Comando del 4° o 21° Stormo. A colazione Johnny mi confida che Fausto è stato congedato lo scorso anno per aver causato un incidente e sfasciato un aereo procurandosi serie ferite al volto, ha lasciato il Reparto un mese dopo. Saluto Johnny e mi incammino verso il Comando del 4° Stormo con i documenti e la lettera di Grottaglie. Incontro il magg. Moore che mi accompagna dal col. Bonola. “Sei rientrato presto”, osserva. “Come ti sei trovato a Grottaglie?”. “Abbastanza bene”, rispondo, e gli consegno i documenti e la lettera che apre e legge attentamente. Alla fine commenta “Molto bene, torna alla tua Squadriglia e mettiti a rapporto dal cap. Rovis”. Esco e incontro il ten. Dequal a cui riferisco che sto andando dal cap. Rovis, si offre di accompagnarmi nel suo ufficio. Il capitano mi dà il benvenuto in inglese: “Glad to have you back with us again!”. Ha appena ricevuto una telefonata dal col. Bonola che gli anticipava il mio arrivo. Osservo che mi fa piacere sentir parlare la mia lingua dopo tanto tempo. Il capitano continua chiedendomi com’è andato l’addestramento a Grottaglie e con quali aerei ho volato. “Bene”, continua, “d’ora in poi devi lavorare parecchio se vuoi diventare un pilota da Caccia. Il volo qui è diverso da quello che conoscevi quando volavi col Ro.1, dovrai addestrarti al volo in formazione e alla acrobazia individuale, in formazione, al combattimento aereo, alla navigazione a bassa e alta quota. Tutto quello che un buon pilota da caccia deve conoscere per servire il proprio Paese”. “Farò del mio meglio”, rispondo in inglese. “Da domani riprenderai a volare e ogni volo sarà per te un esame finché non avrai raggiunto un livello standard di efficienza”, dice, e aggiunge “Bene, ora vai a ritirare i tuoi indumenti di volo e nel frattempo segui l’attività di volo dei tuoi colleghi”. Mi congeda e ordina al ten. Dequal di preparare una nota per il magazzino. Trascorro il resto della giornata seduto a osservare i decolli e le acrobazie sul cielo campo dei nuovi piloti. Salgo su alcuni aerei parcheggiati sulla linea di volo e ripasso mentalmente tutte le manovre.

In volo col CR ASSO
Il mattino del 14 febbraio mi viene chiesto di andare in volo con un CR Asso ed effettuare dei “touch and go”, virate sfogate a destra e sinistra e stalli, con motore e senza. Vado in volo prima per 24 minuti e poi per altri 21. Quando atterro dopo il primo volo il ten. Talarico, che mi osservava da terra, mi chiama da parte e mi consiglia di dare più alettone in virata in modo da rovesciare più agevolmente il velivolo. Nel pomeriggio sono di nuovo in volo, manovro come consigliato ed effettivamente le virate mi riescono meglio. Dopo le virate sfogate metto l’aereo in picchiata accentuata, acquisto velocità e cabro mantenendo l’aereo con il muso alto finché smaltisco la velocità e il velivolo rimane appeso all’elica. Quando iniziano le vibrazioni tolgo motore, l’elica si ferma, spingo la pedaliera a fondo corsa e l’aereo ruota sull’ala sinistra e mette il muso verso terra. Spingo la cloche in avanti, l’aereo scende diritto e prende velocità, l’elica trascinata dall’aria riprende a girare e il motore si riavvia, do un po’ di manetta e lentamente metto l’aereo in volo livellato, mi porto in circuito e atterro. Rullo verso la linea di volo dove trovo il cap. Rovis che, insieme ad altri piloti, mi stava osservando. “Chi ti ha insegnato il Fieseler?”, mi chiede. “L’ho visto fare da altri e ho provato ad imitarli”, è la mia risposta, e lui in inglese “Come ti sembra il CR Asso?”. “È la mia prima esperienza con un caccia”, rispondo, “mi sembra un gran bell’aereo”. L’addestramento sul CR Asso va avanti per più di un mese e acquisisco sempre più familiarità con il velivolo, lo controllo bene e lui risponde ai miei comandi. Il ten. Talarico e i Sottufficiali piloti più anziani seguono con passione i miei miglioramenti, sono generosi di consigli e mi riprendono ogniqualvolta non eseguo impeccabilmente i loro insegnamenti. Il ten. Talarico è molto pignolo, mi spiega come si effettua un “tonneau lento” di alettone, e cioè facendo ruotare l’aereo sul proprio asse percorrendo una traiettoria rettilinea, diverso dal “tonneau a botte” che è un’ampia rotazione a forma di spirale orizzontale. Il giorno dopo mi porto dietro le montagne, a duemila metri, per non esser osservato, metto l’aereo in picchiata fino a raggiungere i 300 km/h sull’anemometro, richiamo, cabro dando tutto motore e provo uno tonneau lento, mantenendo l’aereo con un forte angolo di salita. Completato il tonneau rimango con il muso alto finché la velocità cade e l’aereo è prossimo allo stallo, spingo la pedaliera da un lato, tolgo potenza e completo con un “Fieseler”. Con il muso basso l’aereo riprende subito velocità, ridò motore e mi metto in volo livellato. Atterro e rullo verso l’hangar, sulla linea di volo c’è il ten. Talarico che mi chiede dove mi fossi cacciato. “C’erano altri aerei in volo”, rispondo con una bugia. “Mi sono portato a Nord del campo, in un’altra area, per evitare rischi inutili”. Effettivamente c’erano altri due aerei che effettuavano acrobazie vicino al campo, e il Tenente non commenta. Sono soddisfatto perché sono convinto di aver finalmente imparato la manovra e chiedo al ten. Talarico quando inizierò l’addestramento al volo in formazione. Mi risponde che questa decisione non spetta a lui ma al cap. Rovis.
Il 4 marzo è una magnifica giornata con il cielo limpido e arrivo alla Squadriglia primo fra tutti, pronto a dare una mano a spingere gli aerei in linea di volo. Non vedo il Capitano, che poco dopo arriva in compagnia del Comandante della 84ª Squadriglia, quella che occupa la metà dell’hangar centrale accanto al nostro. Il cap. Rovis mi chiama e mi dice “Prendi il primo aereo pronto, vai in volo e rimani sul campo. Non ci sono altri aerei in giro, effettua tutte le manovre che vuoi ma senza esagerare se non sei più che sicuro. Portati a 2500 metri e non scendere sotto i 1000 metri”. Ascolto sull’attenti e rispondo “Sissignore!”. Corro a prendere casco ed occhiali e mi avvio verso il velivolo con il numero 10, accanto al quale c’è già il motorista, il serg.m. Vittorio Rossi, pronto a collegare il tubo dell’aria compressa per l’avviamento. Riscaldo il motore e raggiunta la temperatura prevista, col pollice alzato, segnalo a Rossi di togliere i tacchi. Salgo sul campo fino a raggiungere i 2500 metri, inizio un looping, quando sono in verticale con il muso verso il basso ruoto di 180° sull’asse longitudinale ed effettuo un looping dall’altra parte, disegnando così un otto nel cielo. Eseguo un paio di altre figure e mi porto all’atterraggio. Spengo il motore, scendo e mi avvicino al cap. Rovis. “Hai fatto dei progressi. Bravo!”, mi dice. “Puoi iniziare l’addestramento al volo in formazione e poi al tiro al bersaglio ‘in bianco’ e poi a quello ‘reale’”, e si allontana. Mi avvicino al serg. Baccara, un pilota della mia Squadriglia, e gli chiedo se ha visto la mia acrobazia e cosa ne pensa. “Ho visto tutto, ero sulla linea di volo”, risponde, “e l’hanno vista anche i colleghi. Non è male, vai meglio di altri piloti più anziani di te ma ti devi ancora perfezionare”.

Un volo in coppia con il Cap. Rovis
Nel pomeriggio il Capitano mi chiama e mi chiede di indossare gli indumenti di volo e di prepararmi per un volo di addestramento in coppia con lui. In pochi minuti sono pronto, decolliamo insieme, raggiungiamo 1500 metri e livelliamo. Mi metto con l’ala all’altezza del suo stabilizzatore e cerco di mantenere la posizione. Il Capitano abbassa il muso, picchia dolcemente e poi cabra. Lo seguo e lui ripete la manovra ancora un paio di volte e, visto che non mi sfilo, manovra più decisamente. Ho ancora qualche problema con il controllo del motore e tendo a superare il Capitano all’inizio salita e a rimanere indietro durante il livellamento. Debbo essere più pronto e accurato con l’uso della manetta. Mi segnala che effettueremo delle virate a destra e sinistra e, indicando col dito l’occhio, mi fa capire di stare attento. Durante le prime virate riesco a mantenere la posizione ma poi, quando inizia a stringere, ho qualche difficoltà soprattutto in posizione esterna. Bisogna intervenire a ogni piccolo spostamento relativo ed essere pronti nell’uso della manetta e del timone di direzione. Più volte infatti mi sfilo portandomi avanti o indietro al Capitano a causa di un uso eccessivo e ritardato del motore. Continuiamo così per una quindicina di minuti e poi ci portiamo all’atterraggio. Sceso dall’aereo mi avvicino al cap. Rovis che nota la mia tuta impregnata di sudore sulla schiena e sul petto ed esclama ridendo “Ti ho fatto lavorare, hai fatto una bella sfacchinata, eh!”, e aggiunge “Non è male per essere la prima volta che fai una formazione stretta”. Rispondo che non è la prima volta che volo in formazione ma sul Ro.1 è tutta un’altra cosa! Il CR Asso è molto più “nervoso” ai comandi e poi sul Ro.1 non facevamo manovre accentuate in formazione. Il Capitano aggiunge che da oggi dovrò dedicarmi all’acrobazia al mattino mentre al pomeriggio andrò in volo con i piloti più anziani per allenarmi a stare in formazione. Vengo sottoposto a un intenso addestramento e dopo non molto comincio a notare io stesso i primi risultati. Un giorno vengo assegnato, per un volo in formazione a tre, con il s.ten. Talarico e il serg. Baccara. La mia posizione è quella di gregario di Baccara che sta alla mia sinistra, riesco a mantenere la formazione senza grandi difficoltà. Il s.ten. Talarico, visto che non mi sfilo, inizia ad accentuare le manovre con picchiate, cabrate e virate sfogate. Faccio fatica a mantenere la posizione ma ce la metto tutta, saliamo poi a 2000 metri. Talarico ci fa cenno che effettueremo tre looping, abbassa il muso per prendere velocità e tira il primo looping. Quando usciamo fa prendere nuovamente velocità all’aereo e parte con il secondo looping. Riesco a stargli dietro, alza il pollice verso l’alto ed effettua anche il terzo. Usciti dal terzo looping il Capitano riduce potenza, ci portiamo in circuito sul campo e atterriamo mantenendo la formazione. Sulla linea di volo della 90ª e 91ª Squadriglia c’è il cap. Rovis con altri piloti che ci hanno osservati durante le manovre, eravamo praticamente sulla verticale del campo. Ci slacciamo, scendiamo e ci avviamo verso l’hangar, il s.ten. Talarico mi dice “Bravo Patriarca, vai bene!” e il cap. Rovis aggiunge che ha apprezzato il nostro lavoro e “Appena Patriarca sarà pronto, inizierete a lavorare in formazioni da 5+7 velivoli in modo da prepararvi per le prossime esercitazioni al poligono di Vivaro”.

Finta caccia
Un pomeriggio sono in volo da solo e mi sto esercitando con alcune figure acrobatiche quando mi si accosta sulla destra un collega della 84ª che non posso riconoscere per gli occhiali e il caschetto che indossa. Alza il braccio e unisce il pollice con l’indice, facendomi capire che vorrebbe ingaggiare un finto combattimento. Con il capo annuisco e facciamo quota salendo a 2500 metri; tra di me penso che rischio di fare una figuraccia, non ho mai provato una “finta caccia”, sicuramente il collega sarà un esperto ma vuol dire che farò del mio meglio. Voliamo per qualche secondo ancora insieme poi “rompiamo” dirigendo in opposte direzioni in modo che il sole non sia a vantaggio di uno solo dei due. Dopo venti secondi viriamo di 180° e iniziamo l’attacco puntandoci l’un l’altro. Viriamo entrambi all’ultimo istante e ci incrociamo vicinissimi tanto che subito dopo entro nella sua scia e per un attimo ballo violentemente. Continuiamo virando in cerchi sempre più stretti per guadagnare la coda dell’altro, sono schiacciato al seggiolino per la forte accelerazione che in certi momenti mi annebbia la vista. Dopo circa un minuto di “giostra” il collega ha guadagnato terreno e si avvicina alla mia coda; sto volando con la testa girata in continuazione, pesa come un macigno. Rovescio l’aereo, mi giro e vedo che mi è dietro, con il motore al massimo porto la barra a fondo corsa in avanti, vengo spinto violentemente verso l’esterno. Sono trattenuto solo dalle bretelle, il sangue mi va alla testa, sembra che mi scoppi. Vedo rosso. Continuo fino a che l’aereo è verticale, appeso all’elica. Mi giro nuovamente ed è ancora dietro ma sulla mia sinistra. Tolgo motore e quando l’aereo ha perso velocità spingo la pedaliera fondo corsa a sinistra, il muso gira verso il basso. Non si aspettava questa manovra e deve schivarmi, do tutta potenza e tiro su uscendo più alto di lui, è fatta! Ora sono in posizione di vantaggio, sono più alto e posso tenerlo sotto tiro, posso picchiare su di lui, risalire e riportarmi in posizione dominante. Dopo un paio di volte che gli piombo addosso, si rovescia e si allontana. Mi porto all’atterraggio, rullo verso l’hangar della 90ª e quando scendo il motorista della linea di volo mi dice che ha seguito il nostro combattimento, lo ha trovato interessante. Il pilota della 84ª mi viene incontro: “Non mi aspettavo proprio che tu facessi un Fieseler dopo quella cabrata!”, mi dice. “Sei riuscito sempre a tenermi in vista durante tutte le manovre?”. Rispondo affermativamente; infatti ho mantenuto il contatto visivo sia durante la cabrata che durante il Fieseler. Mi saluta e si allontana, dopo essersi presentato: è Giuseppe Peruch. Nelle settimane successive comincio l’addestramento al volo in formazione con una pattuglia di cinque e un’altra di sette velivoli, il tutto intervallato da raid su aeroporti o campi di fortuna lungo il confine con la Jugoslavia e su Pola. Torno anche a Campoformido, dove incontro alcuni piloti conosciuti quando ero al 21° Stormo, rimangono sorpresi nel vedermi su un velivolo con le insegne del 4° Stormo e prima di rientrare a Gorizia mi invitano al loro Circolo Sottufficiali.

Al poligono di Vivaro
Mancano pochi giorni alle esercitazioni al poligono di Aviano. I velivoli vengono portati nel lato sud-ovest del campo dove c’è il “parapalle”, gli specialisti sollevano la coda e la fissano su dei cavalletti, si mettono gli aerei “a bolla”, le armi, due mitragliatrici Vickers da 7.7 mm, sono controllate accuratamente, azionate e tarate affinché il tiro sia perfettamente convergente alla distanza di 200 metri e il collimatore risulti centrato sul bersaglio. Viene anche verificata la sincronizzazione delle armi in quanto debbono sparare attraverso l’elica senza colpirla. Aiuto gli specialisti a spingere i velivoli fuori dagli hangar e gli armieri a preparare i “nastri” con i proiettili e alla sera cinque velivoli sono pronti, riforniti ed armati. Il cap. Rovis ci convoca e insieme al ten. Talarico prepara la missione. A me chiede se ho già effettuato mitragliamenti, dice che troverò alcune differenze rispetto a quando sparavo con il Ro.1 perché ora i bersagli saranno alcuni palloni frenati posti a cinque metri da terra. Il Capitano non vuol vedere assolutamente nessun pilota passare troppo basso sul bersaglio, ci raccomanda di calcolare esattamente la distanza da cui iniziare ad aprire il fuoco e, dopo una breve raffica, ci ricorda di “richiamare” immediatamente. Molti incidenti sono avvenuti proprio per la tendenza ad accanirsi sul bersaglio. Ogni pilota effettuerà quattro passaggi, il primo “in bianco” per ambientarsi con l’area del poligono, gli altri tre sparando brevi raffiche sui palloni. Terminato il briefing, ci congeda e lasciamo l’hangar mentre i motoristi e gli armieri rimangono per effettuare le ultime piccole messe a punto ed i rifornimenti. Al mattino la 91ª è la prima a decollare per il poligono di Vivaro, a circa 15 minuti di volo da Gorizia. A terra, protetti da terrapieni e trincee, ci saranno un paio di ufficiali addetti al controllo dei tiri che dirigeranno le operazioni. Il cap. Rovis ci riunisce per un ultimo veloce briefing e poi ci portiamo sulla linea di volo. Siamo già pronti dentro i nostri velivoli e ci viene detto che i colleghi della 91ª sono sul poligono, stanno effettuando gli ultimi passaggi e tra breve pertanto verremo autorizzati ad avviare i motori e decollare, li dovremmo incrociare sulla via del ritorno. Decolliamo in formazione di cinque velivoli, mettiamo la prua per Aviano. Quando abbiamo in vista il poligono, il cap. Rovis ci fa segno di portarci in fila indiana ed effettua un largo giro. Riconosco i palloni che ondeggiano legati a terra da una fune: sono di un colore arancio molto appariscente, tanto da essere notati distintamente da lontano. Ci distanziamo di circa mille metri dal velivolo che ci precede. Il Capitano è il primo a buttarsi sul bersaglio con una virata in discesa, lo seguiamo uno alla volta. Posso osservare bene tutta la manovra e quando tocca a me non ho difficoltà a ripeterla. Il primo passaggio, come istruiti, è in “bianco” e in quelli successivi apriamo il fuoco. Nel primo centro un pallone, al secondo giro vado a vuoto e nel terzo prendo un altro pallone, infine ci ricongiungiamo in formazione e rientriamo a Gorizia. Quando gli armieri aprono i portelloni dove sono le mitragliatrici risulta che ho sparato 35 colpi, due più di Bergamini e cinque meno del cap. Rovis. Nessun pilota ha colpito tutti e tre i palloni, due piloti ne hanno centrato uno e tre piloti ne hanno centrati due. “Non è male per essere la prima volta”, mi dice in inglese il Capitano battendomi sulla spalla. L’addestramento ai tiri continua per una settimana, andiamo in volo due volte al giorno e in breve acquisisco una tale confidenza con le armi che ottengo gli stessi risultati degli altri piloti della Squadriglia, a volte sparando meno colpi.

Arrivano i CR30 e CR32
In aprile gira voce che il Reparto riceveraà i nuovi velivoli che già equipaggiano il 1° Stormo, i CR30, velivoli biposto a doppio comando che serviranno per le successive abilitazioni al CR32, più corto di una quarantina di centimetri, con lo stesso motore e con prestazioni eccezionali. Alcuni FIAT CR 32 erano stati ordinati dall’Aviazione tedesca ma, quando la Germania ha annesso l’Austria, Mussolini ha cancellato la commessa benché cinque velivoli fossero già stati consegnati. Tutti i reparti verranno dotati di questo velivolo che la FIAT sta costruendo per la Regia Aeronautica, ogni Squadriglia riceverà dodici CR32 e tre Ro.41. Verso la fine di aprile al nostro Stormo vengono assegnati un CR30 e due CR32. Il mio Gruppo è il primo a effettuare il passaggio, prima sul CR30 e poi sul CR32. Il 26 aprile effettuo il mio primo volo doppio comando con il m.llo Ganda sul CR30 e ho la sensazione di volare su una macchina eccezionale, ma il CR32 ha prestazioni ancora superiori. È diverso dagli altri velivoli, seduto al posto di pilotaggio mi trovo completamente a mio agio, sembra un abito fatto su misura, in volo è docile da manovrare e mi sento tutt’uno con l’aereo. Nelle settimane successive la situazione politica internazionale si fa critica, l’Etiopia sta creando problemi agli italiani in Somalia e la Lega delle Nazioni minaccia di porre le sanzioni economiche all’Italia se attacca l’Etiopia. Arriva dal Ministero l’ordine di reclutare volontari tra i piloti per una missione in Africa Orientale con le nuove squadriglie da ricognizione equipaggiate con i Romeo Ro.37, un velivolo uscito di recente dalle officine IMAM Romeo di Napoli. Dopo alcuni giorni di meditazione e senza chiedere consiglio ad alcuno, mi presento al Comando di Stormo e chiedo di essere inviato in missione in Africa Orientale con i nuovi velivoli. Durante l’attesa dell’ordine di trasferimento, due incidenti funestano la Squadriglia. Il 2 maggio il ten. Aldo Malusa entra in collisione con un altro velivolo pilotato dal serg. Arrigo Marchetti della 96ª con il quale si esercitava alla finta caccia, nessuno dei due si salva. Un pomeriggio del 2 giugno il s.ten. Talarico decolla insieme a Nicolussi e Bandini per le consuete esercitazioni al poligono di Vivaro, e durante la puntata contro i palloncini effettua un mezzo tonneau per provare il tiro in volo rovescio ma quando esce dal tonneau ha il muso troppo basso e con il carrello impatta violentemente il terreno e l’aereo diventa una palla di fuoco.
Dopo diversi voli di allenamento di acrobazia in Squadriglia si passa alla formazione di Gruppo, tre Squadriglie per un totale di 27 velivoli e di Stormo, 54 velivoli. Ci alleniamo per la manifestazione prevista a giugno.

Le parate aeree del 14 giugno, 10 luglio e 16 luglio 1935
Il 14 giugno 1935, in occasione della visita dell’Arciduca d’Austria all’aeroporto di Gorizia, partecipo all’imponente manifestazione aerea alla quale assistono diversi Ufficiali Superiori e autorità locali. Sorvoliamo l’aeroporto in formazione e la città partecipa all’evento. Il 10 luglio ha luogo un’altra cerimonia in onore del gen. Francesco Pricolo, com.te della II ZAT in visita all’aeroporto per porgere il suo saluto al personale della 41ª Squadriglia della Ricognizione Aerea, in partenza per l’Africa Orientale. Insieme alle altre Squadriglie del IX e X Gruppo, sfiliamo sul cielo di Gorizia al comando del t.col. Cerutti che guida ben 54 velivoli. La 73ª è in testa, seguita dalla 96ª e 97ª, dietro a queste la 90ª, 91ª e 84ª. Io sono il gregario esterno della 90ª. Il 16 luglio sono di nuovo in volo con un’altra formazione che sorvola l’aeroporto esibendosi davanti alle autorità.

A Guidogna – Monte Celio con il Cap. Leotta – la 103ª Squadriglia da ricognizione
Il 30 luglio arriva dal Ministero l’autorizzazione al mio trasferimento: dovrò presentarmi alla 103ª Squadriglia da Ricognizione Aerea dislocata nell’aeroporto di Guidonia dove si trova il Centro Sperimentale dell’Aeronautica. Due giorni prima era arrivata anche l’autorizzazione per il serg. Bergamini che, convocato dal col. Bonola, aveva ricevuto l’ordine di trasferimento. Ritirati i documenti di viaggio, la sera stessa lascio anch’io Gorizia per raggiungere Bergamini. Dopo una notte trascorsa sul treno arrivo a Guidonia il pomeriggio successivo e mi presento al comandante di Squadriglia, il cap. Leotta, un uomo di bassa statura che a prima vista non ispira molta simpatia per i suoi modi alquanto bruschi. Sono sull’attenti davanti alla sua scrivania aspettando che mi dia il riposo. “Da quale Reparto provieni?”, mi domanda. Continua chiedendomi su quali velivoli ho volato e infine vuol vedere la cartella con i miei documenti. La legge e poi, alzando gli occhi, si accorge che sono ancora sull’attenti e mi ordina il riposo. “Vedo che sei italo-americano”, osserva. “Di quale parte d’Italia sono i tuoi genitori?”. Mi chiede quante ore ho effettuato e vuol vedere il libretto di volo. Mentre stiamo parlando bussano alla porta; il Capitano risponde “Avanti”, quando vedo chi si affaccia alla porta non riesco a trattenere un sorriso, è il serg. Bergamini. Il Capitano chiede se ci conosciamo. “Eravamo insieme a Gorizia”, rispondo. Bergamini mi stringe la mano, si dice lieto di avermi in Squadriglia con lui e mi propone di accompagnarmi agli alloggi e di condividere la cameretta. Il Capitano annuisce e gli dice di tornare poi in ufficio perché desidera farci conoscere il Ro.37.

Il Ro.37
Siamo di ritorno dopo un’ora e il Capitano ci accompagna in uno dei cinque hangar, quello principale, dove sono sistemati i nuovi velivoli: “Voi siete i primi due Sottufficiali arrivati e insieme al s.ten. Bolzano”, ci dice, “dovrete sottoporre i velivoli ai test di accettazione. Debbono essere consegnati alla Squadriglia dodici velivoli, prima porterete a termine il vostro compito, prima partiremo per l’Africa Orientale”. Ci invita a salire al posto di pilotaggio e a familiarizzarci bene con comandi e gli strumenti poiché il velivolo è solo in versione monoposto e non è possibile effettuare addestramento a doppio comando. Resto seduto nell’abitacolo per circa trenta minuti, la strumentazione è abbastanza simile a quella del CR30 e il motore è lo stesso, mentre tutto il resto sembra molto diverso, nonostante il velivolo provenga dalla stessa linea di montaggio. Non è molto curato nei dettagli, ha un carrello molto basso e l’estremità dell’ala inferiore è a soli 75 centimetri dal suolo. Grazie al profilo più aerodinamico, il posto dell’osservatore è in compenso più confortevole rispetto al Ro.1. Il mattino successivo il cap. Leotta effettua il primo volo di collaudo mentre Bergamini e io andiamo in volo al pomeriggio. Trovo il velivolo più leggero ma non manovrabile come un caccia, circuito un po’ intorno al campo e poi mi porto all’atterraggio. Segnalo agli specialisti che l’aereo è più pesante sull’ala destra ed è necessario applicare uno sforzo continuo a sinistra. Il responsabile dei comandi di volo regola il compensatore fisso installato sul bordo d’uscita dell’ala e mi chiede di tornare in volo, cosa che faccio immediatamente. Effettuo alcune virate a diverse velocità, alcuni stalli, salgo a 2500 metri, metto l’aereo in vite e faccio tre giri prima di uscire. Quando arrivo a terra il cap. Leotta mi viene incontro insieme a un colonnello responsabile del Servizio Manutenzione che mi fa una lavata di capo: “Chi ti ha detto di fare la vite? Lo sai che il collaudatore durante i test ha perso il rivestimento delle ali facendo la vite?”. Poi, calmatosi, aggiunge che il problema è stato risolto e che anche altri piccoli difetti sono stati eliminati. Mi domanda se ho notato qualche comportamento anomalo durante la vite e poi chiede al Capitano di fare un rapporto del volo e farlo firmare anche a me. Qualche giorno dopo arrivano alla nostra Squadriglia il s.ten. Bolzano del 2° Stormo Caccia, il s.ten. Stazzi della 84ª Squadriglia del 4° Stormo Caccia, il s.ten. J.C. Faccioli, il serg. Columbo, il serg. Curtrino e il serg. Bartolucci. Pure il personale tecnico di terra è ora al completo.

A Napoli da“Zi’ Teresa” con il Cap. Leotta e Bergamini
Il 13 agosto, insieme al cap. Leotta e a Bergamini vado a Napoli a ritirare gli ultimi tre velivoli alla Casa Costruttrice IMAM Romeo e con il capo collaudatore effettuiamo anche i controlli previsti per l’accettazione. La trasferta a Napoli è piacevole, di sera siamo liberi ed è un’occasione per conoscere la città. Il cap. Leotta ci invita a cena da “Zi’ Teresa” e ci confida che vuol essere pronto a partire per l’Africa Orientale al più presto, prima delle altre squadriglie. Trascorrono alcuni giorni per completare tutte le procedure previste per il ritiro delle tre macchine e infine ritorniamo a Guidonia. Tutti gli aerei sono stati consegnati, i piloti abilitati e a ognuno è stato assegnato un velivolo. Il s.ten. Bolzano viene inviato a Napoli un paio di giorni prima della partenza prevista per coordinare in anticipo le operazioni di smontaggio e sistemazione dei velivoli e delle parti di ricambio che verranno trasbordati sulla nave. Arriva l’ordine di trasferire in volo i Ro.37 a Napoli e il cap. Leotta predispone le pattuglie di tre velivoli ciascuna, la prima composta da lui, Bergamini e il sottoscritto, la seconda dal s.ten. Stazzi, Colombo e Curtrino, la terza dal s.ten. Faccioli, Bartolucci e un altro pilota. Decolliamo sfalsati di poche decine di secondi l’uno dall’altro e ci ricongiungiamo in volo. Rimaniamo a Napoli per circa due settimane in attesa che ai velivoli vengano smontate le ali e che siano imbarcati sul Saturnia.
 

La partenza per l’Africa Orientale
Il 24 agosto lasciamo il porto di Napoli diretti in Africa Orientale. Prima dell’imbarco assistiamo a una parata militare in nostro onore, abbiamo alcune importanti personalità a bordo, tra le quali il Conte Ciano, Bruno e Vittorio Mussolini e altri gerarchi fascisti. Finalmente la nave toglie gli ormeggi e lascia la banchina, cominciavo a non sopportare tutta la ressa e la confusione della folla. Rimango sul ponte a osservare il golfo di Napoli che lentamente rimpicciolisce all’orizzonte e non posso dimenticare che due anni prima proprio in questo porto sbarcavo squattrinato per iniziare la mia avventura nella Regia Aeronautica. Tutta la Squadriglia viene presentata a Bruno e Vittorio Mussolini. Li trovo molto disponibili, si fermano a lungo a parlare con noi e Bruno se ne esce con alcune barzellette. La cucina di bordo è buona e la truppa passa il tempo cantando e ascoltando i compagni che suonano la chitarra. Sono tutti allegri, sottocoperta fa molto caldo e chi può trovare posto sul ponte vi si sistema e si formano diversi gruppi di amici intenti a giocare a carte.

Massaua con la 103ª Squadriglia
Il 31 agosto 1935, dopo tre giorni di navigazione, attraversiamo il Canale di Suez e dopo altri cinque giorni raggiungiamo Massaua al mattino presto, sbarchiamo solo a mezzogiorno per aiutare a scaricare e trasportare i velivoli in aeroporto che dista dalla città quattro miglia. Dobbiamo anche caricarci tutti i nostri effetti personali e arriviamo alla nostra nuova base sudati fradici. Ho una sete maledetta e non c’è acqua fresca, l’unica disponibile sembra appena uscita dal forno. Quando tutti i velivoli sono in aeroporto finalmente possiamo recarci nei nostri alloggi, una lunga e bassa baracca. Apriamo la porta e veniamo assaliti da una miriade di mosche, la sporcizia è indescrivibile e le brandine sono già occupate da altri. Chiamiamo il Capitano che viene subito a controllare, si accerta delle condizioni degli alloggi e si reca dal Comandante dell’Aeroporto con il quale “solleva un polverone”. Il Comandante in persona viene a verificare e, constatato anche lui lo stato degli alloggi, chiama l’Ufficiale di Giornata e lo “inquadra” ordinandogli di radunare tutto il personale addetto alle pulizie, togliere le cianfrusaglie e fare una pulizia generale e gli rammenta che il locale deve essere a uso esclusivo della 103ª Squadriglia. Alla mensa dell’aeroporto la situazione non è migliore. Per il caldo torrido la pausa pasto è di tre ore, così approfitto per recarmi a Massaua a procurarmi del cibo a mie spese. Torno a bordo della Saturnia che è ancora ormeggiata alla banchina, chiedo ai marinai di acquistare qualcosa, l’equipaggio mi offre da bere e da mangiare e rifiuta il denaro che offro in cambio. Rimedio qualche bottiglia di acqua minerale e in città acquisto delle zanzariere da porre sopra la brandina e difendermi dagli insetti che di notte mi tormentano. Passiamo i successivi due giorni a trasbordare le attrezzature e gli equipaggiamenti, aiutiamo anche i montatori e i meccanici ad assemblare i velivoli ed è una occasione per diventare amico di alcuni di loro che prima non conoscevo. Il s.ten. Bolzano riceve dopo alcuni giorni l’ordine di rientrare in Patria in quanto è stato promosso capitano e deve assumere il comando di una squadriglia che addestrerà e poi trasferirà qui. Quando il primo aereo è pronto il cap. Leotta vuole effettuare personalmente il volo di collaudo, il s.ten. Stazi effettua il test del secondo aereo. Ognuno va in volo con la macchina che gli è stata assegnata, io effettuo il mio volo il pomeriggio dell’11 settembre. Trascorrono alcuni giorni e infine tutti i velivoli sono efficienti, salvo quello del cap. Leotta che si è danneggiato per una capottata in atterraggio occorsa al capitano stesso, fortunatamente rimasto illeso.

Asmara
La nostra prossima sede operativa sarà Asmara, il decollo è previsto nel tardo pomeriggio del 13 settembre. L’aereo ha sostato sotto il sole e la manetta è talmente infuocata che per regolare la potenza del motore debbo avvolgere la mano con il fazzoletto. Giungiamo ad Asmara in due pattuglie, una con sette velivoli e una con cinque, sorvoliamo la città e il Capitano punta verso l’aeroporto. Il s.ten. Stazi, che guida la seconda pattuglia, si porta in coda alla prima in modo da formare una imponente formazione e sfiliamo sul campo destando l’attenzione e l’ammirazione degli abitanti. Data la quota relativamente bassa si distinguono i volti della gente che ci osservano, agitano le braccia, sembra proprio che non passiamo inosservati. Dopo il giro sull’aeroporto, a un ordine del cap. Rovis ci sfiliamo e ci portiamo in fila indiana a una distanza di 50 metri l’uno dall’altro e concludiamo la nostra esibizione atterrando. L’aeroporto ha una pista in cemento ed è la prima volta che atterro su una superficie pavimentata, provo una piacevole sensazione a rullare senza gli scossoni dovuti all’irregolarità del suolo. Ci portiamo davanti agli hangar, saltiamo giù dai velivoli e ci mettiamo ritti davanti all’elica. Sono l’ultimo della fila e guardando verso il primo dei nostri vedo un generale che sta avanzando stringendo la mano ai piloti e agli osservatori. Quando mi è di fronte è sorpreso dall’emblema con il Cavallino Rampante del 4° Stormo che porto cucito sulla tuta di volo. “Appartieni al 4° Stormo?”, mi chiede. “Anch’io ho fatto parte di questo famoso Stormo”, continua, “durante la Prima Guerra Mondiale ero con Francesco Baracca. Sii fiero di appartenere a questo Stormo”. Mi stringe la mano e si allontana. Chiedo al s.ten. Stazi e a Colombo chi è quel generale. “È il Comandante in Capo dell’Aeronautica Italiana in Africa, è il famoso asso della Grande Guerra, il gen. Ferruccio Ranza”, mi rispondono. Il suo aspetto e la sua personalità mi hanno subito colpito, avevo intuito che doveva essere un personaggio di grande valore. Rimaniamo ad Asmara circa due settimane effettuando solamente qualche volo saltuario. Apprendiamo dalla radio che l’Italia ha dichiarato guerra all’Etiopia in quanto Hayla Selasse [Hailè Selassiè, n.d.T.] non ha interrotto le azioni di brigantaggio e gli attacchi agli insediamenti italiani lungo i confini con la Somalia. Sull’aeroporto di Asmara vi sono due squadriglie di bombardieri, nella “Leone” ci sono Bruno e Vittorio Mussolini e nella “Disperata” c’è il Conte Ciano. Mi reco due volte in città ad Asmara, non trovo nulla di interessante, è invasa dai militari, i cinema sono stracolmi di gente, non si trova un tavolo libero nei ristoranti e le attese superano l’ora. In aeroporto è dislocata una squadriglia di FIAT CR20 A.Q. (Alta Quota), vado a curiosare e mi siedo nel posto di pilotaggio. Un sottotenente si avvicina, scendo dall’aereo, saluto e spiego che guardavo la strumentazione e che appartengo alla 103ª Squadriglia. Mi chiede com’è il Ro.37, rispondo che non è male ma non è paragonabile al CR30, dal quale provengo. Arriva anche un Capitano, si unisce a noi, scambia qualche battuta e chiede del mio accento. Gli spiego le mie origini e poi preso da una strana intuizione mi rivolgo al sottotenente: “Mi scusi signor tenente, se non sbaglio lei è il famoso pilota Tito Falconi che ha vinto il record mondiale di volo rovescio”. Ho la conferma, è proprio lui! Il Capitano invece si chiama Raffaello Colacicchi ed è molto cordiale, quando terminiamo la conversazione dà disposizione al ten. Falconi di scegliere due piloti e di predisporre una pattuglia per una breve missione di ricognizione lungo il confine. Ritorno alla mia Squadriglia, i motoristi stanno scaldando i motori di due nostri velivoli, il cap. Leotta ed il s.ten. Stazi si preparano per una ricognizione nei territori in mano alle nostre truppe. Vado alla mensa di campo e trovo il serg. Bartolucci seduto a un tavolo con un gruppo di colleghi che racconta barzellette. Tutti ridono facendo un gran chiasso, non capisco molto di quanto dicono perché Bartolucci parla in romagnolo. Il mattino successivo nel campo circola la voce che questo pomeriggio giungerà in visita il Capo di Stato Maggiore, il gen. Giuseppe Valle, con il nuovo bombardiere veloce Savoia Marchetti S.79. Arriva intanto una Squadriglia di bombardieri Savoia Marchetti S81, sembrano molto lenti ma hanno una capacità di carico enorme. Più tardi giunge il velivolo del gen. Valle. È una macchina straordinaria, effettua un sorvolo del campo dimostrando le sue caratteristiche speciali di velocità, dopo l’atterraggio rulla verso l’hangar, ha una linea filante ed elegante. Il Generale si ferma ad Asmara due giorni e poi prosegue per Mogadiscio, in Somalia.

Gura
Rimaniamo qui ancora un paio di giorni, poi il 18 settembre la Squadriglia riceve disposizioni di trasferirsi a Gura, la nostra nuova base. Anche qui la sistemazione non è delle migliori, anzi, è ancora più precaria di Asmara. Vi sono tre baracche utilizzate come officine e uffici e quattro grandi tende come alloggi. Effettuo un paio di voli per ambientarmi con il territorio, in uno di questi voli arrivo fino in Etiopia, sorvolo anche le nostre truppe che stanno avanzando e quando effettuo un passaggio basso mi salutano agitando le braccia. Poco dopo mi arriva l’ordine di trasferimento dalla 103ª Squadriglia alla 106ª Squadriglia, di stanza ad Asmara.

Ad Asmara con la 106ª Squadriglia
Il mattino successivo vengo caricato su un camion militare diretto ad Asmara, dopo un viaggio tutt’altro che confortevole giungo a destinazione alle tre del pomeriggio, completamente coperto di polvere. Nonostante la distanza non eccessiva abbiamo impiegato tutto questo tempo perché le strade erano intasate dalle truppe che si portavano sulla linea del fronte. Ho fame ma prima debbo presentarmi al Comandante della mia nuova Squadriglia, il cap. Colacicchi, che mi assegna l’alloggio in un edificio riservato ai Sottufficiali. Gli alloggi non sono male, ben arredati e puliti, c’è pure una tenda adibita a mensa e riservata alla Squadriglia. Dopo una doccia veloce mi reco subito alla mensa ed incontro il m.llo pilota Luigi Vaschi e Attilio Allavena, della 90ª Squadriglia di Gorizia e i serg. piloti Servetto, Tamanini, Gugliuzza e Marini. Dopo essermi rifocillato mi aggrego al tavolo dove i colleghi giocano a ramino, vale la regola che chi perde paga da bere agli altri. Quando mi alzo dal tavolo e vado a dormire la stanchezza accumulata durante il viaggio si fa sentire tutta. Il 20 settembre mi sveglio fresco e riposato e prima di fare colazione vado alla Squadriglia, non è arrivato ancora nessun pilota, collaboro con i motoristi che stanno mettendo in moto e scaldando i motori e mi siedo dentro l’abitacolo di un velivolo. Arriva alla linea di volo il cap. Colacicchi con il ten. Tito Falconi e il ten. Andrea Favini che fa parte anche lui della Squadriglia. Il Capitano si avvicina all’aereo nel quale sono seduto, mi chiede cosa faccio, mi presenta al s.ten. Favini e aggiunge “Metti in moto e facci vedere un po’ di acrobazia. Mi raccomando, rimani sul cielo campo e non esagerare!”. Vado a prendere il paracadute in magazzino, allaccio le cinghie mentre mi incammino verso l’aereo e salgo a bordo. Il motorista, il serg. Bianchi, ha caricato la bombola dell’aria compressa per l’avviamento, eseguo i controlli di routine e decollo. Salgo a 1800 metri, effettuo uno stallo per saggiare questo velivolo che non è dotato di “wing slots”, poi un altro più accentuato e poi metto l’aereo in vite. Dopo quattro giri esco, prendo velocità ed effettuo un looping, alla sommità eseguo un tonneau, completo il looping e mi porto all’atterraggio, saranno trascorsi dieci minuti o poco più dal decollo. Il serg. Bianchi mi aiuta a liberarmi dalle cinghie e togliendomi il paracadute mi sussurra “Hai dato un bello spettacolo!”. Il Capitano si avvicina e mi dà un pugno sulla spalla e… “Ti avevo detto di non esagerare!”. Non è un vero rimprovero ma un suggerimento, e infatti i ten. Falconi e Favini, alle spalle del Capitano, sorridono. Si avvicinano alcuni membri d’equipaggio dei bombardieri che stazionano sull’aeroporto e che hanno assistito all’esibizione, sono Bruno e Vittorio Mussolini, si interessano all’aereo. Saluto Bruno Mussolini che si ricorda di avermi conosciuto sulla Saturnia quando venivamo in Africa, scambiamo qualche parola e ci lasciamo. L’attività della Squadriglia è ridotta, giusto qualche protezione in quota delle truppe e qualche volo di collegamento da Gura a Macalle. Rimango per diversi giorni di allarme a protezione di Asmara e Massaua da eventuali attacchi aerei nemici, senza effettuare alcuna missione. Da Macalle, dove è dislocata la mia vecchia Squadriglia, mi giunge notizia che il ten. Falconi è stato promosso capitano e deve rientrare in Italia.

Macalle – Gura – Assab – Otumlo
Il 3 ottobre vengo trasferito con una sezione della Squadriglia ad Assab, un piccolo porto all’estremità dell’Eritrea, sul Mar Rosso. È un posto abbandonato da Dio, non c’è la minima comodità, si dorme nell’unico hangar esistente. Il pozzo d’acqua più vicino è a dodici chilometri dal campo, è un vasto territorio vulcanico senza vegetazione, salvo qualche rara palma nelle vicinanze delle poche case di Assab. Si vola sempre al mattino presto e l’aereo impiegato è il CR20 bis, una vecchia conoscenza. Oltre a un pattugliamento e a una partenza su allarme, gli altri voli sono allenamenti all’acrobazia e finta caccia, tutto sommato mi ambiento abbastanza bene al luogo. Verso metà dicembre effettuo qualche volo tra Otumlo, Asmara, Mai Edaga e il 21 dicembre mi giunge l’ordine di rientrare ad Asmara, non ne sono dispiaciuto. Arrivo a Macalle con l’aereo ma non trovo più i miei vecchi compagni di Squadriglia. Si sono trasferiti su un altro campo, vicino al fronte. Ritorno ad Asmara e ricevo l’ordine di recarmi a Gura con un messaggio per la Squadriglia Bombardieri e di rientrare subito, prima del tramonto. Mancano pochi giorni a Natale e in Squadriglia si stanno preparando i festeggiamenti con un pranzo speciale per l’occasione, alcuni colleghi si danno da fare andando alla ricerca di quanto serve e ci autotassiamo per far fronte alla spesa. Il giorno di Natale andiamo ad assistere alla S. Messa e poi giochiamo a ramino fino all’ora di pranzo. Mentre siamo a tavola giunge la notizia che a Gura due hangar sono andati distrutti da una esplosione durante il caricamento degli spezzoni (bombe a frammentazione) sui velivoli e che quindici militari hanno perso la vita. L’allegria della festa cessa di colpo, ci si domanda cosa può aver provocato l’esplosione e se sono state prese tutte le precauzioni per evitare simili incidenti.

Partenza su allarme – 25 dicembre 1935
Finito di pranzare ci sediamo attorno a un tavolo quando alle 15.15 entra il cap. Colacicchi insieme a un altro Capitano, ci ordina di indossare immediatamente le tute di volo e di portarci sulla linea di volo. Corriamo fuori, afferro il casco e gli occhiali senza preoccuparmi di indossare la tuta. Prima di decollare ci raduniamo vicino agli aerei per un briefing sulla missione che prevede un mitragliamento e spezzonamento delle linee nemiche. Il Capitano guiderà la pattuglia composta dal m.llo Vaschi e Allavena, dal serg.m. Gagliuzza, Marini e il sottoscritto. Mentre stiamo rullando per allinearci sulla direzione di decollo la ruota del carrello sinistro dell’aereo del serg.m. Marini finisce in una buca e l’elica tocca il suolo danneggiandosi e costringendolo a rientrare. Lo sorpasso, mi porto in formazione con gli altri quattro velivoli e decolliamo. Mettiamo la prua per la zona di Taccazè dove le truppe di terra sono in serie difficoltà perché gli etiopi li hanno accerchiati, e hanno chiesto l’intervento dell’Aviazione. Dopo 35 minuti di volo siamo già diverse miglia all’interno dell’Etiopia e scrutando il terreno sotto di noi noto le nostre truppe avanzare insieme ad alcune colonne di carri armati leggeri che alzano un polverone visibile distintamente da lontano. Incrociamo una formazione di bombardieri sulla via del ritorno, oscillano le ali per salutarci. Quando giungiamo sulla zona dei combattimenti, al passo di Ad Gagà Dembè, notiamo che la zona è interessata da una intensa attività bellica e sembra che gli etiopi siano in ritirata, incalzati dalle nostre truppe. Ci inoltriamo ulteriormente in territorio etiope per scoprire dove hanno i loro bivacchi e quando siamo nei pressi di Selaclacà Beles vediamo alcuni militari correre verso i rifugi. Il cap. Colacicchi ci fa segno di seguirlo, inizia una virata in discesa e ci portiamo in fila indiana per un attacco al suolo puntando sulle tende dell’accampamento. Quando siamo a distanza ravvicinata notiamo le croci rosse dipinte sui bordi delle tende, il Capitano cabra senza aprire il fuoco e si dirige verso il punto ove avevamo notato le truppe etiopi in ritirata. Mi sfilo dalla formazione per qualche centinaio di metri e provo le armi di bordo. Nel frattempo il Capitano ha già iniziato la manovra di attacco e sta cabrando ma non posso distinguere se ha sparato. Tocca poi a Gagliuzza, che vedo “tirare su” senza sparare, seguono il m.llo Allavena e Vaschi che picchiano quasi insieme. Aprono il fuoco sulle truppe e salgono rapidamente virando a destra. Quando tocca a me, alla distanza di 300 metri, faccio partire una raffica, qualche secondo dopo vedo delle esplosioni causate dai miei proiettili che debbono aver colpito delle casse di munizioni trasportate dai cavalli. Cabro e mi appresto a effettuare un secondo passaggio per colpire un gruppo di militari che sta piazzando ai bordi della strada una mitragliatrice tirata giù da un cavallo. Proprio in quel momento noto uno dei nostri velivoli volare rasente al suolo, abbandono il bersaglio e lo seguo dando tutto motore per raggiungerlo. È Vaschi, quando gli sono vicino mi fa segno che si appresta ad atterrare, forse è stato colpito al motore. Lo vedo toccare il terreno: dopo una breve e rovinosa corsa alza la coda e capotta in mezzo a una nuvola di polvere. Circuito sopra l’aereo e quando sono nella direzione opposta con mia sorpresa noto che a terra c’è anche un altro CR20 dal quale esce del fumo, è quello del m.llo Allavena. Vedo distintamente Allavena correre verso l’aereo di Vaschi e aiutarlo ad uscire dall’abitacolo. Vaschi si alza e agita le braccia verso di me e poi le incrocia a forma di “X”, estrae due strisce di stoffa rosse che ognuno di noi ha in dotazione e le stende al suolo formando una “X” per segnalarmi che è pericoloso tentare un atterraggio a causa del terreno accidentato. Alcuni sbuffi sul terreno, in prossimità dei due sfortunati, mi fanno capire che sono sotto tiro del nemico e quando mi avvicino Vaschi con il braccio mi indica un albero. Entrambi corrono verso l’aereo per ripararsi dietro al motore. Mentre viro e risalgo con tutta potenza per prepararmi ad un altro attacco noto alcune traccianti partire proprio dall’albero che mi è stato indicato da Vaschi. Quando livello sono a circa 400 metri di quota, inizio la picchiata e contemporaneamente viro puntando il bersaglio. A circa 200 metri dall’albero faccio partire una nutrita raffica con entrambe le armi, l’albero sembra bollire e quando gli sono quasi sopra vedo due uomini cadere a terra insieme a una cassa, probabilmente di munizioni. Tiro su e viro verso Vaschi e Allavena che si proteggono dietro la sagoma dell’aereo di Vaschi, mentre un gruppo numeroso di etiopi corre verso di loro. Effettuo un passaggio basso sopra le loro teste, non mi sparano più e si mettono al riparo, mi riporto con un’altra virata su di loro e collimo gli etiopi più vicini a Vaschi e Allavena facendo partire qualche breve raffica. Vedo alcuni militari cadere colpiti dai miei colpi, erano giunti molto vicini ai due e debbo stare molto attento a mirare bene. Continuo a circuitare e colpire gli altri che tentano di raggiungere i piloti, manovro anche la pedaliera per allargare la raffica. Diversi militari cadono sollevando le braccia al cielo e aumentando il numero di quelli che giacciono a terra, gli altri ripiegano cercando un posto dove proteggersi. Mi accingo all’ennesimo attacco ma comincio a essere a corto di carburante, controllo l’indicatore di livello e ho appena 15 minuti di volo, non bastano nemmeno per rientrare ad Asmara.

Costretto ad abbandonare Vaschi e Allavena alla loro sorte
Con profonda tristezza prendo la dolorosa decisione, oscillo le ali per salutare i due sfortunati, augurandomi che le nostre truppe giungano in tempo per salvarli e mi dirigo verso Asmara. Cerco di salire in quota il più possibile per ridurre il consumo di carburante e avere una migliore visuale del territorio; contemporaneamente metto in prua 090°, arrivato a 3000 metri di quota riduco i giri del motore per economizzare il carburante. Dopo una decina di minuti scorgo una grossa città e non molto lontano una nube di polvere che a prima vista mi sembra alzata da un autoveicolo in corsa. Guardo meglio e con mia grande sorpresa mi accorgo che si tratta di un aereo appena atterrato. Sembra un Ro.1, lo riconosco dalla sua grande ala, lo seguo durante il rullaggio e scorgo altri Ro.1 parcheggiati uno accanto all’altro. Non ho mai provato una simile gioia e senso di sollievo, sono in volo da due ore e venti minuti e il carburante è agli sgoccioli! Butto giù il muso e mentre sto circuitando sull’aeroporto, dopo qualche borbottio, il motore si ferma. Aumento leggermente l’angolo di discesa e la velocità. Quando sono all’inizio del campo effettuo un paio di scivolate d’ala per perdere l’eccesso di quota, richiamo all’altezza dei Ro.1 parcheggiati e tocco circa al centro del campo, smaltisco la velocità e mi fermo dopo circa 300 metri. Salto giù e vedo un veicolo dirigere verso di me, quando è a una decina di metri riconosco il cap. Colacicchi e Gugliuzza e due altri ufficiali. Il Capitano scende dal veicolo: “Dove sei finito, che ne è di Vaschi e Allavena?”, sono le sue prime parole mentre mi abbraccia. Dopo averlo informato di quanto accaduto mi racconta che entrambe le armi, sue e di Gugliuzza, si sono subito inceppate e non sono riusciti a sbloccarle a causa della sabbia penetrata negli otturatori. Sono rimasti ancora un po’ sull’obiettivo ma poi non mi hanno più visto e hanno pensato che mi fossi perso nel tentativo di rientrare al bivacco. Mentre ci incamminiamo verso la vettura mi mette un braccio sulla spalla e chiede ulteriori dettagli sulla sorte dei due colleghi, i suoi occhi si inumidiscono per la pena che prova e per la terribile sorte che sicuramente avranno subìto.

Axum
Sono atterrato ad Axum, mi spiega, la Città Santa dell’Etiopia, e mi accompagna verso una grande tenda ai bordi del campo, il Quartier Generale del Comandante dell’aeroporto. Debbo ripetere tutto l’accaduto al Comandante e infine il cap. Colacicchi mi aiuta a stendere un rapporto dettagliato che firmo e che verrà inoltrato al Comando di Asmara. Nel frattempo viene inviata una pattuglia in soccorso di Vaschi e Allavena e qualche ora più tardi veniamo a sapere che alcuni alpini hanno localizzato i resti dei due velivoli incendiati dagli etiopi ma dei due piloti non c’è traccia. I loro corpi verranno rinvenuti dopo tre settimane, crocefissi a un albero, con i testicoli tagliati e infilati nella bocca, cucita con il filo di ferro, il cuore strappato e probabilmente mangiato. Secondo credenze locali questo rito trasmette la forza del nemico. Si fa buio e il Capitano mi invita ad andar a mangiare qualcosa ma non ho fame, così Gugliuzza mi accompagna nella tenda che mi ospiterà insieme a lui e ad altri piloti della Ricognizione. Incontro alcuni colleghi delle Squadriglie di Ricognizione di Bolzano e Gorizia che avevo conosciuto a Campoformido durante le Gare di Specialità e tutti insieme andiamo alla mensa di campo dove gran parte di quanto preparato per il pranzo di Natale non è stato consumato. Assaggio solo qualcosa e quando lasciamo la mensa alcuni alpini ci vengono incontro e ci chiedono se possiamo dare loro del pane, da cinque giorni mangiano solamente gallette e carne in scatola. Mi rivolgo al serg. Fava e gli chiedo se possiamo offrire loro l’insalata russa che abbiamo lasciato sulla tavola e che nessuno ha toccato. Con il suo consenso torniamo alla mensa ormai deserta, prendiamo il piatto e lo consegniamo agli alpini insieme a un fiasco di vino, con la raccomandazione di restituire il piatto vuoto. Ci ringraziano e poi il più alto di loro si avvicina, quasi ci sovrasta per quanto è alto, e in dialetto veneto ci dice “El Signor grande e misericordioso el possi protegerve!”. I colleghi propongono di andare al cinema del campo ma sono troppo stanco e rispondo che preferisco andare a dormire, è stata una giornata che mi ha messo a dura prova. Gugliuzza intanto ha incontrato un collega del suo stesso paese e si ferma a parlare dei loro comuni ricordi davanti agli alloggi degli specialisti. Lo lascio con l’amico e vado a buttarmi sulla brandina senza nemmeno spogliarmi: oggi è Natale ma per me è stato uno dei giorni più tristi della mia vita, ho perso due cari amici in un modo veramente tragico! Prima di addormentarmi il mio pensiero va a mio padre e mio fratello che trascorrono il Natale a migliaia di chilometri di distanza. Al mattino Gugliuzza mi sveglia e andiamo insieme alla mensa, torno poi al mio CR20, parcheggiato vicino a quelli del Capitano e di Gugliuzza, chiedo al meccanico se è stato rifornito e mi risponde che sta attendendo la l’automezzo con il carburante. Controllo le armi, ho ancora una cinquantina di colpi complessivi, arriva il mezzo con il carburante e contemporaneamente anche il cap. Colacicchi insieme a un altro ufficiale: mi comunica che rientreremo insieme ad Asmara appena gli aerei saranno pronti. Decolliamo alle 14.45 e dopo 65 minuti giungiamo sulla verticale dell’aeroporto, c’è diverso personale dell’aeroporto a attenderci. Circuitiamo sul campo e ci portiamo in fila indiana, atterriamo e ci dirigiamo verso gli hangar, il gen. Ranza è davanti al piazzale della nostra Squadriglia. Spenti i motori scendiamo e il Capitano si mette a rapporto dal Generale e lo aggiorna brevemente su quanto accaduto, gli porge il rapporto che ho redatto e con un cenno mi chiede di avvicinarmi. Il Generale ordina al cap. Colacicchi di stendere una proposta per il conferimento di Medaglia d’Oro al Valor Militare per Luigi Vaschi per il suo atto di eroismo e di Medaglia d’Argento per Allavena. Le medaglie saranno concesse alla memoria dopo che i loro corpi saranno recuperati oppure quando sarà confermata ufficialmente la loro morte se saranno dati per dispersi. Il cap. Colacicchi di sua iniziativa mi propone per una Medaglia di Bronzo al Valor Militare ma di tale proposta andrà persa ogni traccia dopo lo scioglimento della 103ª e 106ª Squadriglia. Continuano a giungere dall’Italia altri piloti e tra questi anche il s.ten. Fortunato Cesari del 4° Stormo che, a seguito di un atterraggio forzato con il Ro 37, verra’ trucidato insieme all’osservatore ed insignito della M.O.V.M. Riprendo a volare il 3 gennaio 1936, l’attività è molto ridotta, effettuo alcuni voli di collegamento con Gura, una ricognizione su Macallè, una partenza su allarme e qualche volo di allenamento, non mi vengono più assegnate missioni sul fronte. Non sto troppo bene ma non ne faccio menzione ad alcuno, perdo diversi chili di peso ed ho anche febbre con diarrea emorragica. Il 3 febbraio la mia situazione si aggrava notevolmente e rischio di lasciarci le penne, un sottotenente mi fa ricoverare d’urgenza all’ospedale di Massaua e lui stesso mi accompagna. Dopo qualche giorno comincio a migliorare, la diarrea cessa e inizio a riprendere il peso perduto. Un giorno non partecipo alla Santa Messa e il cappellano militare, parlando con alcuni militari ricoverati nello stesso reparto, alludendo a me dice che qualcuno finge di essere ammalato e va a passeggio per il parco dell’ospedale a trastullarsi. Vado a cercarlo e, senza tanti complimenti, gli dico che non ritengo di essere obbligato a spiegare a lui quali sono i miei problemi di salute e forse sarebbe meglio che si occupasse dei problemi spirituali dei militari lasciando quelli di salute agli ufficiali medici. I tre colleghi di reparto che hanno assistito allo scontro con il cappellano mi dicono che non si sarebbero mai aspettati che mi potessi rivolgere in quel modo ad un superiore. Li mando tutti a quel paese e da quel giorno il cappellano non mette più piede nel nostro reparto. Mentre sono in ospedale il cap. Colacicchi, il s.ten. Favini e gran parte dei piloti rientrano in Italia e coloro che invece hanno richiesto di rimanere vengono assegnati alle nuove squadriglie da Ricognizione. Ci sono novità anche per me, vengo assegnato alla 109ª Squadriglia, comandata dal cap. Quaglia, ma rimango per il momento ancora in ospedale. Faccio amicizia con un infermiere, gli prometto 400 lire se recupera la mia uniforme e gli effetti personali assicurandolo che non farò il suo nome se vengo sorpreso prima di abbandonare l’ospedale. Il mattino successivo, quasi all’alba, viene accanto al mio letto e mi sussurra “La tua roba è nelle docce”. Mi alzo cercando di non svegliare gli altri tre militari compagni di camerata, mi reco alle docce, indosso velocemente la divisa, lascio l’ospedale e mi dirigo verso l’aeroporto dove la prima persona che incontro è il serg.m. Servetto che è stato trasferito alla Squadriglia di Ricognizione, qui ad Asmara.

Mai Edaga, assegnato alla 109ª Squadriglia
Servetto mi informa che sono stato trasferito con il resto della Squadriglia a Mai Edaga, vicino a Gura, distante 85 miglia via aria da Asmara e molto di più via terra. Ci sono diversi collegamenti aerei con Macallè mentre non ce ne sono per Gura, nonostante sia un’importante base militare. Mi reco al deposito dei veicoli militari e chiedo a un sottotenente se è prevista qualche tradotta per Gura o Mai Edaga. Mi risponde che tra un’ora parte un convoglio per Decamerè, di salire sul primo camion e attenderlo. Il viaggio procede celermente e senza intoppi. Ricordo le vicissitudini della volta precedente quando la strada non era ancora asfaltata e ed era bloccata per il fango, con un traffico caotico e spesso a senso unico. Ora invece si viaggia spediti anche sul tratto montano. Scendo a Decamerè e rimedio un passaggio per Mai Edaga da un altro sottotenente alla guida di un mezzo militare, ora il viaggio è molto più breve. Arrivo e mi avvio verso l’unico edificio dell’aeroporto che ha l’insegna con la scritta “Comando”. Mi presento all’ufficiale di picchetto, spiego che sono stato assegnato alla 109ª Squadriglia e lui mi accompagna nell’ufficio del Comandante dell’aeroporto. Il cap. Quaglia è al telefono e quando sente il mio nome comunica alla persona che è dall’altra parte che sono di fronte a lui in quello stesso istante. Dopo qualche secondo risponde “Molto bene Colonnello, glielo rispedisco immediatamente e sarà lì alle 21”. Posa la cornetta e con tono molto serio mi redarguisce: “Cosa diavolo ci fai qui?”. Spiego la mie vicissitudini e il Capitano rasserenato mi invita a rifocillarmi e aggiunge “Ti metto a disposizione un mezzo per tornare in fretta ad Asmara. Sarai imbarcato su una nave ospedale e rimpatriato, hai dato abbastanza in Africa e l’ufficiale medico ha detto che se rimani ancora un po’ qui ci lasci le ossa e rovini la salute a chi ti sta vicino”. Dopo aver mangiato ritorno al comando, mi viene assegnata una vettura con due guardie per maggiore sicurezza e protezione durante il viaggio notturno per Asmara. Il cap. Quaglia mi saluta, mi augura buona fortuna e mi dice che avremo occasione di incontrarci in Italia in quanto anche lui tra breve sarà rimpatriato. Giungo all’ospedale di Asmara alle 21 e mi metto a rapporto dall’Ufficiale medico di servizio, che saputo il mio nome chiama il Colonnello, quest’ultimo dà ordine di sistemarmi per la notte e mi dice di presentarmi da lui domani mattina. Vengo sistemato in una cameretta da solo, sono stanco per il viaggio di andata e ritorno a Mai Edaga e la levataccia del mattino e non fatico ad addormentarmi. Alle 8 del mattino sono nell’ufficio del Colonnello. “Vieni avanti ragazzo”, mi dice, e mi fa segno di sedermi. “Vorrei sapere perché hai preso la decisione di abbandonare l’ospedale”. Gli racconto che non ne potevo più di stare lì, mentre c’era tanto da fare al fronte. “Come hai fatto ad avere la tua divisa?”, mi domanda. Rispondo che la porta del magazzino era aperta, mi sono cambiato e sono sgattaiolato attraverso l’uscita secondaria dell’ospedale. Anche il Capitano concorda che la soluzione migliore per me è il rimpatrio, l’aria di queste parti non si confà alla mia salute e conclude “Ho qui l’ordine che prevede che tu lasci questa stessa mattina Asmara per Massaua. Il primo mezzo parte alle 10.30, sei già nella lista passeggeri della nave che rientra in Italia insieme ad altro personale dell’Aeronautica. Sarete in compagnia di un Ufficiale”.

Il rimpatrio
Il 7 febbraio arrivo alla stazione, salgo sul bus e mentre attendo la partenza noto un ragazzo della Fanteria con la gamba amputata che cerca di salire. Scendo, lo aiuto e lo faccio sedere accanto a me, credo abbia la mia stessa età, mi dice che è stato senza dormire per circa una settimana. Sale anche l’autista del mezzo e partiamo per Massaua. Il ragazzo mi racconta che è stato colpito da un proiettile ad espansione “dum dum”, che gli ha spappolato la gamba. Il viaggio dura poco più di un’ora, quando arriviamo alla stazione c’è un mezzo militare che ci attende per accompagnarci al porto, prima di salire viene fatto l’appello da un giovane sottotenente. Giunti al porto saliamo su un motoscafo che ci porta direttamente a bordo della nave ospedale ancorata in prossimità del frangiflutti, quando siamo vicini leggo sulla fiancata il nome della nave, “California”. In un primo momento mi viene da pensare che sia una nave americana ma appena salgo a bordo constato che l’equipaggio è tutto italiano. Mi assegnano una cabina insieme a tre altri militari dell’Aeronautica che non conosco, tutti i locali della nave sono curati e in ordine, ci viene servita una cena da ristorante di prima qualità. Rimaniamo sulla nave ancorata al largo ancora per poco, il mattino successivo veniamo trasferiti su un’altra nave che porta il nome “Aquileia”, poco distante dalla California. Saliamo a bordo intorno a mezzogiorno, ci viene servito subito il pranzo, mi ritiro nella mia cabina a leggere un libro americano che sono riuscito a trovare e vado a vedere un film proiettato nella sala cinematografica della nave. Pur essendo una nave ospedale, non mi sembra ci siano in giro militari feriti o ammalati, siamo in tutto una cinquantina. Vado a dormire e il mattino, verso le cinque, vengo svegliato da alcune vibrazioni. Mi vesto velocemente e salgo in coperta, la nave si sta muovendo e si dirige al largo, si torna in Italia. Le condizioni atmosferiche sono buone, sul Mar Rosso fa caldo, quando arriviamo a Suez abbiamo una sosta di un paio di ore, salgono a bordo alcuni italiani che vivono in Egitto e ci offrono dei dolci. Sale a bordo anche il “Pilota del Canale” (nella versione originale e’ stato aggiunto “sic!”; eliminare). Iniziamo l’attraversamento che dura circa dodici ore, fa caldo in quanto la nave avanza lentamente e non c’è brezza. Una volta raggiunto il Mediterraneo la nave aumenta la velocità e arriviamo al porto di Napoli dopo quattro giorni di navigazione.

L’arrivo a Napoli – 28 febbraio 1936
Sulla banchina ci sono diverse ambulanze, e appena sbarcati ci prelevano per trasferirci all’Ospedale Militare dell’Aeronautica a Caserta e dopo alcuni giorni all’Ospedale Militare di Napoli, dove mi sottopongono a un accurato esame a raggi X dello stomaco ed ad alcune analisi cliniche. Mi viene diagnosticata un’ulcera gastrica. Mentre sono a Napoli apprendo dai giornali che il 1° marzo il Duca d’Aosta è stato promosso Generale di Divisione e ha assunto il comando della Divisione Aerea “Aquila” con sede a Gorizia e comprendente la I Brigata Aerea con l’8° e 14° Stormo, la III Brigata Aerea con 1° e 4° Stormo e per un breve periodo con il 6° Stormo. Contemporaneamente il col. Giuseppe Retinò subentra al col. Augusto Bonola nel Comando del 4° Stormo mentre quest’ultimo, promosso generale, assume il Comando della III Brigata Aerea, prima detenuto dal Duca d’Aosta. Il 3 marzo ha luogo una cerimonia in onore del Duca, del gen. Bonola e del col. Retinò. Ecco il racconto dell’evento fattomi successivamente da un collega che vi ha partecipato: “Alla cerimonia sono presenti diversi Ufficiali Superiori del Ministero dell’Aeronautica di Roma e della 2ª Zona Aerea Territoriale di Padova e alti membri del Partito Fascista. Alla parata aerea partecipa il 1°, 4° e 6° Stormo Caccia, il 21° Stormo della Ricognizione Aerea, il 50° Stormo da Bombardamento e alcuni idrovolanti provenienti da Pola, Portorose e Venezia. Si esibiscono anche le Pattuglie Acrobatiche dei tre Stormi da Caccia. Le squadriglie del 1° Stormo e del 6° Stormo non atterrano a Gorizia ma si congiungono in volo con quella del 4° Stormo e insieme sfilano sul campo in una formazione di 27 velivoli. Alcuni giorni prima cominciano a giungere bombardieri e ricognitori, l’aeroporto è stracolmo di aerei, non ne ho visti mai così tanti insieme, gli equipaggi sono sistemati ovunque ci sia uno spazio libero. Ognuno di noi deve ospitare un pilota nelle proprie camerette, alla mensa bisogna organizzare i turni e le cucine lavorano a ritmo continuo. Il giorno prima della cerimonia ci alziamo molto presto, dobbiamo partecipare alla esercitazione della sfilata aerea con gli altri Stormi. Saliamo a bordo, ogni squadriglia decolla separatamente, una volta in volo riduciamo la velocità e descriviamo ampi cerchi intorno a Palmanova, una cittadina fortificata da antiche mura a forma di stella, per permettere a tutte le squadriglie degli altri stormi di congiungersi. Quando la formazione è completa, i leader degli stormi lasciano Palmanova e dirigono su Gorizia, dietro a noi sono le pattuglie del 1° e 6° Stormo seguite da bombardieri, ricognitori e idrovolanti. È uno spettacolo indimenticabile, centinaia di aerei di tutti i tipi che, con il rumore dei motori che si spande in tutta la pianura friulana, fanno alzare al cielo gli occhi di migliaia di persone. Sorvolato l’aeroporto in formazione, continuiamo a circuitare e a piccoli gruppi ci stacchiamo e andiamo all’atterraggio, tenendo gli occhi bene aperti. Il rischio più grosso sono le collisioni in volo. Nel pomeriggio c’è il briefing per l’indomani, al Circolo non si può entrare, tanto è affollato dal personale degli altri stormi ospiti. Il giorno dopo la giornata è splendida, il cielo è perfettamente limpido, alle dieci siamo tutti allineati davanti ai nostri velivoli. Il Duca insieme al col. Bonola esce dalla palazzina Comando, su una macchina scoperta si dirige sul lato nord dell’aeroporto dove sono parcheggiati i bombardieri e i ricognitori, passa in rassegna gli equipaggi e infine si porta a sud, presso gli hangar del 4° Stormo. Il Duca ci passa in rassegna e saluta militarmente con accanto il col. Bonola, sale con le autorità su un palco montato davanti all’hangar centrale del 4° Stormo, e pronuncia un discorso al termine del quale corriamo negli hangar e indossiamo le tute di volo, ogni squadriglia deve ripetere quanto provato ieri. L’aria è calma, non c’è la minima turbolenza e le formazioni sono ancora più strette di ieri. I tre Stormi da soli comprendono 162 velivoli, non riesco nemmeno a contare il numero degli altri aerei in volo. Sulle strade che sorvoliamo la gente e le automobili si fermano per guardarci. Dopo aver sfilato sull’aeroporto effettuiamo un largo giro e ci portiamo all’atterraggio, gli altri stormi di bombardieri e ricognitori rientrano alle loro basi, salvo i velivoli dei comandanti di stormo che atterrano sul campo. Quando sono tutti a terra arrivano gli aerei della Squadriglia Acrobatica che erano stati rischierati sull’aeroporto di Ronchi dei Legionari. Si esibiscono per una ventina di minuti con una formazione di 27 velivoli, terminata l’esibizione atterrano e vengono passati in rassegna dal Duca. Alla sera c’è una cena alla nostra mensa in onore del Duca che ha scelto di farci visita, accompagnato da altri cinque alti Ufficiali. Al termine del pranzo rivolge un saluto ai presenti e infine il più anziano dei Sottufficiali si alza invitando tutti a brindare in onore al Duca e alla Regia Aeronautica. Dopo la cena tutto il personale di volo è lasciato libero dal servizio e può rientrare alla Base dopo il finesettimana”.

Nostalgia per il 4°Stormo
Vengo dimesso dall’ospedale l’11 marzo e il giorno stesso debbo presentarmi all’Istituto Medico Legale di Napoli per la visita medica psico-attitudinale straordinaria prevista per il personale di volo dopo una malattia o infortunio. Trascorro tutta la mattinata presso l’Istituto e sono sottoposto ai previsti esami clinici e infine risulto idoneo, mi viene consegnata la cartella con l’esito della visita che debbo portare all’Ufficio del Personale del Ministero dell’Aeronautica a Roma. Ritiro i documenti e prima di partire per Roma mi fermo un paio di giorni a Napoli: vado a visitare la città e mi concedo una cena a base di pesce e crostacei da “Zi’ Teresa”, il ristorante dov’ero stato con il cap. Leotta e Bergamini prima di partire per l’Africa. Quando arrivo a Roma, al Ministero dell’Aeronautica, vengo introdotto nell’ufficio del Maggiore che si occupa dell’assegnazione ai Reparti operativi. “Dove vorresti andare?”, mi chiede. “Signore”, rispondo, “Gradirei tornare al mio Stormo… il 4° Stormo di Gorizia”. Sfoglia alcune carte, mi invita ad accomodarmi fuori dall’ufficio e ad attendere. In meno di un’ora mi richiama, mi restituisce la documentazione e mi saluta: “In bocca al lupo e abbi cura di te stesso”. Mi fermo un giorno anche a Roma per sistemare altre pratiche: ho nostalgia per il mio Stormo, per la mia vecchia Squadriglia e desidero partire appena possibile per Gorizia.

A Gorizia
Prendo il treno espresso e arrivo a Gorizia il 17 marzo, poco dopo mezzogiorno. È domenica, e così decido di rimanere in città fino all’indomani. Lunedì mattina prendo il primo bus che fa servizio tra la città e l’aeroporto, incontro diversi colleghi che conosco, sono quelli sposati che hanno trascorso la domenica in famiglia e riprendono servizio. Hanno saputo della perdita di Vaschi e Allavena e mi chiedono particolari sulla missione, un paio di loro erano amici intimi dei due e sono molto scossi da quanto racconto. In aeroporto mi presento direttamente all’Ufficio Comando dal col. Moore che mi accoglie calorosamente: “Sono lieto di rivederti. Bentornato al 4° Stormo”, e aggiunge “Attendi un attimo”. Bussa all’ufficio di S.A.R. il Duca d’Aosta, entra e qualche secondo dopo mi fa cenno di entrare: “Sua Altezza ti vuol vedere, vieni”. Seguo il Colonnello, il Duca sta parlando con un ufficiale, il suo Aiutante di Campo s.ten. Larker, quando mi vede mi saluta in perfetto inglese: “Entra ed accomodati”. Mi chiede come sto, vuol sapere dell’incidente di Vaschi e Allavena, di come vanno le cose in Africa Orientale, delle mie impressioni. Spiego la fine fatta dai miei due compagni e racconto di aver visto gli italiani costruire strade attraverso le montagne, scavare pozzi, demolire le capanne per innalzare case, costruire asili. Aggiungo che avrei desiderato rimanere in Africa ma che le mie condizioni di salute non me l’hanno permesso e lui mi risponde “Don’t worry, you did your part!”. Poco dopo entra nell’ufficio il col. Bonola che prima saluta Sua Altezza e poi si rivolge a me: “Sono lieto di rivederti di ritorno a Gorizia ancora tutto d’un pezzo”, e mi porge la mano. Il Duca gli chiede a quale Squadriglia sono assegnato e il Colonnello risponde “Altezza, l’ho assegnato alla sua vecchia Squadriglia, la 90ª, a meno che lei non desideri diversamente”. Il Duca mi chiede “Ti fa piacere tornare alla tua Squadriglia?”, e alla mia risposta affermativa mi dice di presentarmi al comandante della 90ª e mi congeda. Il nuovo comandante della 90ª è il cap. Cozzi che non ha nulla a che fare con il s.ten. Cozzi del 21° Stormo e quando mi presento al Comando di Squadriglia incontro il cap. Dequal, ha ricevuto la nomina al grado di capitano da pochi giorni, il 12 di marzo, è nello stesso ufficio nel quale era al momento della mia partenza. È sorpreso di rivedermi, si congratula per il mio ritorno e mi presenta al cap. Cozzi spiegandogli brevemente chi sono. Il Capitano dice che ha appena ricevuto una telefonata dal Duca e dal Comandante di Stormo che annunciava il mio arrivo, mi stringe la mano e mi fa accomodare con un “Bentornato alla nostra Squadriglia”. Anche lui mi chiede dettagli sulla missione in Etiopia e alla domanda se esista un’aviazione etiope, rispondo “Non ho incontrato alcun aereo nemico ed effettivamente non so se possiedono una Forza Aerea”. Lasciamo l’ufficio e mi accompagna nel vicino hangar, sulla linea di volo mi presenta ai piloti e al personale tecnico della Squadriglia. Gran parte dei piloti sono gli stessi che ho lasciato nell’agosto dello scorso anno, solo un paio di giovani sergenti e un sottotenente sono nuovi arrivati. Trascorro il resto della giornata sulla linea di volo a osservare l’attività della Squadriglia, mi siedo al posto di pilotaggio di un CR32 per familiarizzarmi con la strumentazione. A mezzogiorno ordino da bere per tutti, desidero festeggiare con gli amici il mio ritorno a Gorizia.

L’incidente di Pietro Guerritore
Il pomeriggio, intorno alle 16, lascio l’hangar Lancini, quello ad Ovest che ospita la 90^ Sq. e la 91^ e mi avvio verso la palazzina Sottufficiali. Passo accanto agli altri due hangar, il centrale e’ della 84^ e 97^ e l’ultimo della 96^ e 97^. Sono molti i vecchi amici che mi fermano per salutarmi e complimentarsi per il mio ritorno a Gorizia. Quando arrivo in fondo, prendo il vialetto sulla sinistra che corre parallelo alla strada statale e che porta verso il lato Nord dell’aeroporto. Sono circa 600 metri da percorrere, c’e’ un via vai di biciclette ed anche qui incontro alcuni compagni che mi salutano. Passo davanti alla palazzina Comando e quando sono all’altezza del Corpo di Guardia mi sento chiamare “Eih Americano!”. Mi volto e riconosco il cap. Alberto Beneforti, l’ho conosciuto al 21° Stormo da Ricognizione, allora era Tenente. “Da dove diavolo salti fuori Patriarca? Ti sapevo in Africa Orientale”. Anche a lui racconto tutte le peripazie per tornare al 4° Stormo e poi gli chiedo come vanno le cose al mio vecchio Stormo. Si fa improvvisamente serio “Pochi giorni fa abbiamo avuto un grave incidente”, “Si tratta di qualcuno che conoscevo?” chiedo “No, in gennaio e’ arrivato dalla Scuola Bombardieri di Malpensa e assegnato alla 116^ Sq. il s.ten. Pietro Guerritore. Aveva completato il periodo di addestramento sul Ro 5 e da poco era abilitato sul Ro 1 quando, tre giorni fa, il 14 marzo mattina, e’ andato in volo per una missione di ambientamento e nel posto dell’osservatore aveva l’aviere Tranquilli, forse lui l’hai conosciuto poiche’ era un motorista anziano. Il Tenente e’ decollato verso la ferrovia poi chi era sulla linea di volo l’ha visto  invertire rotta, tornare indietro e sorvolare veloce l’aeroporto. All’altezza della palazzina Comando ha cabrato ed inclinato a sinistra. Non si sa se ha avuto dei problemi o, causa l’inesperienza, ha commesso un errore di manovra. Fatto sta che l’hanno visto perdere rapidamente quota e infilarsi a terra dopo la strada statale in direzione di Vertoiba, poco distante dal cimitero” “Sono morti tutti e due?” chiedo “No, mentre l’aviere Tranquilli e’ deceduto nell’impatto, il Guerritore invece, seppure seriamente ferito e con diverse fratture, sembrava in un primo momento che ce la potesse fare. E’ stato ricoverato all’ospedale militare di via Ristori ma durante la notte cessava di vivere a causa di una probabile embolia gassosa dovuta alle numerose fratture riportate. Il Guerritore proveniva da una nobile famiglia ed il padre era un pluri decorato della Grande Guerra. Ieri ai funerali hanno partecipato le massime autorita’, il gen. Pricolo, il t.col. Domenico Locatelli, com.te del 21° Stormo, il magg. Giuseppe Sandri, com.te del 63° Gruppo, il cap. Ciancarelli, com.te della 116^ Sq. C’erano pure tutti i piloti del 4° Stormo.” Rimango ancora qualche minuto ad ascoltare il Capitano che mi aggiorna sui cambiamenti al 21° Stormo e poi io gli racconto della mia esperienza africana.

Il decollo sul CR32
Il 25 marzo 1936 finalmente inizio con la ripresa voli sul CR Asso, un paio di atterraggi al mattino e un po’ di acrobazia nel pomeriggio, ancora qualche volo il 26 e 27 e poi dal 30 marzo effettuo una serie di doppi comandi sul CR30 con l’istruttore serg. Ugo Corsi per prepararmi al passaggio sul CR32. Il 3 aprile decollo da solo sul CR30 e così fino al 6 aprile quando finalmente al pomeriggio il cap. Cozzi, sentito il parere di Corsi, mi dice che è giunto il momento di decollare da solo sul CR32. Mi porto al punto attesa per il decollo e quando l’addetto alla Linea di volo agita la bandiera verde aumento progressivamente la potenza, il velivolo comincia a sussultare e dopo qualche centinaio di metri sono in volo. Si dimostra un aereo meraviglioso fin dal primo momento e decisamente più brillante del CR30. Effettuo un circuito e tocco a metà campo, senza applicare i freni termino la corsa d’atterraggio sul lato opposto dell’aeroporto. Il Capitano, che mi segue accanto all’addetto alla linea di volo, si avvicina e mi dice di fare ancora qualche giro e di arrivare più corto per evitare di dover usare i freni e scaldarli, anche se effettivamente nel precedente atterraggio non ho avuto la necessità di usarli. Decollo nuovamente e questa volta sono più preciso con la velocità, mantengo 120 km/h e quando sono a duecento metri dal campo porto la manetta al minimo, continuo planando e tocco dolcemente nel punto consigliato dal Capitano. Quando sono in prossimità del sergente addetto alla linea questi mi agita la bandiera rossa. Ci sono infatti altri aerei che stanno atterrando e quando mi autorizza con la bandiera verde effettuo altri due circuiti. Ritorno in hangar, il cap. Cozzi e il serg. Corsi si congratulano e mi chiedono le mie impressioni. “Eccellente”, rispondo, “non credo possa esistere un aereo superiore”. Il Capitano aggiunge che ora volerò da solo finché avrò preso la mano e poi inizierò l’addestramento al volo in formazione. Più volo con il CR32 più apprezzo le sue qualità, mi sembra di essere tutt’uno con l’aereo e sento le ali come un prolungamento del mio corpo. Continuo a volare e più passa il tempo maggiori sono la sicurezza e la conoscenza che acquisisco con questo meraviglioso velivolo. Volo da solo, in coppia, in formazione, acrobazia e mi esercito con i tiri “in bianco” e “reali”. Un giorno, prima di recarci al poligono di tiro sul Carso tra l’aeroporto e Monfalcone, un collega di Squadriglia, il serg.m. Poltronieri, propone di scommettere su chi di noi due colpirà tre palloncini con un minor numero di colpi. Chiediamo all’armiere di caricarci solo 50 colpi per arma e decolliamo con una formazione di cinque velivoli. Sul poligono entrambi colpiamo i tre palloncini e una volta a terra resta solo da contare i colpi rimasti. Anche il Capitano assiste divertito alla conta, il collega ha sparato 22 colpi e io 18, e così quel giorno brindiamo con lo spumante da lui offerto. L’addestramento al combattimento tra velivoli (finta caccia) prosegue di pari passo e anche in questa specialità me la cavo discretamente bene. Qualche collega si lamenta che mi accanisco troppo e rischio una collisione. Effettivamente già due piloti di un altra Squadriglia, il ten. Malusa e il serg. Marchetti, sono caduti nei pressi di Cervignano proprio a causa di una collisione in volo durante una finta caccia troppo accanita. Non mancano anche incidenti in altre fasi del volo. Uno dei nostri piloti ha una piantata di motore in decollo e nell’atterraggio d’emergenza fuori campo va a sbattere contro il collimatore a tubo posto davanti al viso del pilota, i vetri degli occhiali gli entrano nell’occhio e viene esonerato dal volo per invalidità. Ogni Squadriglia si esercita all’acrobazia in formazione e la migliore viene prescelta per rappresentare lo Stormo in Italia ed all’estero. La nostra, nonostante abbia dimostrato una buona preparazione, purtroppo rimane esclusa. È una continua gara con il 1° Stormo di Campoformido per contendersi il primo posto come migliore Pattuglia Acrobatica. In luglio si svolgono a Berlino le Olimpiadi e il 4° Stormo partecipa con il cap. Ercolani, il cap. Viola, il serg. Corsi e tre piloti provenienti da un altro stormo, tutti al comando del t.col. Canaveri. Viene utilizzato il Breda Br28, velivolo adattato per il volo rovescio senza limiti di tempo. La Pattuglia Acrobatica del 4° Stormo diventa la Pattuglia ufficiale e si esibisce in Italia e all’estero con il CR32 che dà grande prova di manovrabilità tanto da conseguire numerose ordinazioni di altri Paesi. Il 16 giugno partecipo alle manovre che prevedono l’intercettazione di bombardieri S81 che simulano un attacco a Pola e Trieste, ai voli di navigazione in formazione con la Squadriglia, e di scorta ai bombardieri che rileviamo sulle loro basi ed accompagniamo lungo la costa adriatica fino a destinazione. Continua l’addestramento acrobatico in formazione di sette o nove velivoli, i migliori leader della nostra Squadriglia sono il cap. Dequal, il cap. Cozzi ed il m.llo Nicola.

In libera uscita a Trieste
Chiedo un permesso di tre giorni per recarmi a Trieste e il Comandante di Squadriglia vuol sapere cosa vado a fare. Rispondo sorridendo “Il tempo è bello e conosco qualche ragazza a Trieste!”. Ottengo il permesso e insieme a due specialisti prendo la corriera per Trieste e ci rechiamo in una sala da ballo dove trascorriamo qualche ora. Fa molto caldo e propongo di andare da qualche altra parte. Uno dei ragazzi propone di fare una passeggiata in centro e incontro Ada, la ragazza che ho conosciuto tempo prima. Tutti insieme saliamo al castello di San Giusto e dalla collina ammiriamo la città. Trascorriamo una piacevole serata e verso le 23 gli amici dicono che debbono rientrare a Gorizia per prendere servizio domani mattina. Con un taxi accompagno loro alla stazione ferroviaria e Ada a casa, io invece mi trovo un albergo per pernottare a Trieste. Trascorro i due giorni successivi girovagando per la città, passeggio sul lungomare di Barcola, vado al ristorante, al cinema e in una sala da ballo, a vedere le altre coppie ballare.

Al consolato americano
Domenica pomeriggio rientro a Gorizia per riprendere l’addestramento. Il nuovo Comandante di Stormo è sotto la media e non particolarmente brillante, ha dato disposizioni che non vengano rilasciati più di tre permessi al mese, avevo in mente di richiederne uno alla settimana di 24 ore, una cosa ragionevole, e ora tutto questo scombussola completamente i miei piani. Due colleghi chiedono di essere trasferiti al 2° Stormo che è dislocato a Brescia e anch’io mi associo inoltrando la domanda. Quando il Colonnello lo viene a sapere ci convoca al Comando, va su tutte le furie e ci dà una solenne lavata di capo. Uno dei colleghi fa seguire la domanda di congedo. Comincio a meditare di tornare negli Stati Uniti, ho ancora il passaporto americano e tutto quello che debbo fare è recarmi al Consolato degli U.S.A. a Trieste per il rinnovo. Chiedo e ottengo una licenza di cinque giorni motivando la domanda con il fatto che non ho preso un giorno di licenza dal mio rientro dall’Africa e che pertanto mi spetta. Metto gli abiti civili in una valigetta e vado a Trieste. In albergo mi tolgo la divisa, mi reco al Consolato e chiedo il rinnovo del passaporto. Vogliono sapere cosa faccio in Italia, rispondo che sto visitando il Paese e che sono ospite di alcuni parenti, non menziono che sono un militare in servizio nell’Aeronautica Militare come sottufficiale. Con il passaporto rinnovato torno in albergo e indosso nuovamente la divisa. Con i soldi che ho in banca sono in grado di tornarmene nella mia cara vecchia America. Il 26 maggio è una gradevole giornata, passeggio in Piazza Unità, mi siedo a un caffè e ordino un’aranciata, raccolgo un giornale appoggiato al tavolo vicino e lo leggo: c’è un lungo articolo che descrive i grossi problemi politici che agitano la Spagna, la situazione sembra evolvere verso una guerra civile. C’è anche un articolo che parla della situazione economica negli Stati Uniti. È quasi mezzogiorno e provo un po’ d’appetito, non ho fatto colazione questa mattina, pago il conto e vado verso il centro. Lungo la strada incontro Ada che sta uscendo dal lavoro, è sorpresa nel vedermi e mi chiede come mai sono lì, visto che è un giorno feriale. Rispondo che ho preso qualche giorno di licenza e che sto cercando un posto dove mangiare. “Sono solo”, aggiungo, “vuoi farmi compagnia e pranzare con me?”. Accetta volentieri. Pranziamo piacevolmente, Ada si trova a suo agio con me e io con lei, è molto graziosa e timida.

A Miramare
Facciamo quattro passi e ci fermiamo a prendere un caffè. Le propongo di fare una nuotata a Miramare, l’idea le piace e risponde che potremmo procurarci i costumi da bagno sul lungomare, li affittano puliti e lavati. Alle tre del pomeriggio siamo a Miramare, affittiamo un paio di calzoncini per me e un grazioso costume nero per Ada. Si allontana per cambiarsi e quando esce dallo spogliatoio mi sembra un sogno tanto è bella. Mi infilo i pantaloncini, raggiungiamo la spiaggia accanto al castello di Miramare e ci immergiamo in mare per una breve nuotata. Ada nuota molto bene, ne sono sorpreso. Non sono mai stato un gran nuotatore, me la cavo soltanto, vicino a lei non faccio una gran bella figura. Ci stendiamo sulla spiaggia per prendere il sole e asciugarci, due ragazzini giocano a pallone e ci uniamo a loro ma lei si stanca presto. Ci sediamo e parliamo: Ada sa che vengo dagli Stati Uniti, vuole che le racconti del mio Paese, delle sue abitudini e della mia infanzia. Le dico che sono venuto a Trieste per rinnovare il passaporto nel caso decidessi di tornare negli Stati Uniti, mi guarda come volesse venire in America pure lei. Sono io ora che voglio sapere di più su di lei e le chiedo di raccontarmi della sua vita, ma non lo fa volentieri. Mi dice che non ha nessuno, ha perso sua madre quand’era ragazzina, non dice altro e cambia argomento. Rimaniamo sulla spiaggia quasi fino al tramonto, poi decidiamo di andarcene e, prima di vestirci, ci facciamo una doccia. Ada entra nella cabina per prima e quando esce si aggiusta i capelli, le tolgo di mano il pettine e la pettino. Mi lascia fare e le fa piacere, ha i capelli lunghi, lucenti e neri come il carbone che le ricadono sciolti sulle spalle. Prendo le punte dei suoi capelli e li metto sotto il mio naso a mo’ di baffi, ride e me li strappa via dicendomi di vestirmi. Ci incamminiamo verso la fermata del bus che ci riporta in città, passeggiamo lungo il molo, dove soffia una leggera brezza.

La serata con Ada
Entriamo in una trattoria per mangiare qualcosa e, quando stiamo per finire, entra un collega di Gorizia con una ragazza: lo invito a sedersi con noi e facciamo le presentazioni. Mi chiede quali progetti ho in mente per la sera, rispondo che debbo ancora decidere ma potremmo andare al “Drehers Beer Garden” e lui risponde che anche loro avevano la stessa intenzione: “Ci vediamo alla birreria Drehers!”, aggiunge, e ci salutiamo. Appena usciti dal ristorante, Ada mi da un pizzico al braccio: “Non voglio stare in compagnia di nessuno”, mi sussurra, “Voglio stare sola con te!”. Propone di andare fino a Barcola, non vuole prendere il filobus, preferisce camminare e passeggiare sul sentiero vicino al mare e prendere un gelato in uno dei chioschi vicini alla strada. Quando è stanca cerchiamo una panchina e ci sediamo. È umido vicino al mare e Ada mi prende il braccio e lo posa sulle spalle per riscaldarsi. Il tempo passa piacevolmente e si fa tardi, ci incamminiamo verso la fermata del filobus. Le chiedo di accompagnarla a casa, risponde che non c’è bisogno, il filobus ferma proprio di fronte a casa sua. “Ci possiamo vedere domani?”, aggiungo, e lei “Ci possiamo vedere per tutti i giorni della tua licenza”. Quando giunge il filobus mi dà un bacio alzandosi sulle punta dei piedi e mi dice di lasciarla andare a casa, rispondo che la lascio andare solamente in cambio di un altro bacio, si gira e mi bacia sulla guancia. Quando è sul filobus si avvicina al finestrino e si affaccia, e io le dico “Domani, alle 10.30 di fronte all’Excelsior!”. Continuo a piedi fino alla stazione ferroviaria e lungo il molo fino all’albergo dove ho la mia camera, rimango sdraiato sul letto pensando ad Ada. È molto bella e mi piace molto, ci sono però dei momenti in cui è misteriosa, non riesco a capirla, talvolta è molto felice e altre sembra assente. Gran parte degli altri quattro giorni, li trascorriamo piacevolmente e serenamente in compagnia l’uno dell’altro, raccontandoci tanti piccoli segreti e approfondendo il nostro legame. Viene il mio ultimo giorno di licenza, aspetto Ada all’ Excelsior e andiamo al mare. È una giornata calda, con un sole scottante, Ada si diverte a prendermi in giro perché non ho la sua resistenza in acqua e la sua padronanza con il nuoto, è bello osservarla nuotare, è molto brava.

Al “Castello di San Giusto”
A mezzogiorno facciamo uno spuntino, vorrei comperare tante cose ma lei mi dice di non spendere inutilmente. Giochiamo al pallone insieme a un paio di coetanei e la giornata trascorre velocemente. Verso le sei del pomeriggio ritorniamo in centro e ci sediamo in un caffè in Piazza Unità ad ascoltare un’orchestra. Alle nove propongo ad Ada di andare al Castello di San Giusto a mangiare, lì avremmo potuto anche ballare, è un locale che mi piace per lo stile rustico e per la fama di avere un’ottima cucina. Ada si preoccupa perché il locale è di lusso e non vuole che spenda tanto. La richiamo scherzando: “Comando io e pertanto si va al Castello di San Giusto’”. Prendiamo un taxi e in quindici minuti raggiungiamo il ristorante: ci fanno accomodare a un tavolo al centro del salone, l’orchestra sta suonando e qualche ospite balla tra i tavoli, non c’è una pista da ballo. È un ambiente piacevole perché quasi familiare, Ada si trova a suo agio, ride e si guarda intorno. Balliamo anche noi tra i tavoli e lei si stringe teneramente a me. Quando siamo seduti la osservo attentamente, lei nota il mio sguardo, mi mostra la lingua, si tocca il naso con l’indice e mi manda un bacio con un soffio, faccio finta di afferrarlo e ingoiarlo. Sorride divertita: “Stai attento che non ti ingrassi”, sussurra.

All’hotel Excelsior
All’una di notte l’orchestra suona l’inno nazionale, è il segnale che il locale chiude. Prendiamo un taxi e dico all’autista di portarci in città, poi chiedo ad Ada dove abita per accompagnarla a casa. “Voglio venire con te in albergo”, mi risponde. La sua risposta mi coglie di sorpresa e le chiedo cosa possono pensare le persone con le quali vive: ribatte che ha solo un’amica con la quale vive in una pensione e che non c’è alcun problema. Dico all’autista di portarci in albergo, quando arriviamo pago la corsa, entriamo nell’albergo, prego Ada di attendere e chiedo al portiere se posso portare un ospite in camera. “Purché sia maggiorenne, ventun anni compiuti, e abbia i documenti. Queste sono le disposizioni di legge”, mi risponde. Ada consegna il suo documento, il portiere lo esamina e le fa firmare il registro. Ritiro la chiave e saliamo nella mia stanza: Ada si toglie le scarpe, è molto stanca e si siede su una grande poltrona, di fronte al letto. Spengo la luce centrale e accendo le due lampade dei comodini, mi tolgo la giacca e l’appoggio sullo schienale di una sedia. Ada si alza, va in bagno e sento lo scroscio dell’acqua mentre è sotto la doccia, torna nella camera avvolta nell’asciugamano da bagno. Finisco la sigaretta che sto fumando e poi a mia volta faccio una doccia. Quando esco dal bagno Ada è a letto coperta solo dal lenzuolo, è molto graziosa con i suoi capelli neri sciolti sul cuscino, sembra un quadro. Giro la lampada del comodino in modo che proietti la luce sul letto, Ada si gira dall’altra parte e rimaniamo in silenzio, penso che voglia dormire. Il suo viso è sprofondato nel cuscino, l’accarezzo e lei si gira, mi abbraccia e i suoi occhi si riempiono di lacrime. Le chiedo perché piange ma non risponde, avvicina la mano alle mie labbra e mi fa capire che non vuole le faccia domande, poi sussurra che non aveva amato nessuno fino ad oggi, mi chiede perché sono entrato nella sua vita. Mi preoccupo di averla in qualche modo ferita e lei mi rassicura, dice di essere felice di starmi vicina. Non avevo mai incontrato una ragazza adorabile come lei e penso che sarebbe bello vivere insieme per una vita. Le asciugo le lacrime e la bacio sugli occhi, mi tiene stretto e mi chiede di spegnere la lampada sul comodino. Una luce filtra debolmente dal lampione della strada attraverso le imposte e illumina la stanza di pallido bagliore. L’abbraccio e lei si stringe teneramente a me, sento il calore del suo corpo e il mio sangue scorrere nelle vene. Ada deve provare le mie stesse sensazioni, respira affannosamente, spinge indietro il mio capo e ci baciamo. Ci desideriamo vicendevolmente ed è meraviglioso, Ada si stringe ancor più a me e piange, dice che non è mai stata così felice e che ha paura di perdermi. La supplico di calmarsi e le asciugo le lacrime e la bacio, si acquieta e si addormenta tra le mie braccia. Tento di allontanarmi, ma si risveglia e non mi lascia, infine mi addormento anch’io. Quando mi sveglio sono le dieci del mattino, Ada è ancora tra le mie braccia con il volto vicino al mio, la bacio teneramente sulle labbra, si stringe a me cercandomi. Proviamo il desiderio l’uno dell’altra, ci abbracciamo. Stiamo insieme per po’, poi chiamo il servizio in camera dell’albergo per avere due caffè che arrivano poco dopo. Ci sediamo sul letto, Ada mi guarda per alcuni secondi in silenzio, dice di amarmi più di qualsiasi cosa al mondo e mi assicura che non avrebbe mai pensato di unirsi a un uomo senza amarlo realmente. Le rispondo che mi ero innamorato di lei fin dal primo momento e che non speravo di essere corrisposto. La mia licenza sta per scadere, entro mezzanotte debbo rientrare a Gorizia, avrei voluto che questo momento non giungesse mai, lasciamo l’albergo e deposito la valigia alla stazione dei bus.

Al ristorante “Fortuna”
Dico ad Ada che forse è il caso di andare a mangiare un boccone, ho una fame da lupo. Mi sorride, dice che vuole farmi conoscere un ristorante dove si mangia bene e non si spende molto. Andiamo verso il centro, in via Carducci, al n. 12 c’è il locale, il ristorante “Alla Fortuna” [“Da Dante” dopo il 1945, n.d.T.]. Entriamo e il proprietario saluta Ada e le chiede come sta. Ada si porta un dito sulle labbra cercando di non farsi vedere da me, poi si apparta qualche minuto per parlare con lui. Ritornano insieme e Ada me lo presenta: è suo zio (Harry). Ci serve un ottimo pranzo e mette sul tavolo una buona bottiglia di vino, voglio pagare il conto ma lui rifiuta il denaro, dice che “paga la casa” e che “ha un debole per i piloti”. Lo ringrazio e prima di accomiatarci scambia alcune parole in dialetto con Ada che non afferro, ma sembra preoccupato per lei.

In piazza Unita’
Andiamo a piedi fino a Piazza Unità, ci sediamo allo stesso caffè dell’altro giorno e ordiniamo da bere. Sulla piazza i bambini giocano e rincorrono i colombi costringendoli a volare. Un bambino si avvicina al nostro tavolo e chiede di assaggiare l’aranciata che Ada non aveva ancora toccato e lei gliela porge. La mamma viene a scusarsi e rimprovera il bambino. Propongo ad Ada di andare al cinema: al Teatro Excelsior proiettano “Broadway Follies” con Eleanor Powell, ci alziamo e ci incamminiamo. Il film le piace e io posso rivedere la mia New York. Usciamo dal cinema verso le 18 e passeggiamo lungo la via principale di Trieste a guardare le vetrine, lei vuol vedere tutto e mi indica le cose che le piacciono. Le chiedo se ha fame e mi risponde di no, neanch’io ho voglia di mangiare e così entriamo in un caffè e prendiamo una tazza di tè. È giunto il momento di avviarci verso la stazione dei bus e ci incamminiamo. Ada si stringe al mio braccio, le prometto che sarò di ritorno sabato poco dopo le 14, al bar dell’Excelsior. Mancano venti minuti alla partenza del bus, ci sediamo al caffè della stazione e mentre discorriamo passano due colleghi, li saluto alzando la mano ma non li invito a sedersi, so che Ada vuol trascorrere da sola con me gli ultimi minuti prima della partenza del bus. L’autista suona il clacson per avvisare i passeggeri che si parte, Ada si stringe a me, ha le lacrime agli occhi, mi accompagna fino al bus, le do un bacio ripetendole che ci rivedremo presto, rimane immobile in piedi seguendomi con lo sguardo finché il bus esce dalla stazione. Uno dei due colleghi mi ha tenuto occupato un posto, mi siedo accanto a lui, il suo nome è Bruno Sartori, è un sergente pilota del 4° Stormo. Dopo un po’ che il bus è in viaggio mi dà una gomitata: “Dove hai conosciuto quella ragazza? È molto carina!”, mi chiede. “L’ho conosciuta prima di partire per l’Africa”, rispondo, “temevo che al mio ritorno si fosse dimenticata di me, invece…”. E lui scherzando: “Ho un debole per le ragazze carine, la prossima volta me la devi presentare!”. Prego Bruno di non fare parola di Ada con i colleghi, farebbero gli spiritosi e mi prenderebbero in giro. Arriviamo in aeroporto poco dopo le 23, salgo al secondo piano della palazzina alloggi Sottufficiali, vado nella mia cameretta e, con la stanchezza che addosso, mi addormento subito.

Un volo “prova”
Il mattino seguente sono alla mia Squadriglia, il cap. Cozzi sta discorrendo con due colleghi e quando mi vede mi chiede com’è andata nei cinque giorni di licenza. Rispondo: “Trieste è molto bella, ho visitato la città e sono stato anche al mare… se fosse possibile chiederei un permesso per ritornarci questo finesettimana”. Mi promette che se ne occuperà più tardi e che me lo farà sapere. Aggiunge “Ora prendi il numero 8, è stato sottoposto al ciclo di manutenzione previsto alle 500 ore, e fai un volo di controllo”. Effettuo i controlli esterni poi salgo a bordo, controllo strumenti e comandi, avvio il motore e, quando la temperatura dell’olio raggiunge il valore minimo previsto, faccio un cenno al motorista che tira la funicella alla quale sono legati i tacchi e rullo verso la pista. L’addetto alla linea di volo mi autorizza, decollo e salgo a 1500 mt., eseguo un paio di figure acrobatiche e poi metto l’aereo in volo livellato, è pesante sull’ala destra e debbo applicare uno sforzo costante a sinistra sulla barra. Atterro e riporto l’inconveniente sul quaderno tecnico del velivolo, il maresciallo montatore interviene sul compensatore posto sull’alettone. Il capitano, informato dell’intervento, mi ordina di effettuare un secondo volo e questa volta l’aereo non ha alcuna tendenza a inclinarsi e rimane perfettamente livellato.

L’esibizione davanti al Duca
Qualche ora più tardi il Capitano convoca i piloti della Squadriglia, è prevista una esibizione sull’aeroporto e dobbiamo dimostrare di non essere secondi agli altri colleghi dello Stormo: Sua Altezza Reale ci osserverà dal Comando dello Stormo. Mi viene assegnato l’aereo che ho avevo appena provato, decolliamo in una formazione di sette aeroplani, con il cap. Cozzi capo formazione. Saliamo a 1200 mt. portandoci sulla verticale dell’aeroporto, ci disponiamo in formazione stretta ed eseguiamo una serie di figure acrobatiche, manteniamo bene la nostra posizione durante tutte le manovre e, per un istante, il Capitano stringe le mani sopra la testa in segno di soddisfazione. Rulliamo verso il nostro hangar e Sua Altezza Reale ci sta aspettando, scendiamo e rimaniamo in piedi accanto all’elica. Il cap. Cozzi va incontro al Duca, lo saluta, vediamo che si scambiano alcune parole, poi si gira verso di noi e ci fa cenno di avvicinarci. Sua Altezza Reale si complimenta, chiede qualche ragguaglio sulle manovre e poi si rivolge a me in inglese chiedendomi come mai ho fatto domanda di trasferimento a un altro Reparto. Rispondo: “Altezza, è stata una scelta affrettata, dettata da alcuni problemi che ora ho risolto. Mi trovo bene a Gorizia e, se sono ancora in tempo, chiedo che la mia richiesta non sia presa in considerazione”. Mi assicura che provvederà e si informa sulla mia famiglia. Quando torniamo al nostro hangar il Cap. Cozzi mi chiede cosa mi ha detto il Duca e cosa gli ho risposto, teme che abbia commesso qualche gaffe. Ci chiama poi accanto a lui per esprimerci la sua soddisfazione: abbiamo fatto una bella esibizione! Insieme a Baccara vado nell’ufficio della Squadriglia, posto sul retro dell’hangar, compiliamo i registri delle ore di volo dei piloti e dei velivoli, terminiamo verso le 18, quando i portoni scorrevoli dell’hangar sono già chiusi. Non c’e più attività di volo e attraversiamo direttamente il campo di volo per portarci dall’altra parte dove sono i nostri alloggi. Una doccia veloce e dopo cena vado al cinema dell’aeroporto, dietro gli hangar della Ricognizione, dove proiettano “Viva Villa” e, per concludere la serata, una partita a ramino. Vinco 500 lire e, prima di andare a letto, offro da bere ai compagni di gioco, un collega si mette a raccontare barzellette ma, dopo un paio che non capisco, vado a dormire.

In volo con un allievo
Il mattino successivo mi viene assegnato un giovane pilota da addestrare al volo in coppia, come gregario di sinistra. Prima di decollare gli faccio un briefing su come deve manovrare per starmi sempre di fianco senza sfilarsi o rischiare di venirmi addosso. Decolliamo e saliamo a 2000 metri, eseguo un paio di virate e vedo che mi segue con qualche leggera oscillazione, accentuo le virate e si sfila leggermente ma recupera subito. Provo allora mettere l’aereo in affondata, fino a raggiungere i 300 Km/ora, cabro bruscamente e lascio scadere la velocità rimanendo appeso all’elica fin quasi allo stallo. Effettuo ancora due virate sfogate e andiamo all’atterraggio. Quando scendo il Capitano mi viene incontro, vuol sapere com’è andato il ragazzo, gli dico che per essere alla sua prima esperienza non è male; vado poi verso il velivolo dell’allievo per fargli il debriefing e gli spiego quali sono le manovre che deve affinare. Mi reco nell’ufficio della Squadriglia a ritirare la posta e trovo una lettera di mio padre e due riviste Aero Digest. Leggo subito la lettera di mio padre e apprendo con sollievo che sta bene, scrive che mio fratello Carmine è a casa in licenza per alcuni giorni. Mi siedo poi davanti all’hangar a sfogliare le riviste, il cap. Dequal passa poco dopo e chiede di dare un’occhiata, le trova interessanti e mi chiede il significato di alcuni termini che gli sono poco chiari. Colgo l’occasione per chiedergli se può intercedere con il Capitano per farmi rilasciare un permesso per andare a Trieste il prossimo fine settimana. Mi promette che farà il possibile anche se non può garantirmelo. Non lascio l’aeroporto per il resto della settimana e trascorro il tempo libero giocando al biliardo e ramino con i colleghi, sono fortunato e vinco quasi un centinaio di lire nonostante ci siano degli abili giocatori tra loro.

Pensando ad Ada
Vado nella mia cameretta ad ascoltare la radio, torno con la mente ad Ada e alle piacevoli ore trascorse insieme, credo proprio di essere innamorato. Ada non è la prima ragazza della mia vita, provo un’attrazione che non si attenua con la distanza o con il tempo. Tuttavia c’è qualcosa in lei che non comprendo o che forse mi nasconde, a volte si trattiene dal scoppiare in lacrime. Ho scoperto la sua età la notte che ha consegnato la carta d’identità al portiere dell’albergo, è nata nel mio stesso giorno, il 12 gennaio, tre anni dopo di me. So anche che lavora come segretaria in una Compagnia di Navigazione e che vive con un’altra ragazza in un pensionato per ragazze. Questo è tutto ciò che so su di lei. Accendo una sigaretta e ascolto la radio, trasmettono musica da ballo, dopo un po’ la spengo e mi addormento. È sabato e l’attività di volo cessa di solito alle 13, spero di ottenere il permesso per trascorrere la notte e tutta la domenica a Trieste. Al mattino mi reco al Comando di Squadriglia per la richiesta. Trovo il Capitano che sta per partire per un pattugliamento lungo il confine con la Jugoslavia e appena mi vede esclama “Ti stavo cercando, preparati che appena rientro decolli per una missione di finta caccia con il serg. Boaria. Vi stanno installando le foto-mitragliatrici, ci vorrà un po’ di tempo”.

Finta caccia con Boaria
Dopo un’ora, verso le 10, rientra il cap. Cozzi, decolliamo, dirigiamo verso Aidussina, un piccolo paese sotto le montagne a circa 20 km a Nord Est del campo, dove siamo sicuri che non ci siano altri nostri aerei in volo. Ci separiamo allontanandoci per iniziare il combattimento, ci dirigiamo l’uno contro l’altro e appena incrociati iniziamo a virare stretto per portarci l’uno in coda dell’altro, inizia la “giostra”. Continuiamo a girare sempre più stretti, sottoposti alla forza centrifuga che ci schiaccia al seggiolino e per alcuni istanti provoca la “visione nera”, è il sangue che non irrora più il cervello, impedisce la vista e bisogna allentare la pressione sulla cloche. A forza di girare comincio a guadagnare terreno e ad avvicinarmi alla sua coda ma non sono ancora in grado di “collimarlo”. Improvvisamente Boaria commette un errore, abbassa il muso per acquistare velocità, livello e tiro su leggermente, quando Boaria tenta di salire alla mia quota entra in perdita di velocità e stalla. Ora è alla mia mercé, mi metto in coda, lo collimo e aziono la foto-mitragliatrice per qualche frazione di secondo. Il combattimento continua e Boaria riesce a sua volta a portarsi in coda al mio velivolo e a scattarmi alcuni fotogrammi. Risulterà poi, dallo sviluppo della pellicola, che mi ha colpito l’estremità alare. Atterriamo prima di mezzogiorno e rulliamo verso l’hangar, aiutiamo i meccanici a rifornire gli aerei e ricoverarli, vado verso l’ufficio della Squadriglia, in fondo all’hangar. Il Capitano sta firmando alcune carte che un aviere gli porge, attendo fuori e quando esce gli chiedo se posso avere un permesso per recarmi a Trieste: “Di nuovo a Trieste?”, esclama. “Vado a trovare amici”, rispondo, e lui “Non avrai qualche amico con la gonna?”, ribatte, e sorridendo rientra in ufficio, prende un modulo per i permessi, lo riempie e me lo porge.

A Trietse con Aldo Ferrulli
Mi precipito nel mio alloggio, mi rado e faccio una doccia, indosso la divisa e mi reco nella sala mensa al piano terra, non ho il tempo per pranzare e ordino un panino e un bicchiere di birra: ingoio il panino e bevo d’un fiato la birra. Mancano pochi minuti alla partenza del bus, mi avvio verso il cancello presso il Corpo di Guardia, ci sono diversi commilitoni che pure loro attendono il bus. L’Ufficiale di picchetto controlla i permessi prima di lasciarci uscire, il bus arriva puntuale, saliamo a bordo, siamo in molti e fa caldo, attraversiamo il Carso, il paesaggio è brullo, tutto roccia e qualche cespuglio, viaggiare in divisa in queste condizioni non è un piacere. Sono seduto vicino ad Aldo Ferrulli, un caro amico, fa parte della 84ª Squadriglia, mi chiede cosa vado a fare a Trieste e se ho un appuntamento. Gli rispondo che sono libero fino alle diciotto, poi non lo so, fino a quell’ora potremmo andare in spiaggia. Ferrulli non ha il costume da bagno: forte della precedente esperienza gli spiego che si possono noleggiare sul posto. “Sono puliti e lavati dopo l’uso!”, aggiungo. Il bus arriva a Trieste intorno alle due, scendiamo e ci incamminiamo. Appena fuori dalla stazione mi sento chiamare per nome, è Ada che mi sta venendo incontro, mi saluta con un “ciao”, mi mette una mano sulla guancia e mi dà un bacio. Ferrulli, che mi è accanto, mi dà una gomitata perché sto fissando Ada senza proferire parola, poi mi riprendo e lo presento. Ada è in compagnia della sua amica Linda, era rimasta in disparte e Ada la chiama vicino, porge la mano a Ferrulli e si presenta: “Piacere, Linda Ricci”. Anche lei è carina. Chiedo ad Ada come mai è lì ad aspettarmi, mi risponde che si è informata sugli orari dei bus e poi, calcolando l’ora in cui avrei potuto lasciare l’aeroporto e la durata del viaggio, si è regolata. Chiedo ad Ada di scostarsi un attimo da me perché voglio guardarla: è molto bella, indossa uno sgargiante vestito giallo con una cintura nera intorno alla vita, un nastro giallo spicca sui capelli neri e ai piedi ha un paio di sandali senza tacco che la fanno sembrare piccola di statura, ma carina. Alcuni colleghi arrivati sullo stesso bus ci passano accanto, ci salutano e ci guardano. Si capisce quello che pensano: “Fortunati voi di essere in compagnia di due ragazze così carine!”. Dico ad Ada che Aldo e io pensavamo di fare il bagno a Miramare e propongo di andarci tutti insieme; lei si rivolge a Linda ed entrambe accettano volentieri. Mentre ci incamminiamo verso la fermata del bus Ada mi abbraccia e mi sussurra nell’orecchio che mi ama, la stringo a me e le dico che anch’io l’amo. Arriviamo alla spiaggia intorno alle tre del pomeriggio: Aldo e io prendiamo a noleggio i calzoncini da bagno, Ada e Linda il costume, ci avviamo alla cabina e le ragazze si cambiano per prime. Mentre le attendiamo noi due andiamo a prenderci una birra ad un chiosco. Aldo, dopo il primo sorso, mi confida “Lo sai che Ada e Linda sono molto carine. Dove diavolo le hai scovate? Da te non me lo sarei proprio aspettato!”. Gli racconto di aver conosciuto Ada ancora prima di partire per la missione in Africa e di non aver più pensato a lei finché un giorno, tornato a Trieste, per un caso fortuito non l’avevo nuovamente incontrata. Gli dico anche che sono innamorato di Ada; interrompiamo il colloquio perché Ada e Linda stanno venendo verso di noi. Ada indossa un costume blu chiaro e Linda uno verde pallido, ci sollecitano a fare in fretta a metterci i costumi da bagno. Ci dirigiamo verso la spiaggia, Ada corre avanti verso il mare e mi spruzza con l’acqua, mi tuffo e lei fa altrettanto dietro a me, nuotiamo per un po’ senza allontanarci da riva. Sott’acqua Ada mi dà un pizzico e poi mi bacia, ama il mare e in acqua è completamente a suo agio. Dopo un po’ ritorno a nuoto verso la spiaggia e mi stendo a prendere il sole, Ada mi raggiunge e si mette accanto a me. Aldo e Linda rimangono ancora qualche minuto in acqua e infine ci raggiungono. Ada osserva che Aldo è un bel ragazzo, le rispondo che senz’altro lo è ed è anche uno dei migliori piloti dello Stormo: “Il suo nome è Leonardo ma tutti lo chiamano Aldo, è nato a Brindisi ed è considerato un ottimo pilota. Non è della mia Squadriglia, l’ho conosciuto appena arrivato a Gorizia dalle Scuole di Volo”. Sotto il sole mi viene sonno e chiedo ad Ada di farmi riposare un po’, lei poggia la testa sulla mia pancia e mi addormento per qualche minuto e pure Ada socchiude gli occhi. Mentre noi stavamo riposando Aldo e Linda si erano allontanati per una passeggiata, li aspettiamo osservando il tramonto. Guardo l’orologio e dico ad Ada che a New York è mezzogiorno: lei mi guarda e sorride. Linda e Aldo ritornano, ci cambiamo i costumi e ci avviamo verso la fermata del bus. Mentre camminiamo dico che intendo trascorrere la notte a Trieste. Aldo vorrebbe fermarsi pure lui ma ha un impegno domani a Gorizia e deve rientrare con il bus delle 22.40. Quando siamo vicini all’hotel scendiamo tutti dal bus, vado a prenotare la camera e insieme andiamo alla trattoria “Alla Fortuna”. Dopo la cena trascorriamo il tempo che ci rimane prima della partenza di Aldo in un caffè in Piazza Unità dove suona un’orchestra. Accompagniamo Aldo alla stazione dei bus; quando il bus si allontana, Linda vuol lasciarci ma la convinciamo a rimanere con noi, entriamo in un altro bar, prendiamo un gelato e discorriamo piacevolmente. Dopo un po’ Linda dice che desidera tornare a casa perché si sente stanca, mi offro di accompagnarla, ma lei rifiuta e prima di lasciarci sussurra qualcosa ad Ada.

All’albergo Excelsior
Si è fatta mezzanotte e fa ancora caldo, propongo di fare una passeggiata lungo le rive. Mentre camminiamo mi offro di accompagnare Ada a casa: dapprima non mi risponde, poi mi guarda e mi chiede se sto cercando di sbarazzarmi di lei. Mi fermo, la guardo e le dico che qualsiasi cosa accada non potrò mai dimenticarla. Lei si stringe al mio braccio e mi dice che desidera stare con me per sempre e ci avviamo verso l’albergo. Saliamo nella mia camera, è più grande ed elegante di quella della scorsa settimana, accendo la luce, tolgo la giacca e l’appoggio su una sedia. Ada si siede su una poltrona, si toglie i sandali e si massaggia i piedi. Mi tolgo la camicia e le scarpe, mi siedo sul divano e accendo una sigaretta. Poi mi alzo, accendo la lampada sul comodino e spengo la luce al centro della stanza; anche Ada si alza e si toglie il nastrino dai capelli e si siede accanto a me, appoggia il capo sulla mia spalla e rimane in silenzio. Si sente a suo agio con me, l’avvolgo con un braccio, l’avvicino e la stringo forte, lei alza il viso e la bacio. Anche lei mi abbraccia e mi stringe. “Vincenzo”, sussurra, “ti amo più della mia vita, non mi lasciare mai, senza di te morirei”. Le sollevo il capo, i suoi occhi e le sue guance sono umide di lacrime. “Perché piangi?”, le chiedo. “Non c’è motivo”. Si gira e: “Non è niente”, risponde, “sono felice!”, e non aggiunge altro. Le appoggio il capo sul divano, le scrollo i capelli e le dico di calmarsi: “Ti voglio vedere sorridente, mi fa male vederti piangere!”. La sollevo e la poso sul letto, lei mi abbraccia, avvicino le mie labbra alle sue e ci baciamo a lungo, rimaniamo nelle braccia l’uno dell’altra. Scendo dal letto, dico ad Ada che desidero fare una doccia e mi risponde che desidera farla pure lei, prendo l’asciugamano e vado nella stanza da bagno, non ho il pigiama e indosso solo i calzoncini. Quando esco, Ada è avvolta nell’asciugamano che le ho lasciato, sembra così minuscola che mi viene istintivo chiederle “Dove sei finita?”. Lei mi sorride. Mentre si fa la doccia accendo una sigaretta, mi stendo sul letto e spengo una delle due lampade sul comodino. Quando esce dalla doccia inciampa nell’asciugamano troppo lungo per lei e per poco non cade a terra, rido e lei divertita mi mostra la lingua. Si siede davanti allo specchio e si pettina i capelli, quando ha finito viene accanto al letto e mi dice di voltarmi, si toglie l’asciugamano e si mette sotto le lenzuola. Sento il suo corpo avvolto intorno a me, la sua pelle sembra un velluto, mi chiede di spegnere la lampada sul comodino al suo lato, il mio braccio sfiora il suo seno, mi prende la mano e la stringe forte, mi abbraccia e mi tira a sé, le nostre labbra si incontrano, le sue sono soffici come la seta. Il calore del suo corpo avvinghiato al mio mi fa battere più veloce il cuore, il suo respiro si fa affannoso e trema come avesse i brividi, si gira sulla schiena e mi tira a se, quello che succede è meraviglioso, ci desideriamo entrambi. Mi tiene stretto su di lei e non vuole che mi allontani, la bacio, si rilassa un po’ ed entrambi sprofondiamo in un sonno ristoratore. Durante la notte fa caldo e allontano il lenzuolo, non riprendo sonno. Ada sta dormendo, la copro ma spinge via il lenzuolo e si gira sulla pancia. Mi alzo, ho sete, vado in bagno e bevo un bicchiere d’acqua. Quando ritorno Ada è sveglia, appoggia la mano sulle mie labbra, mi chiede come mai non dormo. “Sono quasi due ore che sono sveglio e che ti ammiro”, le rispondo, “sembri una bambola addormentata”. Si stringe nuovamente a me e si riaddormenta, rimango con gli occhi chiusi finché le prime luci cominciano filtrare nella camera, poi mi appisolo. Quando mi sveglio sono le 9.30. Mi alzo cercando di non fare rumore e vado nella stanza da bagno; quando torno dorme ancora, mi accendo una sigaretta e mi siedo sulla poltrona accanto alla finestra, non apro le imposte perché non voglio svegliarla e mi appisolo nuovamente. Mi sveglia la mano di Ada che mi accarezza, è accanto a me senza nulla addosso, si china, mi bacia e mi si siede in grembo, dice che non ha nulla di cui vergognarsi a giacere nuda davanti a chi ama con tutto il corpo e l’anima. Si è fatto tardi, ci vestiamo, le propongo di farci portare la colazione in camera; le siedo accanto, prendiamo il caffè, accendo una sigaretta e rimaniamo seduti. Sono quasi le undici e dobbiamo prepararci e saldare il conto dell’albergo, Ada si aggiusta il vestito ed i capelli, le allungo una sculacciata sul sedere e lei me la ritorna, si allaccia la cintura nera in vita, calza i sandali ed è pronta.

La chiesa di Sant’Antonio
Pago il conto al portiere, lasciamo l’albergo e ci avviamo verso il porto; passiamo davanti alla chiesa di Sant’Antonio, Ada mi invita a entrare per la funzione, me l’ero scordato: è domenica. Ci sediamo, Ada estrae il rosario dalla borsetta, si inginocchia, con gli occhi chiusi recita le preghiere. Terminata la funzione i fedeli escono, con un cenno mi fa capire che vuol dirmi qualcosa, si avvicina all’altare, mi prende le mani e pronuncia queste parole: “Davanti a Dio prometto di amarti per tutta la vita e chiedo che lui vigili su di te”. Non trovo le parole per rispondere, le bacio le mani e usciamo. Sono le 13, Ada propone di pranzare alla trattoria dello zio, dove siamo stati l’ultima volta. Ai tavoli ci sono diverse coppie, lo zio appena ci vede viene incontro, mi stringe la mano e saluta affettuosamente Ada, ci fa accomodare in un posto arieggiato e mi tolgo la giacca, Ada la ripone assieme al berretto, in pubblico non potrei stare con la sola camicia dell’uniforme. Lo zio ci porta due piatti di tagliolini al ragù alla bolognese e ci augura buon appetito, è un piatto casalingo delizioso, ci chiede se desideriamo un’altra porzione. Ada preferisce del pollo e poco dopo arrivano due mezzi pollo arrosto, è tutto buono, ci sono anche le fragole al marsala, una tazza di caffè e un bicchierino di brandy Stock. Accendo una sigaretta e ne offro una allo zio, Ada me ne chiede un’altra, gliela porgo sorpreso perché in precedenza non le aveva mai chieste. Lo zio si siede al tavolo accanto a noi, siamo rimasti soli nel locale, vuole che gli racconti di me, mi confessa che gli sono piaciuto fin dal primo momento che mi ha conosciuto. Mi racconta di sé, è il cugino del padre di Ada e dice che sono stati sempre come due fratelli. Il padre di Ada partì per l’Africa per tentare la fortuna e di lui non si sono più avute notizie, la madre morì quando la mise alla luce, era molto bella e aveva un grande cuore. Dopo la partenza di suo padre lui è stato la sola persona ad aiutarla. Ada si alza e gli dà un bacio sulla guancia. Lo zio cambia argomento e mi chiede del volo, degli aerei; gli racconto che ho desiderato volare fin da ragazzo, è stata l’unica ambizione della mia vita e ora mi sento realizzato. Parliamo di Ada, mi dice che ho trovato una brava ragazza e le accarezza una guancia. Ada sorride e dice che è stata lei a trovare me, mi guarda, arriccia il naso e tutti e tre scoppiamo a ridere. Ho l’impressione che lo zio volesse dirmi ancora qualcosa, ma con Ada presente se l’è tenuta per sé. Mi dà un colpetto sulla spalla e va in cucina; quando torna Ada gli dice che ce ne andiamo, chiedo il conto e mi risponde: “Oggi pago io, la prossima volta paghi tu… il doppio”, e mi strizza l’occhio. Prendo la giacca e prima di andarcene gli stringo la mano, Ada gli dà due baci, uno per guancia.

Al cinema con Ada
Per andare al mare si è fatto tardi, le chiedo se desidera andare al cinema, danno un film d’aviazione, dal titolo “Cavalleria” con Amedeo Nazzari ed Elisa Cegani, è la storia di un cavalleggero che nel 1915 diventa pilota, ad Ada la proposta piace. Non c’è molta gente nella sala, quasi tutti sono al mare, fa un bel fresco qui dentro, spiego ad Ada alcune scene della pellicola nelle quali compaiono aerei e piloti. Quando usciamo dal cinema si è fatto buio, sono quasi le venti, passeggiamo e ci sediamo in un bar, abbiamo ancora del tempo per raggiungere la stazione degli autobus. Ci sediamo nella sala d’aspetto, in attesa della partenza del mio bus. Dico ad Ada che sabato e domenica prossimi non sono di servizio e conto di tornare alla stessa ora di ieri, i suoi occhi si velano di lacrime, le dico che una settimana trascorre in fretta. Alcuni piloti dello Stormo ci vedono e mi salutano, il conducente dell’autobus esce dalla stazione e si siede al posto di guida, suona il clacson, si parte, do un ultimo bacio ad Ada e salgo. Il collega che siede accanto mi chiede di Aldo, gli dico che è rientrato la notte scorsa perché era di servizio; mi racconta che è stato a mare, che ha preso una bella insolazione, si è divertito e ha conosciuto una ragazza. Mi ha visto insieme ad Ada, osserva che è carina e che ho buon gusto. Per il resto del viaggio sonnecchio, il conducente annuncia che siamo arrivati, il bus si ferma davanti al Corpo di Guardia, scendo e percorro il vialetto che porta alla palazzina Sottufficiali, salgo al secondo piano, faccio una doccia fredda e mi addormento pensando ad Ada.

Volo in pattuglia
Di primo mattino sono già in piedi, vado a rapporto dal comandante con gli altri piloti della Squadriglia. Il capitano Cozzi quando mi vede mi chiede chi era la ragazza con me alla stazione. Non capisco come faccia a saperlo, mi dice che mi è passato vicino a Trieste, era in abiti civili e non l’ho notato. Raduna i piloti e ci fa il briefing, dobbiamo decollare in pattuglia di cinque, due sono giovani piloti arrivati da poco al Reparto. Appena in volo Baccara e io ci mettiamo dietro a loro per osservare come stanno in formazione, saliamo a millecinquecento metri, il capitano Cozzi effettua delle virate strette a destra e a sinistra per vedere come teniamo la formazione, tutti rispondono bene anche se un po’ nervosi sui comandi. Appena atterrati il capitano Cozzi ci convoca per il debriefing, vuol conoscere da Baccara e da me l’impressione che abbiamo avuto dei nuovi arrivati. Io osservo che l’allievo che seguivo ballava in continuazione perché stava con la sua estremità alare troppo sotto al leader e così entrava nella sua scia: se si fosse allontanato un po’ avrebbe mantenuto più facilmente la posizione.
 

Vita d’aeroporto
Rimango con i due nuovi piloti davanti all’hangar a osservare un’altra squadriglia che, come la nostra, ha ricevuto le nuove “reclute” e si sta allenando sul cielo campo. Più tardi i piloti di questa squadriglia ci invitano a una partita a pallavolo, scegliamo chi dovrà giocare e formiamo due squadre: la 90ª si batterà con la 84ª. Si finisce che è già ora di cena. Mentre attraverso il campo e mi dirigo verso la palazzina dei Sottufficiali incontro Aldo Ferrulli che anche lui sta facendo la stessa strada; gli chiedo come si è trovato con Linda, mi risponde che è una ragazza carina, intelligente ed educata. Ada mi parla molto bene di lei e sono amiche da tanti anni, sono come sorelle. Giunto nella mia cameretta, mi lavo e poi scendo al piano terreno dov’è la mensa. Dopo cena mi sposto al bar del Circolo Sottufficiali che è accanto, prendo un caffè e ascolto il notiziario alla radio, parla degli eventi della Spagna, dice che la sollevazione popolare si sta estendendo rapidamente, anche la Lega delle Nazioni ne parla con toni preoccupati. Mi sintonizzo su qualche altra stazione, non c’è niente di interessante e vado a dormire. Al mattino, quando ritorno in Squadriglia, mi dicono che non ci sono voli in programma per la 90ª, mentre per la 96ª è previsto un volo di addestramento acrobatico sul campo. Gran parte del personale delle altre cinque squadriglie rimane davanti agli hangar a osservare l’esibizione della 96ª che dimostra una soddisfacente preparazione e buon coordinamento nelle manovre. Vado nell’ufficio della Squadriglia, situato sul retro dell’hangar, nella cosiddetta “appendice”, ad aggiornare i libretti di volo e finisco che è ora di cena. Al Circolo Sottufficiali gioco un po’ a ramino e alle ventidue sono già a letto. Al mattino la solita colazione e poi in Squadriglia, mi siedo all’aperto per godermi l’aria fresca mattutina. I meccanici, di solito i primi ad arrivare, si meravigliano di trovarmi già lì, intorno alle sette e mezza arrivano anche i piloti. Arrivano il cap. Dequal e il cap. Cozzi, parliamo della Squadriglia e ascoltiamo uno dei meccanici che è sempre di buon umore e famoso per le sue barzellette. Il Capitano prepara il programma della giornata, si sceglie due gregari e poi incarica i piloti anziani di addestrare i nuovi arrivati al volo in formazione. A me ordina fare un volo “officina” con un velivolo appena uscito dalla revisione delle cinquanta ore. Decollo dopo gli altri e al mio rientro il Capitano, insieme ai suoi gregari, è già atterrato, mentre gli altri arrivano poco dopo. Quando siamo tutti a terra ci chiama e ci chiede di andare nel suo ufficio a dare una mano a compilare e aggiornare i registri delle ore di volo dei velivoli e dei piloti. Lo informo che i registri sono già aggiornati, vi ho provveduto io ieri e chiedo se non ha nulla in contrario che rimanga nel mio alloggio durante l’orario di servizio, vorrei scrivere ai miei genitori e parenti e andare in città a imbucare le lettere. Dopo pranzo mi ritiro nella mia cameretta, mi riposo un po’, scrivo a mio padre e a mio fratello Carmine e, quando ho finito, sintonizzo la radio, accendo una sigaretta e mi metto a sfogliare Aero Digest. Quando si avvicina l’ora della libera uscita mi lavo e mi metto in uniforme, mangio un boccone, vado all’ingresso dell’aeroporto e prendo il bus che porta in città. Imbuco le lettere e vado al caffè “Alle Ali”, vicino al Parco della Rimembranza, un locale frequentato dal personale dell’aeroporto che qui si trova bene. La proprietaria, la signora Giovanna, è un po’ autoritaria ma buona di cuore e la figlia Maria che l’aiuta è corteggiata un po’ da tutti. A volte nel locale viene a far visita Carnera, il pugile campione del mondo, amico dei proprietari. Arriva un altro bus dall’aeroporto e scarica altri avieri e piloti, tra questi c’è Aldo Ferrulli. Gli chiedo se ha un programma per la serata, lui vorrebbe andare al cinema, propongo di andarci insieme e di fare prima una partita al biliardo, la sala è in fondo al locale. Mentre giochiamo gli chiedo se sabato ha intenzione di andare a Trieste e mi risponde che con me ci viene volentieri e, sorridendo, aggiunge “Scommetto che ti sei innamorato di Ada”. Giunti al cinema guardiamo le locandine appese all’esterno, la pellicola non ci convince e torniamo nuovamente al bar. C’è un biliardo libero e propongo a Ferrulli un’altra partita, giochiamo fino alle ventidue, pago il conto e saliamo sul bus che ci riporta in aeroporto.

Un volo in coppia con un allievo
Durante il periodo estivo mi sveglio sempre presto, alle prime luci del giorno. Non amo rimanere a letto a lungo e così scendo a fare colazione, attraverso poi il campo e vado nel mio hangar, quello in fondo. Quando i piloti della Squadriglia sono tutti presenti ci rechiamo nell’ufficio del cap. Cozzi che ci assegna i voli della giornata. A me tocca una missione di volo in coppia con un giovane sottotenente giunto fresco d’Accademia. Decolliamo e lo metto alla prova con alcune virate strette. Se la cava bene, completiamo la missione e torniamo all’atterraggio. Quando scende ha la tuta di volo impregnata di sudore, è un fatto comune dovuto all’impegno ed alla tensione nel controllo dell’aereo. Gli dico di andare a cambiarsi la combinazione di volo e quando ritorna gli faccio il debriefing, spiegandogli alcuni dettagli delle manovre che deve perfezionare. Mi ascolta e alla fine mi dice che gradirebbe avermi come istruttore fisso per tutto il periodo addestrativo e chiede se può fare tale richiesta al Capitano. Il giorno successivo decolliamo in formazione per un volo di navigazione, la missione prevede l’individuazione di diversi punti e dopo il sorvolo ci si scambia di ruolo, il leader della formazione che ha condotto la navigazione passa a fare il gregario e un altro fa da leader. L’attività di volo è intensa per tutta la settimana e venerdì mi viene comunicato che sarò di servizio di guardia domenica. Proprio la domenica che volevo andare a trovare Ada! Potrò vederla sabato, solo per poche ore perché debbo rientrare entro la notte.

A Trieste Aldo Ferrulli
Sabato, insieme ad Aldo Ferrulli, prendo il bus delle 13 per Trieste. Siamo assieme ad altri colleghi, lungo la strada si scherza e ci si prende in giro. Quando il bus arriva alla stazione scorgo nella sala d’attesa Ada e Linda. Ada mi viene incontro e mi abbraccia, anche Linda viene verso di noi, ci stringe la mano e ci saluta con un “Ciao!”. Usciamo dalla stazione e dico ad Ada che debbo rientrare entro la notte con l’ultimo bus, al mattino debbo essere di servizio. Chiediamo alle ragazze dove desiderano andare, visto il gran caldo che fa Linda propone di andare a Barcola, allo stabilimento “Ai Topolini” a fare il bagno. Aldo è d’accordo, Ada dice che non le interessa andare al mare e preferisce rimanere sola con me. “È meglio lasciare gli innamorati da soli”, conclude Aldo rivolgendosi a Linda, e strizza l’occhio ad Ada che lo ricambia mandandogli un bacio. Li accompagniamo alla fermata del bus e ci allontaniamo. Propongo di andare al cinema e Ada risponde che preferisce andare a Miramare, all’ombra del parco. Prendiamo il filobus e raggiungiamo Miramare, passeggiamo nel parco attiguo al Castello che ospitò Massimiliano d’Asburgo. Oggi è la residenza del Duca d’Aosta, Comandante del 4° Stormo, è un posto incantevole. Troviamo una panchina sotto un platano ombroso e restiamo lì fino al tramonto. Le dico che vorrei sposarla ma nella Regia Aeronautica vige in merito un regolamento preciso, i piloti possono sposarsi solamente dopo i venticinque anni d’età. Ada mi getta le braccia al collo e mi giura che se non sposerà me non amerà nessun altro; le sollevo la testa, la bacio e le accarezzo i lunghi capelli. Ritornati in città andiamo al solito caffè in Piazza Unità ad ascoltare una orchestrina. Mancano ancora due ore alla partenza del bus e ci incamminiamo verso il locale dello zio. Mentre camminiamo mi dice che domani intende venire a Gorizia a trovarmi con il bus delle sedici. “Sono libero solamente un paio d’ore e non posso lasciare l’aeroporto”, le ricordo, e lei: “Non importa, mi accontento di stare insieme anche pochi minuti”. Ci sediamo a un tavolo all’aperto e lo zio viene subito ad accoglierci, è lieto di rivedermi, ci porta qualcosa di pronto e chiede se vogliamo dell’altro. Lo ringrazio, è più che sufficiente quanto ci ha servito, siede con noi qualche minuto a bere una birra e poi ritorna in cucina. Ada mi confida che le piacerebbe vedere l’America, le rispondo che è un grande Paese che ancora risente degli effetti della depressione economica del 1929 ma l’economia sta già dando segni di ripresa, e aggiungo “Un giorno avrai l’occasione di conoscerla e sarò io ad accompagnarti!”. Poco dopo vediamo arrivare Linda e Aldo, Linda era sicura di trovarci lì, si siedono al nostro tavolo e ordinano qualcosa da mangiare. Ada presenta Aldo a suo zio che si intrattiene a conversare con noi e poi va in cucina ed esce con alcuni piatti che posa sul nostro tavolo. “È una specialità”, esclama, “a base di riso, funghi e pollo” e subito dopo porta una bottiglia di vino bianco. È una simpatica festa in nostro onore e, sebbene non abbia fame, non posso rifiutare di assaggiare questo piatto che effettivamente è qualcosa di speciale. Si è fatto tardi, debbo avviarmi alla stazione dei bus. Lo zio non vuole che paghi il conto, mi prende da parte e mi dice “Ada è innamorata di te, non fa altro che parlare di te, comportati bene con lei perché in passato ha molto sofferto”. Lo rassicuro rispondendogli “Anch’io le voglio bene e un giorno la farò felice”. Mi stringe la mano e bacia Ada sulla guancia. Aldo mi ricorda che ci vedremo l’indomani sera al suo turno di rientro e ci incamminiamo verso la stazione delle corriere. Arrivato all’aeroporto non c’è anima viva al bar del Circolo e vado diritto nella mia cameretta.

Pattugliamento e  “Finta caccia”
Il mattino prendo servizio per il mio turno di ventiquattro ore, è una di quelle giornate afose in cui dover indossare l’uniforme è una sofferenza, non ci sono novità e la giornata trascorre lentamente. Martedì, quando mi presento a rapporto alla Squadriglia, mi assegnano una missione di pattugliamento. Si decolla in nove e rimaniamo in volo per un’ora e mezza. Al rientro ho un volo con un allievo, un giovane tenente con il quale avevo volato di recente. Ora in coppia va molto meglio, non “oscilla” nervosamente come prima e si è tolta l’abitudine di stare più basso della mia ala. Al briefing dopo l’atterraggio gli suggerisco di tenere sempre quella posizione e di non starmi troppo vicino finché non ha acquisito maggiore esperienza: c’è il rischio che, durante una mia manovra accentuata, mi venga addosso. Gli anticipo che la prossima lezione effettueremo un looping e vedremo come se la cava, sorride mi ringrazia e saluta. L’allievo è il s.ten. Franceschi, diventeremo buoni amici perché ci accomuna la grande passione per il volo. L’indomani, il 2 luglio, siamo nuovamente in volo, è prevista una missione di “finta caccia”. Nel briefing prima del decollo gli ricordo che è fondamentale che non mi perda mai di vista, è il più grave errore che si possa commettere durante un combattimento aereo. Raggiunta la quota stabilita si porterà in coda e io tenterò di scrollarmelo di dosso. Se non ci riuscirò gli farò cenno di mettersi in coppia e quindi “romperemo” dando inizio a un finto combattimento. Decolliamo e ci portiamo a una quota di sicurezza sui duemila metri e cominciamo la lezione. Con lui in coda inizio delle cabrate seguite da mezzi tonneau, noto subito che quando le imposto a destra si sfila leggermente, insisto sulla destra finché mi porto in coda a lui. Ora manovra in tutti i modi per sganciarsi e quando si rende conto di non farcela si butta in una affondata accentuata, mantengo la quota, salgo leggermente in virata e lo tengo d’occhio. Quando cabra ed effettua un mezzo tonneau per raggiungermi viro stretto tirandomi fuori dalla sua traiettoria, lui insiste ma è in perdita di velocità, stalla e il suo muso di colpo cade verso il basso. Perde quota per controllare lo stallo ed evitare di entrare in vite, ma oramai si è messo in una situazione senza uscita, mi butto dietro a lui, lo raggiungo e gli faccio cenno di affiancarsi. Saliamo nuovamente a duemila metri, inizia il combattimento, “rompiamo” virando in direzioni opposte stringendo al massimo. Dopo una decina di secondi ci troviamo di fronte, muso a muso, chi ha paura e molla è perduto, ci avviciniamo a una velocità folle e solo all’ultimo secondo incliniamo di 90 gradi, a coltello, e ci incrociamo a pochi metri, entro nella sua scia e ballo violentemente. Continuiamo a virare stretti con tutto motore, schiacciati sul seggiolino dalla forza centrifuga, chi vira più stretto riuscirà un po’ alla volta a portarsi in coda all’altro. Nessuno dei due riesce a impegnare l’avversario, poi improvvisamente lui abbassa leggermente il muso per guadagnare velocità, ha commesso un errore fatale, lo lascio fare e mantengo la quota continuando a virare stretto. Effettuo una brusca virata a destra e lui tenta di seguirmi ma, essendo io più alto e lui in perdita di velocità e sotto accelerazione, stalla violentemente e per uscire dallo stallo effettua un rovesciamento buttandosi in picchiata. Rimango in quota e, quando tenta di tirare su, salgo e non gli permetto di “impegnarmi”. È mio! Potrei buttarmi su di lui, collimarlo e riprendere quota senza andare in perdita di velocità. Lo raggiungo, mi metto in coda e non lo mollo, dopo alcuni secondi mi affianco e gli faccio cenno di seguirmi e di portarsi all’atterraggio. Quando scendiamo mi viene incontro, si toglie il caschetto e mi chiede come è andata, gli rispondo che non è male, andava tutto bene finché non ha abbassato il muso e perso quota. “Non lo fare mai”, gli dico, “salvo che tu non voglia disimpegnarti ma, se intendi continuare il combattimento, non sarai più in grado di portarti in una posizione di vantaggio”. “È stato un bel combattimento!”, risponde, e mi invita al Circolo della Squadriglia.

Una missione speciale oltremare
Il 2 agosto mentre sto discorrendo con il s.ten. Franceschi entra il cap. Cozzi e mi dice di presentarmi a rapporto dal col. Moore. Mi avvio verso la palazzina Comando e salgo al primo piano dov’è l’Ufficio del Personale. Il Colonnello mi vede, mi invita nell’ufficio e mi comunica che la mia richiesta di trasferimento al 2° Stormo non è stata accettata. Era già al corrente che avevo rinunciato ma da quando il col. Bonola ha lasciato il Comando, mi confida, le cose sono un po’ cambiate e aggiunge che in futuro se avrò bisogno di qualcosa, potrò rivolgermi a lui che provvederà a riferire a Sua Altezza Reale. È ora di pranzo e mi avvio verso la mensa Sottufficiali, ma prima salgo nella mia cameretta per cambiarmi e indossare l’uniforme, è obbligatorio pranzare in divisa. Mentre stiamo mangiando nella sala mensa entra l’ufficiale di giornata accompagnato da un maresciallo, quest’ultimo ordina l’attenti. Tutti scattiamo in piedi, l’ufficiale ci invita a star comodi e ci chiede di prestare la massima attenzione a ciò che sta per dirci. Si scusa di disturbarci durante il pranzo, ma esegue un ordine del Comando di Stormo. Si rivolge ai piloti e agli specialisti, dobbiamo recarci davanti alla palazzina Comando del 4° Stormo per una importante comunicazione. Alcuni colleghi dicono che sarà per i soliti discorsi noiosi del col. Retinò, comandante dello Stormo. Alle 13 siamo di fronte al Comando, il personale di ogni squadriglia è allineato con i capitani di Squadriglia in testa e i comandanti di Gruppo davanti ai comandanti delle rispettive tre squadriglie. Arriva il colonnello Retinò, i comandanti di Gruppo ordinano l’attenti, fanno rapporto al Colonnello, presentano la forza e infine riprendono il loro posto davanti allo schieramento. Il Colonnello inizia il discorso dicendo che l’Aviazione Italiana è considerata tra le più prestigiose e i suoi piloti fra i migliori, che hanno svolto un ottimo lavoro in Africa Orientale e ora una nuova missione ci attende: “Voi tutti siete a conoscenza della situazione creatasi in Spagna. Il “Frente Popular” andato al potere in febbraio, anziché placare le tensioni sociali e politiche, le ha fatte degenerare in un crescendo di violenze incontrollabili. Il 17 luglio, gli alti gradi dell’Esercito hanno attuato una rivolta per rovesciare il Governo. Il generale Francisco Franco guida dal Marocco il ‘solevamiento’ e ha chiesto aiuto ai Governi Italiano e Tedesco per un contributo di materiali e uomini. La Francia, la Russia e l’Inghilterra appoggiano il Governo repubblicano”. E conclude: “Il Ministero dell’Aeronautica ha inviato una comunicazione urgente allo Stormo affinché vengano reclutati volontari disposti a combattere in Spagna a fianco dei Nazionalisti del gen. Franco. Coloro che intendono offrirsi volontari facciano tre passi avanti e formino un gruppo alla vostra destra!”. Non esito un istante, ed essendo nella prima fila faccio i tre passi in avanti e mi porto sul lato destro. Siamo una ventina in tutto a offrirci volontari e, mentre ci avviamo verso il punto indicato, il Colonnello ci guarda negli occhi soddisfatto della nostra scelta. Fra quelli della nostra Squadriglia c’e’ il cap. Dequal, mi passa un braccio sulla spalla, lo guardo e mi sussurra “Bravo!”. Sono sorpreso nel constatare che non ci sono fra noi quei piloti che sembravano i più esuberanti. Quando tutti coloro che si offrono volontari sono usciti dalla fila, Dequal mi dice che per il momento solamente sei piloti del 4° Stormo saranno scelti per questa “missione speciale”. Altri piloti e specialisti del 1° e 6° Stormo giungeranno tra breve qui a Gorizia per formare la prima spedizione. Mi confida che sarà lui a effettuare la scelta dei piloti che partiranno e che io sarò fra questi. Saprò successivamente dal t.col. Moore che Sua Altezza Reale, nel caso mi fossi offerto volontario, ha dato disposizione che fossi fra i primi a partire. Il t.col. Moore ordina ai due comandanti di Gruppo di far rompere le righe e prima raccomanda loro di informare tutti i presenti che quanto comunicato deve essere considerato “segretato”. Poco dopo veniamo informati che il gruppo prescelto comprende il cap. Dequal, il ten. Monico, il serg. Avvico, il serg. Salvadori, il serg. Castellani e il sottoscritto. Un altro gruppo di piloti verrà formato domani mattina. Immediatamente vengono annullati tutti i permessi, non possiamo lasciare la base, i colleghi sposati sono autorizzati a contattare telefonicamente la famiglia senza menzionare la partenza per la Spagna. Avvico ha un permesso speciale per vedere sua moglie e i due bambini che vivono a Trieste e deve rientrare domani mattina con il primo bus. Tutto il corredo militare ed eventuali effetti personali debbono essere consegnati al magazzino vestiario dove verranno custoditi fino al nostro ritorno. Dagli abiti civili debbono essere tolte le targhette indicanti il sarto o la ditta che li ha confezionati, non dobbiamo portare con noi alcun documento di riconoscimento al di fuori di quello che ci verrà consegnato più avanti. Il Maggiore, Comandante di Gruppo, verifica che tutti gli ordini siano stati eseguiti in conformità alle disposizioni e infine siamo liberi di andare al Circolo Sottufficiali. Incontro Aldo Ferrulli, mi confida che non si è offerto volontario perché ritiene di non essere ancora sufficientemente addestrato, è arrivato da poco allo Stormo. È stata una scelta giusta, gli dico, avrà altre occasioni con le prossime missioni.

La visita a Gorizia di Ada e Linda
Siamo impegnati in una partita a ramino con altri due colleghi quando il sottufficiale di servizio all’ingresso si avvicina al nostro tavolo e ci comunica che due ragazze di Trieste chiedono di Ferrulli e di me. Mi ricordo che Ada aveva promesso che in settimana sarebbe venuta a Gorizia a trovarmi in aeroporto, dico ad Aldo che sicuramente sono loro, Ada e Linda. Usciamo dal Circolo e ci avviamo verso il Corpo di Guardia: quando entriamo l’Ufficiale di Giornata sta conversando con loro, Ada mi vede e mi viene incontro gettandomi le braccia al collo e mi bacia, poi ringrazia l’ufficiale che saluta e si ritira nel suo ufficio. Le dico che mi fa piacere sia venuta a trovarmi perché non avrei potuto lasciare l’aeroporto: sono consegnato. Mi chiede se sono stato punito, la rassicuro che non è così, le spiego che il provvedimento non è una punizione. Propongo ad Aldo Ferrulli di fare quattro passi lungo il viale della base, Aldo suggerisce che potremo stare più tranquilli alla Mensa dei Sottufficiali, lì nessuno ci disturba. I camerieri hanno già pulito il locale, ci sediamo a un tavolo discosto dall’ingresso, chiedo a un cameriere che ci porti qualcosa da bere e ritorna con delle aranciate. È giunto il momento di mettere al corrente Ada della mia prossima “missione speciale”, non posso menzionare la destinazione anche perché io stesso non la conosco. Inizio dicendole che il mio trasferimento al 2° Stormo è stato annullato, pensando che ciò la possa consolare di quanto le dirò successivamente. Aldo intuisce che Ada vuole stare sola con me e con una scusa va al Circolo con Linda. “Non starò via per molto, solo qualche mese”, dico, “e quando tornerò farò in modo di sposarti!”. Gli occhi di Ada si inumidiscono, una lacrima le scende lungo la guancia, gliela asciugo e le rammento la promessa davanti all’altare della chiesa di S. Antonio, a Trieste. Aldo e Linda tornano e insieme andiamo a passeggiare lungo i viali dell’aeroporto, ci sediamo su una panchina ma c’è troppo movimento di avieri e ci spostiamo in un angolo più tranquillo. Chiedo ad Ada il suo indirizzo, il mio glielo farò avere una volta giunto a destinazione. L’autobus per Trieste parte alle 17.45, manca poco più di un’ora. Torniamo al Circolo, nella sala per gli ospiti. Alcuni colleghi incuriositi dalla presenza di due belle ragazze vorrebbero intrattenersi con noi, ma tagliamo corto e li salutiamo. Arriva Avvico con il bagaglio a mano pronto per prendere il bus, lo presento ad Ada e a Linda e dico che farà loro compagnia durante viaggio poiché ha la famiglia a Trieste e che è uno dei colleghi prescelti insieme a me per la “missione speciale”. Avvico si allontana per andare al bar e quando torna è ora di avviarci alla fermata del bus, che arriva in perfetto orario. Ada è commossa, trattiene le lacrime a stento, la spingo dietro la garitta del posto di guardia e la bacio appassionatamente. Prima di salire, le asciugo con il fazzoletto le lacrime e le dico: “Non lo laverò fino a che non sarò di ritorno”. Sorride e sale per ultima e dal finestrino agita la mano salutandomi. Il bus si avvia, lo seguo con lo sguardo finché svolta in prossimità dell’ingresso Sud del campo, in prossimità di Merna, mi prende un tale scoramento che mi sembra di perdere una parte di me stesso. Sono ancora assorto, con lo sguardo fisso nel punto ove il bus è scomparso quando la mano di Ferrulli mi scuote la spalla: “Andiamo a finire la partita di ramino”, mi sussurra. Riprendo il gioco, ma la mia mente è altrove, non riesco a concentrarmi, prima di ritirarci nelle nostre stanze passiamo al Circolo dove chi ha vinto offre da bere.

Le istruzioni prima della partenza
Il mattino successivo l’ufficiale di giornata ci comunica che coloro che sono in partenza per la Spagna debbono presentarsi alle 9.30 davanti al Comando di Stormo. Avvico arriva alle 7.30 con il bus da Trieste, lo metto al corrente dell’ordine, incontro Fantoni e Salvadori e ci avviamo verso il Comando. Il cap. Dequal è già lì col gruppo di piloti e meccanici giunti da Udine, è l’ufficiale più anziano e fa l’appello, ci presenta ad alcuni ufficiali che escono dal Comando e poi si mette sull’attenti, in fila con noi. Gli ufficiali ci istruiscono sulla missione: ci raccomandano di dire che siamo un gruppo di studenti in viaggio d’istruzione, ci verranno rilasciati passaporti con nuovi nomi. Non si vuole mettere in difficoltà il Governo italiano nei confronti della Lega delle Nazioni nel caso di cattura di uno di noi e conseguente indagine della Commissione di Non Intervento. I passaporti ci verranno consegnati quando arriveremo a destinazione, dove ci saranno affidati i CR32 provenienti direttamente dalla FIAT di Torino e che viaggeranno sulla nostra nave. L’altro ufficiale ci parla della Spagna, è stato addetto aeronautico all’Ambasciata italiana di Madrid, ci spiega perché andiamo a combattere: “Da quando sono andate al potere le forze di sinistra, comunisti, anarchici e sindacati, le tensioni sociali e politiche non si sono placate ma sono degenerate in un crescendo di violenze. Il governo repubblicano, essendo democraticamente eletto, trova l’appoggio di Francia, Gran Bretagna e Russia. L’Italia sente il dovere di impedire che l’Europa diventi un impero comunista”. Ci viene comunicato infine che prenderemo il treno delle 18, ci sarà una carrozza a noi riservata e dovremo indossare abiti civili. Siamo sottoposti ad accurati controlli per accertare che non portiamo indosso alcunché in grado di tradire la nostra appartenenza all’Aeronautica Italiana.

L’incidente di Vigini e Fusacchia, l’intervento del Duca
Nel frattempo l’attività della Caccia e della Ricognizione continua intensa sull’aeroporto, il 21° Stormo sta ricevendo proprio in questi giorni i nuovi Ro.37 bis. Il mattino del 5 agosto, mentre stiamo ascoltando le ultime istruzioni per la missione impartite da alcuni ufficiali, un aereo della Ricognizione ci sorvola più volte. Alzo lo sguardo per vedere se è della mia vecchia 41ª Squadriglia. Sua Altezza Reale è appena arrivato e si sta intrattenendo con i due ufficiali, poi si avvicina a noi e scambia alcune parole con i colleghi appena giunti da Udine per unirsi alla missione. Mentre sta parlando l’aereo compie delle evoluzioni sulle nostre teste e poi vira per portarsi all’atterraggio, tocca terra regolarmente ma poi improvvisamente e inspiegabilmente capotta e prende immediatamente fuoco. Sua Altezza Reale corre verso la sua vettura che è nelle vicinanze e dirige verso il luogo dell’incidente, salta in corsa dal mezzo e corre verso l’aereo insieme al suo Ufficiale d’Ordinanza, il cap. Marco Larcher. L’autista si avvicina dal lato sopravvento, meno aggredito dalle fiamme, e allunga le braccia all’interno dell’abitacolo per slacciare le cinture di sicurezza e estrarre il pilota. Arriva di corsa anche il cap. Giuseppe d’Agostinis (togliere il s.ten. Antonio Duma), il pilota è un tizzone ardente con le carni insanguinate e bruciate, la scena è macabra. Giunge l’autoambulanza, il Duca fa togliere i pantaloni a due avieri e li passa sotto il corpo del pilota per sollevarlo e adagiarlo sulla barella: è il s.ten. Vincenzo Vigini che, conscio della sua prossima fine, chiede di non essere trasportato in ospedale e di essere lasciato morire vicino al suo aereo. Gli addetti si prodigano a estrarre dal posto dell’osservatore l’altro corpo, che è incastrato dall’arcone della mitragliera e che risulta fin da subito gravemente ferito: è il serg.m. Fusacchia, non c’è molto da fare per lui, ha fratture alla testa e in altre parti del corpo, perde sangue dal naso, dagli orecchi e dagli occhi. Non più cosciente e praticamente già morto, viene comunque trasportato all’ospedale. Sua Altezza Reale è medicato nell’infermeria dell’aeroporto per le ustioni procuratesi alle mani. Per questo suo atto gli verrà concessa la medaglia d’Argento.

Il saluto del Duca
Sua Altezza Reale resta in aeroporto per il resto della giornata, desidera essere presente alla nostra partenza. Alle 16 dobbiamo presentarci al Comando di Stormo e siamo tutti invitati nel suo ufficio. Ci disponiamo in circolo nella stanza, il cap. Dequal ci ordina l’attenti, Sua Altezza ci invita a stare comodi e ci rivolge un breve discorso. Ci augura che Dio ci protegga e ci invita a tenere alto il buon nome dei piloti italiani, con onestà e coraggio, è spiacente di non poter stringerci la mano a causa delle ustioni e conclude dicendo che saremo costantemente nel suo pensiero. Chiama il t.col. Moore e lo invita a consegnarci le pistole che ci sono state assegnate; quando è il mio turno, prima che il t.col. Moore mi consegni la pistola, S.A.R. si rivolge in inglese: “Keep up the good work like you’ve been doing. Never get discouraged if you think that you are alone, at times” (“Continua così, come hai fatto fino ad ora. Non ti scoraggiare se ti capiterà di sentirti solo”). Ringrazio e ritorno al mio posto. Dopo il breve incontro, il t.col. Moore chiama l’autista di Sua Altezza e fa portare la vettura davanti al Comando. Prima di lasciare l’ufficio il cap. Dequal comanda gli attenti, il Duca passa in rassegna e prima di lasciarci ci augura nuovamente buona fortuna. Dobbiamo essere pronti per prendere il treno delle 18 e attendere il bus della base che ci accompagnerà alla stazione ferroviaria di Gorizia. Vado al Circolo, dove incontro Aldo Ferrulli. Gli dico che partiamo tra un’ora, mi confida che avrebbe desiderato partire assieme a me, gli rispondo che verrà anche il suo momento. Mi stringe la mano, mi augura buona fortuna e aggiunge “Non preoccuparti per Ada, è una brava ragazza e ti aspetterà”. Anche gli altri colleghi si avvicinano e mi stringono la mano. Arriva il bus e, saliti a bordo, ci dirigiamo verso la Stazione Centrale.

Prima destinazione, La Spezia
Il 5 agosto 1936 veniamo fatti salire su una carrozza riservata che è in sosta su un binario secondario della stazione Centrale di Gorizia, su tutte le porte c’è il cartello “Riservato“. La carrozza viene agganciata in coda al convoglio in arrivo da Trieste. Viaggiamo tutta la notte e al mattino siamo a Genova, da qui partiamo per La Spezia dove arriviamo verso le 10. In tutto siamo dodici piloti, tre motoristi, tre montatori e due armieri. Un bus ci attende e ci porta alla base navale della Regia Marina. Alla mensa ci viene dato da mangiare, ci rechiamo in uno dei magazzini adattato per l’occasione a dormitorio, sono sorpreso per l’efficienza della Marina, tutto è stato predisposto con cura ed è pulito. Ci viene impartito l’ordine tassativo di non allontanarci dall’area circostante gli alloggi salvo per consumare i pasti; tuttavia, dopo aver scelto il mio posto, vado a dare un’occhiata in giro. Ci sono degli incrociatori ancorati nel porto e altre navi da guerra e molta attività tutt’intorno. In fondo a una banchina noto una fila di cinque CR32 smontati, alcuni a terra e altri ancora sugli autocarri. Mi sento chiamare per nome dall’autista di un autocarro che ha appena scaricato le ali e altri pezzi. È Selardi, una vecchia conoscenza della Scuola di Volo di Grottaglie, balza giù e si avvicina per salutarmi. Mi racconta che è in servizio all’aeroporto di Pisa ed è stato incaricato di scortare gli aerei a La Spezia, ne stanno smontando altri cinque o sei e arriveranno con un convoglio questa notte. Mi chiede dove sia diretta la squadriglia, gli rispondo che stiamo andando a Tripoli per formare un nuovo stormo. Lo richiamano dall’autocarro, ci stringiamo la mano, ci salutiamo e ritorno negli alloggi. Il ten. Monico ha ottenuto il permesso di uscire dalla base per fare acquisti, ritorna con un giradischi e alcuni dischi, contribuiamo alla spesa affinché appartenga a tutta la Squadriglia. Alcuni dischi sono in inglese, “Lullaby of Broadway”, “Tea for two” e “Dancing cheek to cheek” che ho ascoltato per la prima volta al “Castello di San Giusto”, a Trieste, ballando con Ada. Andiamo a dormire presto perché l’arrivo della nostra nave è previsto durante la notte. Sveglio i colleghi che è ancora buio, la nave è già attraccata alla banchina accanto ai velivoli parcheggiati, andiamo a mangiare qualcosa alla mensa. Quando giungiamo alla banchina sono già iniziate le operazioni di carico degli aerei, avvicinandomi alla nave noto che è una carboniera e che sulla fiancata è dipinto il nome “Nereide”. Vedo il cap. Dequal intento a seguire le operazioni, lo chiamo col suo nome di copertura: “Signor Limonesi, posso aiutare gli addetti al carico dei velivoli?”. Mi chiede se ho idea di come si fa. “L’ho visto fare negli U.S.A. nel cantiere navale di Minneford e credo di essere in grado di farlo”, rispondo, e il cap. Dequal mi autorizza. Indosso la mia tuta bianca di volo, salgo sulla fusoliera del primo aereo e aggancio la fune del paranco al supporto della sezione centrale, dietro al motore. Mi invitano a scendere, ma rispondo di non preoccuparsi e di sollevare. Mi assicuro alla fune del paranco e il velivolo viene lentamente sollevato e poi calato verso il boccaporto, faccio segno di procedere lentamente mentre ci avviciniamo al boccaporto, interrompiamo la manovra perché è necessario ruotare l’elica in posizione verticale, chiedo di farlo a uno degli addetti. Il velivolo riprende la discesa nella stiva, faccio attenzione che non urti i bordi del boccaporto, continua a scendere lentamente e, raggiunto il fondo della stiva, viene sganciato e fissato con delle funi per evitare movimenti nel caso si incontri mare agitato. Noto che il pavimento della stiva è ricoperto di polvere di carbone e faccio presente al cap. Dequal che sarebbe opportuno proteggere gli scarichi e le prese d’aria dei carburatori inserendovi degli stracci. Il cap. Dequal chiama il caposquadra e gli dice di provvedere in merito. Portano una borsa di stracci puliti e diamo una mano a tappare le prese d’aria e gli scarichi. Sette aerei vengono sistemati nella stiva di prua e cinque in quella di poppa. Viene caricato e sistemato sotto coperta anche il resto dell’equipaggiamento, verso le 15 tutto il materiale è a bordo e il cap. Dequal è soddisfatto: “Vai a farti una doccia e cambiati”, mi dice, “sei mio ospite a cena insieme al ten. Monico”. Ringrazio e vado a fare una doccia calda nonostante la giornata torrida, mi dilungo sotto la doccia, mi riposo un po’ e verso le 17 mi alzo e busso alla camera del cap. Dequal, è già pronto e mi aspetta. Tutti e tre assieme ci rechiamo alla Mensa Ufficiali della Marina, all’interno della Base navale. Il servizio e le pietanze sono eccezionali. “Domani ci imbarchiamo sul Nereide e probabilmente partiremo in giornata per la Spagna”, ci confida Dequal pregandomi di riferire ai Sottufficiali piloti e agli specialisti di tenersi pronti domani mattina. Dopo cena offro loro una delle mie sigarette americane e torniamo negli alloggi a noi riservati. Metto i colleghi al corrente degli ordini e cominciamo a preparare i bagagli, c’è ancora tempo per una partita a poker, ho una mano “servita” e “chiudo”, vogliono vedere le carte e quando le poso sul tavolo rimangono senza parole. I colleghi sono tutti del 1° Stormo, li prendo in giro dicendo che non bisogna mai sfidare quelli del 4° Stormo.

L’imbarco sul Nereide e la partenza da La Spezia
Terminata la partita ci stendiamo sulle brandine e poco dopo, sarà passata un’ora, entra un ufficiale di marina che ci ordina di raccogliere tutte le nostre cose e di vestirci in fretta. Siamo pronti in pochi minuti. Arriva il cap. Dequal assieme agli altri nostri tre ufficiali, li seguiamo e in piena notte ci imbarchiamo, veniamo alloggiati due per cabina. Io sono insieme a Magistrini, un ottimo compagno. Dequal, Monico, Ceccherelli e Cenni dividono le cabine con gli ufficiali di bordo. Sistemiamo velocemente le nostre cose e ci infiliamo nelle cuccette assegnate e riprendiamo a dormire. Ho qualche difficoltà a prendere sonno, penso ai miei familiari e ad Ada. Mi assopisco e vengo risvegliato dai motori della nave che fanno vibrare la cuccetta, mi alzo e scruto dall’oblò, sta albeggiando e scorgo in lontananza la costa italiana. Sveglio Magistrini e gli dico che siamo in mare aperto, guarda anche lui dall’oblò e osserva che siamo in navigazione da almeno sei ore. Avvico e Berillo vengono a trovarci nella nostra cabina, anche loro si sono appena svegliati e accorti che siamo in viaggio da ore. Guardo l’orologio, sono le nove passate. Mi lavo e vado in cambusa, saluto il cuoco, mi presento e chiedo se è possibile avere del caffè e del pane, mi porge una tazza e, indicandomi il bricco del caffè aggiunge: “Serviti da solo!”. Va poi verso un grande frigorifero, tira fuori una torta e ne taglia un pezzo, “Mangia alla svelta”, dice, “è il dessert del Comandante”. Lo ringrazio e vado a sedermi con i colleghi davanti al boccaporto anteriore. Poco dopo arriva il cap. Dequal, ci chiama a raccolta, è soddisfatto, abbiamo fatto un ottimo lavoro collaborando alle operazioni di carico e si augura che continuiamo a operare sempre così sia a terra che in volo, lavorando in perfetto accordo. Infine ci ringrazia e ci presenta al Capitano, all’Ufficiale di macchina e agli altri undici membri dell’equipaggio. Ci comunica che siamo diretti a Cagliari, in Sardegna, e che “Potrete sbarcare ma ricordatevi che, nel caso sia necessario fornire vostri nomi, dovete dichiarare solo ed esclusivamente quelli falsi assegnativi e dichiarare che siete imbarcati su una nave carboniera”, e aggiunge “Siamo in attesa di ordini dal Ministero dell’Aeronautica e, circa la destinazione finale ne so quanto voi, l’unica cosa certa è che siamo diretti in Spagna”. Parlando dell’evolversi della situazione in Spagna ci mette al corrente delle poche notizie che giungono tramite la radio di bordo: “Il gen. Francisco Franco con i militari unitisi a lui è in Marocco e si sta preparando a sbarcare sul continente con l’appoggio dei nostri S81”.

La sosta nel porto di Cagliari
A Cagliari non siamo subito autorizzati a sbarcare e dobbiamo attendere fino alla sera dopo cena. Scendiamo insieme ad alcuni membri dell’equipaggio, entro in un caffè e acquisto delle cartoline che invio a mio padre e a mio fratello in Cina e naturalmente pure ad Aldo e ad Ada. Non rimango molto a terra, ho fame e ritorno a bordo, in cambusa chiedo al cuoco se posso aiutare a riordinare e pulire e se c’è qualcosa da mettere sotto i denti. “Attendi un attimo”, mi risponde. Nel frattempo vado nella mia cabina, che si trova a pochi metri dalla cambusa, nel mio bagaglio ho due stecche di sigarette Chesterfield, prendo due pacchetti e torno nella cambusa. Il cuoco mi chiede se gradisco qualcosa di freddo, annuisco, va nella cella frigorifera, ritorna con una porzione di gelato e me la porge. Gli chiedo se debbo pagare, scuote la testa: “Lascia perdere, assaggia invece e dimmi se ti piace”. Effettivamente è un ottimo gelato, glielo dico e tolgo dalla tasca i due pacchetti di sigarette e glieli porgo: “Questi sono per te!”. Torno in cabina, mi stendo nella cuccetta e fumo una sigaretta. Verso le 22 rientra Magistrini, ha camminato molto, si allunga nella sua cuccetta, scambiamo quattro chiacchiere e poi, nel giro di qualche minuto, si addormenta. Restiamo nel porto di Cagliari per quasi una settimana e non ci viene più permesso di lasciare la nave, trascorriamo il tempo a giocare a carte. Passeggio a lungo in coperta e mi fermo sul lato opposto a quello dov’è ormeggiata la nave a osservare l’attività nel porto, due cacciatorpediniere entrano nel porto, hanno una linea elegante e tutte le luci di bordo sono accese. Quando torno nella mia cabina noto alcune persone conversare con il comandante della nave, faccio in tempo a sentire che vengono da Roma e che debbono consegnare dei documenti, hanno con loro due grosse borse di pelle. Una decina di minuti più tardi escono dalla sala comando salutando il comandante, augurano buona fortuna al cap. Dequal e vengono aiutati a lasciare la nave.

La partenza da Cagliari
Trascorsa circa mezz’ora la nave toglie gli ormeggi e lascia la banchina, siamo di nuovo in navigazione. Abbiamo lasciato da poco il porto e il cuoco suona la campana per annunciare che la cena è pronta, siamo tutti raccolti nell’angusta sala da pranzo e mentre si mangia si discute su quella che sarà la nostra destinazione. Qualcuno dice che stiamo navigando verso un porto dell’Atlantico, tutti invece concordano che sbarcheremo in Spagna. Quando stiamo terminando la cena il cap. Dequal ci confida che ha ricevuto un plico con gli ordini da Roma per il comandante della nave e tutti noi: la busta deve essere aperta quando saranno trascorse sedici ore dalla partenza da Cagliari e cioè a mezzogiorno di domani. Finita la cena alcuni colleghi si soffermano a discutere sulla nostra destinazione, li lascio e vado a riposare sulla mia brandina, sfoglio una vecchia rivista e dalla cabina accanto mi giunge una musica familiare, “Dancing cheek to cheek”, è il grammofono del ten. Monico. Durante la notte incontriamo mare mosso e la nave rolla per ore, alcuni colleghi soffrono il mal di mare, rimedio loro un paio di limoni consigliandoli di succhiarli insieme a del pane secco e di non toccare altro cibo. Io non ho problemi a dormire: il rollio, tutto sommato, mi concilia il sonno. Al mattino il mare finalmente si calma, il cap. Dequal ci chiede di aprire il boccaporto e di scendere nella stiva per ispezionarla e verificare che i velivoli siano ancora assicurati saldamente al pavimento e che non abbiano subito danni per il mare mosso, lui farà la stessa cosa dall’altro boccaporto. Scendono con noi nella stiva anche due marinai, ispezioniamo accuratamente tutto e poi risaliamo, chiudiamo i boccaporti e rimaniamo in coperta fino all’ora di pranzo. Non pensavo si potesse mangiare così bene a bordo di un mercantile, non deve essere facile per il cuoco destreggiarsi con quello che ha a bordo. Ci viene servito riso con pezzi di pollo e funghi, per secondo una bistecca con patate fritte, frutta, torta, vino dolce speciale, caffè e digestivo. Ci complimentiamo con il cuoco per l’eccellente pasto e lui, soddisfatto, risponde che è il pranzo della domenica. Da quando ho lasciato Gorizia ho perso la cognizione del tempo, non mi ero reso conto che fosse domenica. Le ore trascorrono lentamente, passeggio a lungo sulla nave per fare un po’ di movimento.

L’apertura del plico con gli ordini di Roma
Alle 14.30 il cap. Dequal ci convoca tutti in coperta per aprire in nostra presenza il plico consegnatogli dai due inviati del Ministero, con noi c’è anche il Comandante della nave. All’interno del plico sigillato ci sono due buste, la prima è per il Comandante che ne legge il contenuto e ce lo riassume: “La nave farà rotta per il Marocco Spagnolo e approderà a Melilla dove il gen. Francisco Franco sta raccogliendo le forze che si sono unite a lui”. Il cap. Dequal legge la sua lettera: “La Squadriglia comandata dal cap. ‘Limonesi’ quando giungerà a destinazione si metterà a disposizione del Comando spagnolo, in attesa di ulteriori istruzioni dalle autorità italiane”. Ora la nostra destinazione è finalmente nota, i colleghi discutono di quello che ci aspetta, me ne esco augurandomi che si stia meglio che in Etiopia e scopro che sono l’unico a essere stato in Africa e l’unico che abbia partecipato a missioni belliche all’estero. Un paio di colleghi mi chiedono di raccontare come andavano le cose laggiù e vogliono consigli sul da farsi. “Decideremo sul momento!”, rispondo. Abbiamo ancora cinque giorni di navigazione per arrivare a Melilla, l’operatore radio di bordo capta le emissioni di Radio Algeri, un nostro Savoia Marchetti S81 è stato costretto a un atterraggio forzato su una spiaggia del Marocco francese, l’equipaggio è stato internato. L’aereo, dotato di completo equipaggiamento bellico, era destinato alle Forze di Franco e del fatto viene subito a conoscenza la Lega delle Nazioni, è la prova che l’Italia fornisce aerei e piloti al gen. Franco. Mi viene in mente un detto nella mia lingua: qualcuno ha “rovesciato il secchio del latte”. Il resto del viaggio trascorre piacevolmente, non incontriamo alcuna nave e il tempo è bello, giochiamo a calcio in coperta facendo naturalmente attenzione che il pallone non finisca fuori bordo. Il mattino presto del quinto giorno, venerdì 14 agosto, vengo svegliato di soprassalto dalla sirena della nave, il motore è fermo poiché non sento alcun rumore dalla sala macchine, mi alzo e mi affaccio all’oblò. Di fronte a me appare la città di Melilla, illuminata dal sole che sta sorgendo, mi lavo e mi vesto e corro in coperta. L’equipaggio è già sul ponte intento ad aprire i boccaporti, la nave smaltisce lentamente la sua velocità fermandosi a due miglia dal porto. Il capitano aziona due volte la sirena per chiamare il pilota che dovrebbe guidare la nave nel porto, ma non arriva nessuno. La nave riprende la navigazione autonomamente procedendo con lentezza. Improvvisamente viene verso di noi un aereo, il comandante fa issare a poppa la bandiera italiana, l’aereo dapprima volteggia tenendosi distante, poi sempre più vicino, forse teme che possiamo aprire il fuoco contro di lui. Non vedendo alcuna reazione effettua un passaggio basso e parallelo alla fiancata della nave, agitiamo le braccia per salutare e, probabilmente notata la bandiera italiana, il pilota fa oscillare le ali e si allontana verso la costa. Il comandante procede lentamente verso il porto e manovra per attraccare alla banchina.

L’arrivo a Melilla – 14 agosto 1936
Il molo è affollato di gente e di mezzi in movimento, la nave posa lo scalandrone, salgono a bordo alcuni ufficiali della Capitaneria spagnola e alcuni graduati dell’Esercito che incontrano il comandante della nave e il cap. Dequal. Dopo circa un’ora giungono anche il Console italiano e alcuni alti ufficiali della Legione Straniera Spagnola, ci accolgono con un caloroso saluto e il cap. Dequal ci presenta con i nostri nomi di copertura. Il Capitano elenca il materiale che abbiamo a bordo e loro non celano la soddisfazione per l’estremo bisogno dei nostri velivoli. Ci spiegano che inizialmente temevano fossimo una nave repubblicana in procinto di sbarcare per occupare Melilla e che quando il pilota dell’aereo ha visto la nostra bandiera ha comunicato via radio che si trattava di una nave italiana e l’allarme è cessato. Il Console italiano ci informa che l’intervento italiano non è più segreto da quando un nostro bombardiere S81 ha effettuato un atterraggio d’emergenza sul suolo del Marocco francese e gli aiuti militari alle truppe del gen. Francisco Franco sono divenuti palesi. Il cap. Dequal risponde che siamo già al corrente della notizia, pervenutaci dall’operatore radio di bordo che ascoltava le stazioni a onde corte. Il Console consegna infine al cap. Dequal alcuni fogli con le disposizioni, lui le legge in silenzio e, alzando lo sguardo verso noi, ci comunica “Gli aerei debbono essere sbarcati immediatamente e trasportati sull’aeroporto di Nador, nei pressi di Melilla. A Nador verranno assemblati e terminati i voli di collaudo, riceveremo ulteriori ordini”. Facciamo colazione tutti insieme e poi il cap. Dequal dà il via alle operazioni di sbarco dei velivoli dalle stive. Al ten. Monico viene assegnato il compito di sovrintendere alle operazioni in prossimità del boccaporto principale mentre l’equipaggio della nave, due nostri piloti e il sottoscritto ci prodighiamo per sbarcare gli aerei dalla stiva e posarli sul molo. Vengono utilizzati per le operazioni due argani, mentre uno provvede a estrarre il velivolo dalla stiva l’altro argano cala il cavo e l’equipaggio lo fissa sul velivolo successivo. Il mio compito è di stare a cavalcioni della fusoliera e guidare l’operatore dell’argano così che il velivolo esca dalla stiva, senza urtarne i bordi. In meno di tre ore tutti gli aerei sono sbarcati e quattro sono già imbracati sugli autocarri che attendono allineati lungo la banchina. Vengono scaricati anche gli imballaggi contenenti le ali, i timoni e altri accessori, il tutto senza il minimo inconveniente e in tempo record. Quattro autocarri adibiti al trasporto dei velivoli sono giunti dai depositi del Comando della Legione Straniera e su ognuno prenderà posto un pilota che seguirà le operazioni fino all’aeroporto di Nador. La coda dei velivoli viene fissata con funi nella parte posteriore degli autocarri affinché non possa essere danneggiata durante il trasporto. È prevista anche la presenza di una guardia armata su ogni mezzo nonostante che il percorso dal molo all’aeroporto, attraverso la città di Melilla, sia di soli quattro chilometri. In aeroporto, informato del nostro arrivo, viene a farci visita il col. Bonomi, Comandante della Aviazione Italiana in Spagna. Rientriamo infine a bordo della nave per l’ultima volta, il cuoco ha rimediato della verdura fresca mentre noi sbarcavamo gli aerei e ha preparato un pranzo con i fiocchi in nostro onore. A tavola il cap. Dequal ci dà le ultime istruzioni prima di lasciare la nave e conclude invitandoci a prendere i nostri bagagli e a salire sui due autobus che ci porteranno all’aeroporto, dove ci verranno assegnati gli alloggi.

Arruolati nella “Legione Straniera”
Dopo aver sistemato le nostre cose in aeroporto e cenato ci rechiamo in serata a Melilla dove veniamo tutti arruolati nella “Forza Aerea della Legione Spagnola” e, terminate le procedure di arruolamento, ritiriamo le nuove uniformi insieme ad altre dotazioni e ad alcuni pacchetti di sigarette “Bisonte”, molto simili alle Lucky Strike. Avevo spesso sentito parlare o letto della Legione Straniera ma mai e poi mai avrei immaginato di finirvi arruolato! Rientriamo in tarda serata in aeroporto con gli autobus messi a disposizione e ci rechiamo direttamente nei nostri nuovi alloggi dove troviamo il bagaglio ai piedi del letto e sopra il cuscino un biglietto con il nostro nome. Mentre siamo intenti a sistemare gli effetti personali negli armadietti entra il cap. Dequal in divisa da “capitano” della Legione Straniera, accompagnato da un capitano spagnolo al quale veniamo presentati. Il cap. Dequal ci spiega i provvedimenti che intende adottare per evitare che qualche nostro velivolo cada in mano ai Repubblicani. Il capitano spagnolo chiede se qualcuno di noi ha esperienze di guerra in Africa e il cap. Dequal mi indica dicendogli che ho combattuto in Etiopia. L’ufficiale spagnolo mi guarda meravigliato e mi chiede l’età. “Ventidue anni e sei mesi”, rispondo. Mi sorride e mi batte la mano sulla spalla. Prima di andarsene il cap. Dequal ci informa che l’appello è domani alle 6, ci sarà poi la colazione e infine l’adunata davanti all’hangar per aiutare montatori e meccanici nell’assemblaggio dei velivoli. Più tardi il cap. Dequal ritorna accompagnato dal ten. Monico, mi chiama complimentandosi per il buon lavoro fatto durante le operazioni di sbarco e di trasferimento degli aerei dalla nave all’aeroporto. Quando escono mi tolgo gli abiti civili e, visto che da ora in poi indosserò solo la nuova uniforme, li ripongo nella borsa a mano. Sono molto stanco e mi stendo sulla brandina, i colleghi mi chiedono se mi unisco a loro per una partita a carte, preferisco rimanere solo a fissare il soffitto, assorto nei miei pensieri e con la nostalgia di Ada.

Tutti al lavoro per assemblare i CR32
Il giorno dopo la sveglia è all’alba, l’orario di lavoro a Nador è stressante, dalle 5.00 alle 19.00 con una sosta di 90 minuti per il pranzo, indossiamo le tute di volo che sono leggere e permettono di sopportare meglio il gran caldo che fa nelle ore centrali della giornata. Dopo una veloce colazione con una tazza di caffè, ci rechiamo nell’hangar dove qualche minuto più tardi ci raggiunge il ten. Monico che all’arrivo del cap. Dequal ci ordina l’attenti e riferisce che siamo tutti presenti. Apriamo l’hangar e spingiamo fuori la fusoliera del primo aereo e provvediamo a lavarla dalla polvere di carbone che si è posata durante il viaggio nella stiva. Con il caldo che fa non c’è bisogno di asciugarla e ora sembra nuova. Lavate le tre fusoliere, inizia l’assemblaggio delle ali e della coda, ogni componente è contraddistinto dal numero di matricola del velivolo cui appartiene. A ognuno di noi è assegnata una mansione e in quattro giorni vengono assemblati, controllati e riforniti sei velivoli. Sono pronti per il volo di collaudo, sono state installate anche le armi automatiche di bordo, due Breda Safat da 7.7 mm, fornite di un munizionamento di 450 proiettili ciascuna. Probabilmente a causa della fretta e della segretezza, al momento della partenza dall’Italia, negli imballaggi dei vari componenti dei velivoli sono state inserite solamente due bussole, la cui mancanza, sommata alla mancanza di carte aeronautiche della Spagna, comporterà non pochi problemi. Finalmente posso permettermi di andare una sera a Melilla per conoscere questa piccola città marocchina, graziosa e pulita, dove la gente si mostra disponibile e gentile quando sente parlare italiano. Entro un negozio per acquistare delle sigarette, al momento di pagare il proprietario dice che non debbo nulla, il conto è già pagato, chiedo chi ha pagato, sorride e risponde: “Un tuo amico”. Mi guardo attorno, non c’è nessuno, e lui: “Il popolo spagnolo è il tuo amico!”. Lo ringrazio.

Gli aerei sono finalmente pronti
Rientro in aeroporto e, giunto nei nostri alloggi, vengo a sapere che sono arrivate disposizioni per il cap. Monico e per il ten. Ceccherelli affinché domani mattina, 17 agosto, decollino con altri due piloti ciascuno con destinazione Tetuan, dove saranno riforniti per la traversata dello Stretto di Gibilterra, alla volta di Siviglia. Vengono designati sei piloti. Io non sono fra questi, debbo attendere che tutti gli aerei siano collaudati e con il cap. Dequal li raggiungeremo a Siviglia in un paio di giorni. Il mattino successivo assistiamo il gruppo prossimo alla partenza e quando tutto è stato più volte controllato viene data l’autorizzazione alla partenza. Una volta decollati e ricongiunti in volo, effettuano il consueto passaggio in formazione sull’aeroporto per poi mettere la rotta su Tetuan. Li seguo finché scompaiono all’orizzonte e poi vado nell’hangar ad aiutare gli specialisti ad assemblare gli ultimi aerei, uno è già pronto e deve effettuare il “volo officina”. Il cap. Dequal riceve l’ordine di inviare il primo aereo disponibile a Siviglia con il ten. Monico mentre la sera stessa, a cena, dà disposizioni al serg. Presel di preparare i suoi effetti, dovrà collaudare un aereo al mattino e se tutto è regolare o se c’è solo da effettuare qualche intervento minore partirà subito. In mattinata Presel decolla per Siviglia e così a Melilla sono rimasti ancora quattro aerei da assemblare. Parte degli specialisti è partita per Siviglia con uno Ju52 e l’assemblaggio degli ultimi velivoli procede a rilento, saranno pronti per il trasferimento sul continente solo dopo cinque giorni. Il 20 agosto il mio velivolo è pronto e vado in volo per il collaudo, sia la cellula che il motore rispondono correttamente, unico inconveniente è una accentuata tendenza a virare a destra in volo stabilizzato, rientro e il montatore interviene sull’aletta compensatrice. Riparto e ora l’aereo è perfettamente bilanciato. Il munizionamento non è ancora installato e con l’aereo più leggero colgo l’occasione per effettuare qualche figura acrobatica sul campo. Manovrare con il CR32 è un piacere, risponde docilmente ai comandi e la potenza è esuberante, i minuti corrono veloci. Quando sono in sottovento e mi appresto all’atterraggio noto che il personale dell’aeroporto ha sospeso il lavoro ed è sul piazzale con lo sguardo rivolto al cielo. Mentre sorvolo il limite esterno del campo, a meno di un centinaio di metri di quota, abbasso il muso, do tutto motore e punto sul gruppo di persone che sul piazzale mi stanno osservando. Quando gli sono sopra inclino lateralmente l’aereo di novanta gradi e contemporaneamente tiro violentemente la cloche, sono schiacciato sul seggiolino, in una stretta virata a coltello di 360 gradi con la punta dell’ala più bassa a circa sei piedi dal suolo. Quando sono di nuovo sopra il personale dell’aeroporto, cabro mettendo l’aereo quasi in piedi e poi con una spedalata giro sull’ala, abbasso il muso, tolgo motore e mi trovo nella posizione ideale per l’atterraggio che avviene proprio davanti all’hangar che raggiungo dopo un breve rullaggio. Il capitano spagnolo Haya è sul piazzale e sta conversando con il cap. Dequal, quando scendo e gli passo accanto salutando, si complimenta per le mie evoluzioni mentre Dequal, soddisfatto, esclama “… e con questo abbiamo terminato anche l’ultimo collaudo e siamo pronti!”. Dentro l’hangar un paio di specialisti si avvicinano: “Lo Schneider che ha fatto così basso”, dicono, “visto da terra è stato uno spettacolo”. Andiamo a pranzo e mentre siamo a tavola il cap. Dequal ci comunica che dobbiamo raccogliere tutto il nostro materiale e gli effetti personali, un velivolo da trasporto caricherà il tutto insieme agli specialisti. Verso le 15 atterra un S81, tutti ci diamo da fare per caricarlo, interrompo il lavoro per controllare se sono stati caricati i nastri con le munizioni delle mitragliatrici del mio velivolo. L’armiere mi conferma che ha già provveduto e le ha pure pulite e ingrassate, tutto è a posto, basta armare gli otturatori! Fortunatamente ci ha pensato lui, quando sono atterrato mi ero scordato di dirgli che gli alloggiamenti delle munizioni erano vuoti, non c’erano i nastri! Lo ringrazio e torno ad aiutare i colleghi che nel frattempo hanno quasi ultimato il carico del Savoia S81, sono le 18. Andiamo a lavarci e poi a cena, mi ritiro presto per sistemare le mie cose in previsione della partenza, entra il cap. Dequal per darci gli ultimi aggiornamenti, c’è una bassa pressione e un fronte in arrivo dall’Atlantico, se domani mattina il tempo tiene partiamo.

La partenza da Melilla – Nador
Al mattino l’S81 decollerà per Siviglia con i materiali e il nostro personale tecnico di terra, che verrà sostituito da spagnoli: avremmo preferito avere i nostri specialisti per l’assistenza alla partenza, soprattutto nel caso di eventuali rientri per avaria. Ci dovremo arrangiare da soli, visto che i tecnici spagnoli non conoscono il CR32. Alle 5 del mattino del 24 agosto veniamo svegliati dal rombo dei motori dell’S81 che sono in fase di riscaldamento, rimango sulla brandina ancora qualche minuto in ascolto, è piacevole sentire il suono cupo di questi motori. L’S81 rulla fino in fondo al campo, fa una inversione di 180 gradi e decolla sorvolando i nostri alloggi, mi alzo giusto in tempo per vederlo passare. Noto che ci sono nubi basse e scure, ho il sospetto che non ci siano le condizioni per decollare, speriamo che la base delle nubi si alzi. Faccio la doccia e poi la colazione, mentre mangio arriva il cap. Dequal, si siede accanto a me. Gli chiedo se ci sono novità, mi risponde che “Il decollo è previsto intorno alle 9, se il cielo si apre un po’. Vi sono temporali lungo tutta la costa del Nord Africa, dall’Atlantico ad Algeri”. Gli faccio notare che l’S81, nonostante l’attuale situazione meteorologica, è decollato e mi risponde che il Savoia ha programmato uno scalo a Tetuan prima di attraversare lo Stretto di Gibilterra e forse sarà costretto a tenersi al largo della costa, sull’Atlantico, prima di mettere prua su Siviglia. I repubblicani hanno il dominio del cielo, hanno basi dall’altra parte dello Stretto, nei territori da loro controllati. Gli chiedo se pensa che potremmo incontrare aerei repubblicani lungo la rotta per Siviglia, mi risponde che è possibile. Lasciamo la mensa, mi dirigo verso il mio aereo, controllo che sia rifornito di carburante e verifico nuovamente che i nastri delle mitragliatrici siano installati correttamente. Avvico, Magistrini e Giulietti e io siamo seduti sotto i nostri velivoli quando alle 8.30 arriva il Console italiano, vuol conferire con il cap. Dequal e salutare ognuno di noi stringendoci la mano. Alle 9 il Capitano dà le ultime disposizioni, saliamo a bordo dei velivoli e iniziamo a scaldare i motori. Il cap. Dequal rulla per primo e noi tre lo seguiamo, si porta a fondo campo e gira l’aereo mettendo il muso controvento. Alle 9.15 decolliamo con tutti e quattro i velivoli, circuitiamo sopra l’aeroporto per fare quota e ci congiungiamo per assumere una formazione a diamante. La mia posizione è dietro a Dequal che la guida e quando vede che ho raggiunto la formazione e mi sono stabilizzato punta sul luogo ove abbiamo lasciato il Console e gli ufficiali spagnoli e effettuiamo un passaggio basso alla massima velocità, seguito da una cabrata che ci riporta in quota. Mettiamo la prua per Tetuan, la base delle nubi è a 1500 metri, ci teniamo bene al di sotto. Seguendo la costa marocchina passiamo sopra Al Hoceima, tra Melilla e Tetuan: è uno dei paesaggi più incantevoli dell’Africa, non ho mai visto una vegetazione così verde e rigogliosa. Mi riprometto di visitarla di persona un giorno, se ne avrò l’occasione.

Arrivo a Tetuan
Ci allontaniamo dalla costa e dirigiamo su Tetuan dove effettuiamo uno scalo per rifornirci di carburante. C’è una differenza enorme tra l’aeroporto di Nador, tutto sassi e sabbia, e l’aeroporto di Tetuan, un grande tappeto verde. Rulliamo verso gli hangar, alcuni ufficiali spagnoli ci stanno attendendo e ci danno il benvenuto. Mentre il cap. Dequal è intento a raccogliere informazioni sulle condizioni meteorologiche che potrebbero interessare la nostra rotta, noi verifichiamo che i velivoli vengano riforniti e controlliamo il livello dell’olio e del liquido refrigerante del radiatore, insieme a Magistrini effettuo gli stessi controlli anche sul velivolo del Capitano che si è dovuto recare al Comando d’aeroporto, accompagnato dagli ufficiali spagnoli. Quando il cap. Dequal ritorna ci ringrazia per avergli controllato l’aereo e ci informa che le condizioni meteo sulla Spagna riportano cielo sereno con visibilità illimitata, solamente sullo Stretto c’è copertura nuvolosa ma con la base delle nubi alta. Il Savoia S81 è decollato da due ore e dovrebbe essere a Siviglia più o meno ora. Anche su questo aeroporto non abbiamo nostri specialisti e quelli locali non conoscono il CR32, così nuovamente dobbiamo fare tutto da soli. Per avviare il motore serve l’aria compressa, all’interno della fusoliera c’è un compressore mosso da un piccolo motore a scoppio “Garelli” che carica una bombola, lo mettiamo in moto e, quando c’è la giusta pressione, lo spegniamo e saliamo a bordo, apriamo la valvola dell’aria e avviamo il motore. Quando siamo pronti il cap. Dequal inizia il rullaggio e ci fa segno di seguirlo, decolliamo, facciamo un giro sopra il campo per fare quota e puntiamo verso lo Stretto. Voliamo in formazione larga e stiamo salendo a 4000 metri per superare le nubi quando il mio motore comincia a vibrare, almeno una coppia o più di candele, ce ne sono due per cilindro, si debbono essere sporcate. Perdo potenza e comincio a sfilarmi dalla formazione. Do la massima potenza al motore per tentare di pulire le candele ma senza alcun risultato, gli altri tre aerei entrano nelle nubi, cerco di seguirli ma perdo il contatto visivo con loro. Volo facendo riferimento agli strumenti, in particolare al virosbandometro, al variometro e all’altimetro ma non è facile anche perché sto incontrando forte turbolenza. La fiammata di un fulmine quasi mi investe, l’altimetro comincia a indicare che sto scendendo e la velocità è in forte incremento, non riesco a livellare le ali con le grossolane indicazioni fornite dal virosbandometro, sembra un’eternità che sono dentro le nubi. Perdo il controllo del velivolo che scende sempre più rapidamente, improvvisamente finisco sotto le nubi, raddrizzo l’aereo ma ora sono dentro un violento rovescio e la pioggia fa un rumore infernale sbattendo sulla fusoliera e sul parabrezza. Mi guardo intorno per trovare i riferimenti al suolo, riconosco in distanza la Rocca di Gibilterra, inverto la rotta e punto verso Tetuan, contemporaneamente riduco i giri motore e le vibrazioni diminuiscono sensibilmente.

Il rientro a Tetuan
Dopo una decina di minuti poso le ruote sul campo di Tetuan e rullo verso l’hangar, un ufficiale spagnolo viene accanto al velivolo e mi chiede come mai sono rientrato, gli indico il motore e gli faccio capire che vibra e deve essere un problema di candele. Chiama uno dei suoi motoristi, gli spiega cosa fare e tutte le 24 candele vengono tolte e pulite in officina. Da come lavora si vede che è un meccanico esperto e che conosce bene i motori, controlla anche i magneti e infine richiude la capottatura. Avvio il motore ed effettuo una prova di ciascun magnete escludendone uno alla volta, applico tutta potenza e verifico allo stesso modo che il calo di giri non sia superiore a 100 giri al minuto. Il calo è nei limiti e non ci sono vibrazioni, chiudo il motore e scendo. Al meccanico dico che il lavoro è perfetto e di rifornirmi il serbatoio di carburante, chiama in aiuto due colleghi che arrivano facendo rotolare un barile di benzina e con una pompa a mano la travasano in un grande imbuto con all’interno una pelle di camoscio che serve da filtro e previene contaminazioni di impurità e particelle d’acqua. Giunge un’autovettura con due ufficiali spagnoli e due civili, mi chiedono dove sono diretto; rispondo “A Siviglia, dov’è dislocata la mia squadriglia”. Scambiano alcune parole tra loro, poi uno dei due ufficiali mi chiede se posso scortare uno Ju52 che vorrebbe seguire la rotta diretta per Siviglia senza dover fare un largo giro oltre allo Stretto per evitare la Caccia nemica. Rispondo affermativamente e chiedo all’individuo in borghese, rivolgendomi a lui in tedesco, se è lui il pilota dello Ju52. Rimane sorpreso che parli la sua lingua e mi risponde che è pronto al decollo in 15 minuti. Prima di salire a bordo mi accerto ancora una volta che i nastri delle mitragliaci siano inseriti bene nelle guide, la mia vita può dipendere da questi dettagli, poi rimango seduto nell’abitacolo e quando lo Ju52 avvia il motore n. 1, quello di sinistra, anch’io avvio il mio. Prima di muovermi effettuo un’ulteriore prova delle candele con il motore alla massima potenza, saluto lo specialista e rullo portandomi a fondo campo dove attendo lo Ju52 che decolla per primo. In breve sono in volo, lo Ju52 effettua un giro campo, mi affianco a lui e puntiamo lo Stretto di Gibilterra, vi sono ancora formazioni di cumulinembi di notevole sviluppo verticale. Entriamo a tratti nella base delle nubi e mi stringo ancora di più allo Ju52, incontriamo turbolenza e vedo chiaramente le sue estremità alari flettersi per le accelerazioni, continuiamo cosi fino in prossimità della costa atlantica.

Jerez De La Frontera
Quando giungiamo sul continente il pilota agita la mano, indica verso il basso e inizia a circuitare. Localizzo subito un piccolo campo, dove una coppia di Ju52 sta decollando. Mi sfilo leggermente dal mio Ju52 per tenere d’occhio i due che, appena decollati, si stanno portando alla nostra quota, circuitando sull’aeroporto. Un terzo Ju52 è in fase di decollo e dopo aver staccato mi sembra che alzi improvvisamente il muso e la sua velocità scenda rapidamente, lo vedo poi mettere giù l’ala sinistra come se entrasse in vite e si schianta al suolo con una grande fiammata. Continuo a circuitare sul campo insieme allo Ju52, non possiamo atterrare perché il campo è occupato dai mezzi di soccorso e dal personale accorsi intorno a ciò che resta dell’aereo avvolto dalle fiamme, rivolgo un pensiero alle vittime dell’incidente. Il pilota del mio Ju52 lancia due razzi rossi da segnalazione e mentre continuo a volare al suo fianco effettua un passaggio sul campo per far capire le sue intenzioni e la necessità di atterrare. Dopo un secondo circuito lo Ju52 inizia l’avvicinamento, lo seguo finché atterra, a mia volta mi porto all’atterraggio effettuando alcune scivolate d’ala per toccare all’inizio del campo. Rullo verso lo Ju52, parcheggio vicino, chiudo il motore, scendo e mi avvio verso i due piloti tedeschi che sono ai piedi dell’aereo. “Questo aeroporto non è Siviglia!”, sono le prime parole che rivolgo loro in tedesco. “Siamo a Jerez de la Frontera”, mi risponde uno dei due, “mentre eravamo in volo abbiamo ricevuto ordini via radio di cambiare destinazione e dirottare su questo aeroporto”. Dico che debbo ripartire subito per Siviglia, mi ringraziano per la scorta e ci stringiamo la mano. Aggiungo che sono dispiaciuto per l’incidente occorso ai loro colleghi dello Ju52 che sta ancora bruciando in fondo al campo. Gran parte del personale del Soccorso è ancora impegnato attorno ai rottami ma non c’è più nulla da fare, tranne che spegnere le ultime fiamme. L’equipaggiamento dei mezzi di Soccorso in questi aeroporti minori è molto limitato e si può fare ben poco nel caso di incidenti come questo. Attorno al mio aereo ci sono alcuni piloti tedeschi che lo stanno ammirando e uno lo sta fotografando, sorrido e li saluto in tedesco, sono interessati alle prestazioni del CR32 che illustro, infine li informo che mi accingo a partire per Siviglia e salgo a bordo. Blocco i freni e chiedo ai piloti tedeschi di verificare che non ci sia nessuno in prossimità dell’elica, urlo “Contact!”, apro la valvola dell’aria e il motore si avvia. Lo faccio scaldare, mi porto a fondo campo, decollo e ripasso sul campo battendo le ali per salutare e quindi mi dirigo su Siviglia.

Sevilla – Tablada
Dopo circa 15 minuti sono sull’aeroporto di Siviglia – Tablada, giro sopra fin quando non vedo la “T” che indica la direzione d’atterraggio, mi porto in circuito e atterro. Sono circa le 16 quando tocco terra, vedo del movimento intorno a una fila di CR32 parcheggiati, sono il cap. Dequal e gli altri miei colleghi che agitano le braccia verso di me, porto l’aereo accanto a loro, spengo e salto giù: mi circondano, sono lieti di rivedermi e vogliono sapere cosa è accaduto dopo che siamo partiti da Tetuan. Il cap. Dequal si congratula per come mi sono destreggiato in situazioni impegnative e in luoghi a me sconosciuti. Erano preoccupati poiché gli aeroporti dove ero atterrato non li avevano informati e pensavano al peggio ed infine il cap. Dequal mi congeda: “Vai a recuperare il tuo bagaglio che è rimasto a bordo dell’S81”. Mentre mi avvio verso l’SM 81 i colleghi mi raccontano che questa mattina c’è stato un grave incidente: una squadra di specialisti rifornivano di carburante e bombe da 250 kg alcuni S81 che dovevano effettuare una missione su Málaga. Improvvisamente si è innescato un incendio a bordo di uno degli aerei, seguito poco dopo dall’esplosione del carico bellico, l’aereo è andato distrutto e tre avieri, coinvolti nell’incidente, hanno perso la vita. La sistemazione a Siviglia è molto più confortevole che a Melilla, i Sottufficiali piloti e gli specialisti alloggiano all’Hotel Majestic e gli ufficiali all’Hotel Toledo che funge anche da nostro Comando e Centro di Collegamento con lo Stato Maggiore Spagnolo. Abbiamo a disposizione un paio di bus per gli spostamenti da e per l’aeroporto e un’autovettura, per spostamenti diversi o urgenti. Si lascia l’albergo alle 6 del mattino e si ritorna la sera dopo il tramonto. Abbiamo una disposizione da rispettare, dobbiamo indossare sempre la divisa della Legione Straniera, in compenso i pasti e le camere d’albergo sono a carico del Comando Nazionalista Spagnolo. All’ufficiale spagnolo di “Collegamento” assegnatoci chiedo istruzioni per essere rimborsato delle spese da me sostenute, ho speso quasi tutto, risponde che farà in modo che domani in aeroporto ci venga consegnato un acconto. Al termine della giornata di servizio ci aspettano i bus militari che ci accompagnano in albergo, il paesaggio e la città sono incantevoli ma la popolazione che incontriamo durante il viaggio sembra preoccupata per il conflitto in atto anche se poi da un contatto diretto si rivelerà diversa: disponibile, ospitale e fiduciosa del futuro. In albergo quando arriviamo e scendiamo dal bus gli spagnoli si fermano per curiosare e quando realizzano che siamo italiani in aiuto alle Forze Nazionaliste del gen. Franco ci applaudono ed incoraggiano. Salgo nella mia stanza e dopo una doccia fredda indosso l’uniforme della Legione Straniera con le ali d’aquila e scendo nella sala da pranzo dell’albergo. Non ho mangiato in tutta la giornata e sono affamato, mi siedo al tavolo insieme a due colleghi. Il cameriere mi chiede cosa desidero, faccio del mio meglio per farmi capire aiutandomi con i gesti, ritorna con un piatto di pollo e riso molto buono e infine con della frutta. Siviglia è una città piacevole, nei locali pubblici la gente è allegra e cordiale, gruppi di giovani ballano il flamenco, sono dei gitani, i migliori. Mi fermo ad ascoltare le chitarre il cui suono mi incanta, gli spettacoli si interrompono ogni tanto e uno di loro, con il capello in mano, raccoglie le offerte.

Le missioni dalla nuova base di Tablada
Nei giorni successivi le missioni si svolgono sulla linea del fronte e i briefing vengono effettuati al primo mattino in hangar per disporre di informazioni più aggiornate. Ai piloti vengono assegnate equamente le missioni affinché nessuno possa lamentarsi di essere escluso. Alcuni piloti incontrano i velivoli repubblicani, ma questi evitano di ingaggiare il combattimento e rientrano prontamente negli spazi aerei sotto il loro controllo. Effettuo una missione di pattugliamento sul fronte tra Granada e Cordoba, sorvolo una grande città, Martos, in mano ai Repubblicani. Non incontro velivoli nemici ma una formazione di tre Ju52 che rientrano; dopo esserci entrambi identificati, ci accostiamo e li scortiamo. Al rientro da una missione, il ten. Cenni rulla troppo veloce e quando prova a girare verso l’hangar solleva una ruota e l’ala opposta urta il terreno danneggiandosi. I montatori lavorano tutta la notte per sostituire l’ala e al mattino il velivolo è rimesso in efficienza. Il mattino del 26 agosto vengo svegliato da Magistrini che dorme nella camera accanto alla mia, avrei continuato a dormire volentieri. Scendiamo a fare colazione insieme e con il bus ci rechiamo in aeroporto. Tre piloti sono in servizio di allarme dall’alba al tramonto, hanno il cambio ogni ora in quanto è snervante stare seduti a lungo nell’abitacolo, imbracati e pronti al decollo. Noi due, insieme agli altri colleghi che non sono in servizio di allarme, veniamo invitati a presentarci all’Ufficio Cassa dell’aeroporto per ritirare la paga che ci viene consegnata dall’ufficiale spagnolo. Riscuoto mille pesetas, circa centoventicinque dollari, ero quasi a secco e con questo gruzzolo disponibile mi sento subito meglio. È il mio turno di allarme, indosso e allaccio le cinghie del paracadute, salgo nell’abitacolo e ai piloti che smontano dico di andare a ritirare anche loro la paga spiegando la procedura. Terminato il mio turno di allarme vengo rilevato da un collega e vado in hangar a dare una mano agli specialisti che stanno mettendo a punto gli aerei, li stanno sottoponendo a una accurata revisione. Il velivolo con il quale ho volato ha gli sportelloni del motore smontati e i motoristi stanno sostituendo le candele e pulendo i filtri del carburante. Giunge in visita al campo il col. Bonomi, Comandante dei Bombardieri, è il comandante “ad interim” dell’Aviazione Italiana in Spagna, in attesa che lo Stato Maggiore nomini un sostituto. Il Colonnello chiede al cap. Dequal quando prevede che la Squadriglia sia operativa e Dequal risponde che tutti gli aerei debbono essere sottoposti ai controlli previsti e che saranno pronti l’indomani mattina. Il Colonnello ne prende atto e ricorda che domani ci sarà l’incontro con il Comando Spagnolo per programmare le missioni operative, spetterà a lui, il cap. Dequal, di scegliere i piloti che le effettueranno. Ci saluta e riparte per coordinare le operazioni dei Savoia S81 che debbono venire riforniti dei carichi bellici adatti al tipo di missione. Tutti i CR32 sono schierati davanti all’hangar, revisionati e tirati a lucido, sembrano appena consegnati dalla FIAT. Mi viene assegnato un volo “officina” per verificare il regolare funzionamento di un motore che è stato sottoposto a un ciclo di manutenzione più completo, il volo dura una ventina di minuti e tutto risulta regolare. Rientrato in città, dopo cena usciamo tutti insieme per visitare Siviglia, smarriamo Avvico e lo ritroviamo in albergo al nostro ritorno, ha conosciuto alcuni militari e assieme a loro ha “visitato” diverse cantine e infine è stato accompagnato all’albergo alquanto allegro.

Scorta agli  S81 – Incursione depositi petroliferi porto di Malaga
Il 27 agosto mi sveglio prima dei colleghi e scendo per fare colazione, in attesa del bus faccio quattro passi intorno all’albergo. Quando ci siamo tutti, partiamo alla volta dell’aeroporto mentre il cap. Dequal rimane a Siviglia per incontrare l’Alto Comando Spagnolo. All’aeroporto di Tablada gli specialisti della Squadriglia dei bombardieri sono al lavoro, caricano le bombe, mi fermo a osservarli e poi torno in Squadriglia per controllare il mio aereo. Alle 11 circa, il cap. Dequal arriva in aeroporto con il col. Bonomi, non dice nulla ma si accerta con gli specialisti che tutti i velivoli siano efficienti e controlla anche le armi di bordo del suo velivolo. Al meccanico che è seduto accanto a me dico “Se il Capitano non dice nulla, c’è qualcosa nell’aria”. A mezzogiorno si va a mangiare, preferisco stare leggero nell’eventualità che si debba andare in volo. Nel pomeriggio il cap. Dequal ci chiama a rapporto, due velivoli parteciperanno a una missione di scorta ai bombardieri per un’incursione ai depositi petroliferi del porto di Málaga, lui comanderà la pattuglia ed io sarò il suo gregario, mi ha scelto per la mia precedente esperienza in Etiopia. La squadriglia al completo assiste al briefing sulla missione e, quando abbiamo finito, i colleghi ci augurano “Buona caccia”. Il cap. Dequal infine si rivolge a me: “Ai comandi del S81 capoformazione c’è il col. Bonomi, tieni gli occhi bene aperti, siamo solo in due!”. Decolliamo alle 13.30, circuitiamo sull’aeroporto in attesa dei bombardieri, ci mettiamo in formazione con loro per alcuni minuti e poi, come da ordini, mi porto su per una scorta “in quota”, 1800 metri più alto; Dequal invece rimane accanto ai bombardieri per la scorta “ravvicinata”. Ho rimediato una carta geografica molto grossolana che consulto durante il volo, mi è di ben poco aiuto poiché riporta solo le grandi città, al momento della partenza dall’Italia nessuno ha pensato di fornirci adeguate carte aeronautiche della Spagna.

Il combattimento aereo con i un NiD52
Quando entriamo nello spazio aereo controllato dai Repubblicani provo le armi di bordo per accertarmi che non ci siano inceppamenti ai meccanismi di sparo. Proseguendo in rotta, sulla mia destra vedo sfilare al mio traverso la città di Ronda; poco dopo i bombardieri virano a sinistra mettendo la prua su Málaga, che è riconoscibile lungo la costa. Continuo a guardare in tutte le direzioni per prevenire un attacco della Caccia nemica, giro la testa indietro fino a vedere la mia coda e poi in basso, tenendo d’occhio i bombardieri che volano lenti e compatti con al loro fianco il Capitano, leggermente più alto. Il cielo è limpido, non c’è umidità nell’aria, la visibilità è illimitata e il sole è alto nel cielo. Guardo spesso verso il sole perché è da lì che il nemico è solito attaccare per non essere visto. Improvvisamente mi sembra che un’ombra sia passata proprio davanti al sole, ma debbo distogliere lo sguardo perché rimango abbagliato, gli occhi mi fanno male e mi lacrimano, li chiudo per qualche secondo, quando li riapro vedo per un istante un aereo fuori dal disco accecante del sole. Sembra che non mi abbia ancora visto ma poco dopo mi scorge, vira e si butta verso di me, è avvantaggiato dalla quota, cinquecento metri più alto, viro violentemente verso di lui e contemporaneamente cabro, siamo “muso contro muso”. Lo punto e non lo mollo un istante, do una veloce occhiata al collimatore, è al centro, lascio partire una breve raffica, vedo qualcosa staccarsi dall’ala, ci incrociamo e si sfila sotto di me. Continuo a salire, guardando dietro per vedere da quale parte vira o se continua nella discesa. Vira a destra e io do tutto motore virando stretto a sinistra; quando si accorge che gli sto arrivando addosso dall’alto si rovescia con un mezzo tonneau e si butta in candela per sganciarsi. Non lo mollo, con il motore alla massima potenza lo raggiungo e quando sono a 100, 150 metri riduco per non superarlo. Continua la picchiata virando bruscamente da una parte all’altra, non riesco a collimarlo, tuttavia gli rimango incollato alla coda e lo lascio fare. Prova anche a portare la potenza di colpo al minimo nella speranza che io lo sorpassi ma prontamente cabro, mi rovescio con un mezzo tonneau e lo riprendo. Mette l’aereo in candela con tutto motore e senza virare, tenta di battermi in velocità, ha commesso un errore! Lo centro con calma nel collimatore e lascio partire una raffica, dalla coda si staccano dei pezzi, non vedo fiamme, parte un’altra raffica, improvvisamente vedo le braccia del pilota alzarsi in aria e l’aereo entrare in una lenta spirale in discesa. Lo seguo nella caduta per alcuni secondi e quando ho la certezza che è spacciato cabro e risalgo a tremila metri. Cerco di localizzare la formazione di bombardieri che ho abbandonato ma non li vedo più, circuito sulla zona, scruto nella direzione di Málaga e noto delle colonne di fumo alzarsi dal porto. Mi accerto che intorno non vi siano altri aerei repubblicani e infine viro e metto la prua verso Siviglia, ho ancora un’ora di autonomia. Dopo venticinque minuti sono sull’aeroporto di Tablada, felice di avercela fatta e dalla gioia, prima di atterrare, effettuo un looping sopra l’aeroporto e atterro. Quando arrivo davanti all’hangar mi vengono incontro il cap. Dequal e il col. Bonomi, mi stringono la mano, sono rientrati da poco anche loro, mi dicono che mentre si allontanavano hanno assistito al combattimento con l’aereo repubblicano che intendeva attaccare la formazione e mi chiedono se mi sono accertato dell’effettivo abbattimento, cioè dell’impatto con il suolo. Rispondo che ho seguito la caduta del velivolo che precipitava in spirale per circa mille metri, l’ho poi abbandonato perché temevo che ci fossero altri aerei nemici in zona e ho rifatto quota. Il Capitano mi invita a stendere il rapporto e aggiunge “Se l’Alto Comando Spagnolo confermerà l’abbattimento ti verrà accreditato. In ogni caso, nel mio rapporto segnalerò che ho seguito il combattimento finché gli S81 hanno iniziato a scaricare le bombe e poi ho dovuto occuparmi di loro. Oltre a questo, al momento non abbiamo altre prove sull’abbattimento”. Ricevo le congratulazioni dagli altri equipaggi dei bombardieri che mi stringono la mano, pure gli ufficiali spagnoli si congratulano e mi sommergono di abbracci. I colleghi Sottufficiali commentano che l’abbattimento dovrebbe comunque essermi accreditato, non rispondo e vado a sedermi in hangar, comincio a risentire dello stress dovuto alla tensione nervosa. Gli specialisti spagnoli sono molto gentili e riconoscenti, mi portano da bere e mi offrono le loro sigarette.

Mancato rientro di Presel – 30 agosto 1936
Alle 18.00 rientro in albergo e dopo cena vado a sedermi nel salone, su una poltrona c’è una ragazza molto avvenente, scambio qualche battuta e le chiedo se gradisce un Porto, sorride e accetta. Mi sto intrattenendo con lei da circa mezz’ora quando un collega mi chiama per informarmi che il capitano è appena arrivato e vuole vederci subito; mi scuso e ritorno nella sala da pranzo. Mentre ci incamminiamo il collega mi dice che la ragazza con la quale mi intrattenevo è un’attrice spagnola, così gli ha detto il direttore dell’albergo. Il cap. Dequal entra nella sala e quando siamo tutti presenti inizia: “Il serg. Presel, di scorta a uno Junkers diretto al nord, ha impegnato combattimento con un caccia nemico e, perso di vista lo Junkers, essendo sprovvisto di bussola è finito fuori rotta ed è atterrato in Portogallo. Ha danneggiato il carrello ed è stato trattenuto dal Governo Portoghese. Il gen. Franco ha già chiesto il suo rilascio e la restituzione dell’aeroplano. Tutto ciò deve restare segreto perché il Governo portoghese non vuol essere implicato in una controversia con la Lega delle Nazioni”. Visto che siamo tutti presenti il Capitano coglie l’occasione per fare un briefing sulla missione che domani alcuni piloti dovranno svolgere, i dettagli aggiornati saranno forniti prima della partenza.

Il trasferimento da Tablada a Ca’Ceres
Il Quartier Generale nazionalista di Cáceres chiede a colonnello Bonomi l’invio di una pattuglia di caccia, alla nostra Sezione arriva l’ordine di trasferimento a Cáceres. Il cap. Dequal con i suoi piloti deve predisporre una base operativa avanzata a disposizione del comando nazionalista, il resto della squadriglia seguirà dopo pochi giorni. Dalla base di Cáceres daremo supporto alle truppe avanzanti sul fronte di Toledo per allentare la pressione sulla fortezza dell’Alcázar dove ufficiali, cadetti e soldati dell’Accademia Militare, ai comandi del col. Moscardò, resistono agli assalti dei Repubblicani. Nell’Alcázar vi sono anche molti civili e familiari dei militari, in maggioranza donne e bambini, stremati dall’assedio e in gran difficoltà, tutti debbono essere riforniti di munizioni e viveri per via aerea. Il cap. Dequal sceglie Magistrini e Avvico come gregari nella pattuglia che si trasferirà a Cáceres e assegna il comando del personale rimasto a Siviglia al ten. Ceccherelli. Magistrini è a letto in albergo, non si sente bene e così lo sostituisco io.

Perdita di rotta e atterraggio in Portogallo – 31 agosto 1936
Le mappe della Spagna di cui disponiamo sono poco utili, sono carte stradali e non aeronautiche come servirebbe, oltretutto riportano solo le città principali. Per seguire una rotta a vista bisogna poter identificare i punti che si intendono sorvolare, a memoria se si conosce il territorio oppure con l’uso delle carte geografiche, ma quelle che abbiamo riportano solo le strade e non altri importanti dettagli. La rotta magnetica da Siviglia a Cáceres è 355° e la distanza è di 320 Km, poco più di un’ora di volo. Il 31 agosto decolliamo dopo pranzo, alle 17.00, e dirigiamo su Cáceres. Dopo un po’ noto che stiamo sorvolando delle impervie catene montuose, verifico sulla mia carta, siamo spostati a Ovest di circa 10°, a cenni segnalo al Capitano che sta andando fuori rotta e lui puntando la mano verso terra mi indica una strada che secondo lui dovrebbe portare a Cáceres. Sorvoliamo una grossa città che dovrebbe essere Badajoz e segnalo a Dequal di tenersi più a Est, ma non mi ascolta. Dovremmo già essere su Cáceres invece sono trascorsi un’ora e venti minuti e non vediamo la città; comincio a preoccuparmi, l’indicatore mi dice che ho carburante ancora per quindici minuti, scruto il terreno nella speranza di scoprire un aeroporto dove atterrare. Avvico si accosta al capitano e gli segnala che è a corto di carburante, non gliene rimane più molto, sotto di noi compare un paese in cima a una collina e il cap. Dequal vi dirige sopra per riconoscerlo e localizzare la nostra posizione. Mi conforta che, da quello che ho potuto seguire sulla mia carta, non siamo in territorio controllato dai Repubblicani: dovremmo essere parecchio più a Ovest della rotta prestabilita, vicini al confine portoghese o addirittura in Portogallo. Giriamo un po’ sulla zona e poi il Capitano ci segnala di allontanarci, intende effettuare un atterraggio fuori campo in prossimità della collina. Circuitiamo sulla zona mantenendolo in vista mentre inizia la fase di atterraggio, riduce la velocità al minimo, tocca il suolo, sussulta, solleva una nuvola di polvere, continua a correre e improvvisamente alza la coda e capotta fermandosi di colpo. Continuiamo a volare in circolo per osservare se il Capitano è ferito, lo vediamo qualche secondo più tardi uscire carponi da sotto l’aereo e dalla polvere. Avvico mi fa cenno che ora ci prova lui, vuole atterrare vicino all’aereo del Capitano, il suo atterraggio si conclude senza danni, circuito ancora per trovare una striscia di terreno pianeggiante e libera da ostacoli, il Capitano e Avvico hanno usato le uniche disponibili e ad atterrare in mezzo a loro rischierei di finire in un avvallamento. Da terra mi indicano un piccolo campo più in basso, lo sorvolo a bassa quota e alla velocità minima, non riesco a valutare bene le condizioni del terreno perché è ricoperto da erba molto alta ma sembra pianeggiante. Scorgo un muretto a secco, al di là del quale il terreno sembra adatto all’atterraggio, effettuo un giro largo e inizio l’avvicinamento scendendo alla minima velocità. Appena sorvolato il muretto di pietra escludo i magneti e tocco il suolo con decisione. L’aereo sussulta violentemente ma riesco a controllarlo, il campo ha una leggera depressione al centro e quando sono nel punto più basso passo sopra un fossato, la “botta” è notevole, il carrello sollecita con violenza la struttura in corrispondenza delle semiali inferiori e la deforma, l’aereo alza la coda, temo stia per cappottare ma fortunatamente la riabbassa e si ferma. Chiudo il rubinetto del carburante, salto fuori dall’aereo e mi guardo attorno: a non più di dieci piedi da dove mi sono fermato, nascosto dall’erba, c’è un grande masso, mi è andata bene!

Portalegere
Torno indietro per vedere cosa ha causato il forte scossone e il danno al carrello, percorro a ritroso i solchi lasciati dall’aereo e giungo a un canaletto di raccolta delle acque piovane della collina dove sono evidenti i segni dell’impatto. Torno all’aereo e trovandomi nel punto più basso del campo per localizzare il Capitano e Avvico debbo arrampicarmi sull’ala, li scorgo a una distanza di circa cinquecento metri e mi incammino verso di loro. Mentre discutiamo sul da farsi arrivano alcuni paesani e con loro due militari della Guardia Civil che indossano una divisa molto simile a quella dei carabinieri italiani, il cappello “napoleonico” è però più piccolo. Quello dei due con più galloni sulle maniche ci viene incontro e ci fa alcune domande, gli rispondiamo che non comprendiamo, prova a parlarci in spagnolo e ci chiede i nomi, naturalmente diamo quelli falsi. Vuole sapere da dove veniamo, gli rispondiamo da Siviglia, che combattiamo per il gen. Franco e che facciamo parte dell’Aviazione Nazionalista Spagnola. Si rasserena, cambia espressione e ci stringe la mano a tutti e tre. Chiediamo il nome della città che abbiamo visto dall’aereo, ci risponde “Portalegre, in Portogallo”. Il sottufficiale portoghese fa notare che se gli aerei sono armati bisogna smontare le armi; gli spieghiamo che possiamo togliere i nastri con le munizioni ma non certamente smontare le armi, sembra soddisfatto ed ordina al suo collega di allontanare i curiosi e di rimanere a guardia dei velivoli mentre lui provvederà a contattare il suo Comando per avere disposizioni, rinforzi ed organizzare i turni di guardia. Ci invita ad accompagnarlo al Posto di Polizia locale, la Caserma del 14° Gruppo di Artiglieria di Portalyra e mentre camminiamo ci chiede la parola d’onore che non tenteremo di fuggire in Spagna; lo rassicuriamo della nostra intenzione, non vogliamo creargli problemi, anche se vorremmo rientrare in Spagna il più presto. Soddisfatto ci stringe nuovamente la mano, sentirà il Comandante di Évora affinché si metta subito in contatto con l’Ufficio Esteri del Ministero della Difesa di Lisbona. Gli chiediamo che grado abbia e lui risponde sergente, ci assegna alcune modeste ma confortevoli camere nella caserma e siamo lasciati liberi di muoverci. Il mattino successivo giungono le disposizioni dal Comando, i nostri velivoli debbono essere smontati e caricati su autocarri che giungeranno in giornata da un reggimento di stanza nelle vicinanze. Ci informano che dobbiamo attendere l’arrivo a Portalegre di un altro aereo, atterrato da alcuni giorni a Castelo Branco per un errore di rotta, e che verrà riconsegnato alla Spagna in un unico convoglio, assieme ai nostri tre velivoli. Il cap. Dequal ci conferma che il velivolo atterrato a Castelo Branco è quello del serg. Presel finito fuori rotta il 30 agosto.Trascorriamo il resto della mattinata oziando in caserma, intorno a mezzogiorno giunge il serg. Presel con un mezzo militare, accompagnato da una guardia. Mentre stiamo discorrendo arriva il sottufficiale portoghese: ha recuperato in città una cassetta di attrezzi da un meccanico d’auto, ci serviranno per smontare gli aerei. Dopo pranzo Avvico e Presel vanno a farsi una “siesta” di un’oretta, io scendo al piano inferiore e trovo il cap. Dequal assorto nei suoi pensieri, mi sembra preoccupato, scherzando gli dico “Posso darle due pesetas per i suoi problemi?”, mi sorride e dice che non bastano. Mi confida che non è stata una grande dimostrazione di abilità il “condurci” in Portogallo. “Anche gli uomini migliori nella loro vita possono fare degli errori”, rispondo, e aggiungo che, grazie a Dio, nessuno di noi si è fatto male, e con gli scarsi aiuti di cui disponiamo per la navigazione era da mettere in conto quanto accaduto. Mi confida che si ricorda bene di aver mantenuto sempre una prua di 355° mentre io sulla mia bussola leggevo 340° – 345°, probabilmente la sua non era stata compensata correttamente e dava indicazioni imprecise. Quando Avvico e Presel scendono, il sottufficiale portoghese ci accompagna ai nostri aerei dove troviamo tre militari di guardia, è stata montata anche una tenda per permettere loro di riposare a turno durante la notte e gli aerei sono al sicuro. Troviamo un gruppo di ragazzini giunti dalla città per vedere da vicino le “macchine volanti”, sono tenuti a debita distanza dagli zelanti militari. Ci fermiamo ancora un po’ nella zona d’atterraggio e poi rientriamo in caserma. Un militare gentilmente ci presta un mazzo di carte e mentre giochiamo a ramino ci osserva e vuole insegnarci a giocare. Mentre stiamo cenando giungono da Elvas cinque autocarri, l’ufficiale accompagnatore, i conducenti e gli inservienti, tutti vengono sistemati in caserma.

Il convoglio dei CR32 da Portalegere a Ca’Ceres – 5 settembre 1936
Al mattino mi alzo presto, faccio colazione con Presel e Avvico e poi veniamo accompagnati agli aerei dove iniziamo a smontarli con gli attrezzi che ci sono stati forniti. A mezzogiorno abbiamo già terminato il lavoro su quello di Avvico e cominciamo con quello del Capitano che, avendo capottato, dobbiamo prima di tutto raddrizzare e poi scaricare i nastri delle munizioni che mettiamo in un contenitore apposito. Presa la mano con il primo velivolo le operazioni procedono celermente, carichiamo le fusoliere dei due aerei sui pianali degli autocarri e con dei teli li copriamo affinché non si possano riconoscere le insegne militari. Le ali e gli impennaggi di coda vengono caricati su un terzo autocarro. Andiamo in caserma a pranzare e quando siamo pronti il sergente portoghese ci conduce a una strada che porta vicino al luogo d’atterraggio del mio aereo. Gli autocarri sono grossi e potenti e non hanno difficoltà a muoversi sui terreni accidentati. Con l’aiuto di tutti gli inservienti le operazioni di carico sono abbastanza celeri, in tre ore anche il terzo velivolo, il mio, è smontato e caricato sull’autocarro e il convoglio è pronto. All’imbrunire torniamo in caserma, il cap. Dequal ci sta aspettando, dice di lavarci in fretta e di scendere per la cena. Rivolgendosi a me aggiunge “Complimenti per l’abbronzatura!”. Sono sporco di grasso e sudato, ho lavorato ore sotto un sole cocente. Una doccia mi ci voleva proprio, infilo i pantaloni della divisa e una camicia bianca e scendo per la cena. Il sergente portoghese ha chiamato il Comando per comunicare che tutto è pronto per la partenza ed ha ricevuto l’ordine di muovere l’indomani all’alba. Veniamo svegliati dal sergente, ci vestiamo e scendiamo, troviamo gli autisti e gli inservienti che ci attendono, viene servito caffè caldo a tutti, c’è anche un ufficiale giunto nella notte con l’incarico di accompagnarci al confine. Quando partiamo il tempo è bello, fa fresco, ma appena sorge il sole l’aria diventa soffocante. Passiamo tra le montagne, non mi era mai capitato di fare un viaggio in camion tra strette gole e tornanti, attraversando ponti su profondi canyon circondati da rocce brulle: è un viaggio interessante ma certamente non rilassante. Superiamo dislivelli di 700 metri e un autocarro esce di strada, fortunatamente senza inconvenienti. Dopo dieci interminabili ore giungiamo al confine spagnolo, veniamo salutati cordialmente dalle guardie che sono incaricate di scortarci fino Cáceres. Gli autisti continuano con noi mentre gli inservienti portoghesi ci salutano e tornano indietro.

L’incontro con la 2ª spedizione
Al campo di Cáceres incontriamo la seconda spedizione, partita da La Spezia il 7 agosto, due giorni dopo di noi, e sbarcata la notte del 26 agosto a Vigo, in Portogallo. È comandata dal ten. Dante Olivero del 6° Stormo, con nove piloti, cinque specialisti e nove aerei, giunti sin qui dopo un massacrante viaggio su un treno antidiluviano. I piloti provengono dal 1°, 4° e 6° Stormo, tra quelli del 4° c’è il serg. Chianese della 91ª, il serg. Vivarelli e il s.ten. Franceschi della 90ª, la mia Squadriglia di Gorizia. Gli altri sono il s.ten. Mantelli, il serg. di Montegnacco, il serg. Baschirotto, il serg. Galli, tutti del 1° Stormo, e il serg. Buffali del 6° Stormo. I colleghi hanno ricevuto l’ordine di attendere il nostro arrivo e di proseguire tutti insieme con un aereo da trasporto per Siviglia, dove prenderemo in consegna i CR32.

DA Ca’Ceres a Siviglia
Saliamo su un Ju52 e in breve siamo a Siviglia. Quando scendiamo il nostro personale ci festeggia, avevano temuto che fossimo stati internati in Portogallo. L’allegria scompare poco dopo quando ci mettono al corrente della sorte del cap. Monico. Il 31 agosto, lo stesso giorno in cui siamo finiti in Portogallo, Monico e Castellani erano decollati verso le 17 per un’azione ordinata dal Comando Generale. Al ritorno dalla zona di Talavera sono stati attaccati di sorpresa da una pattuglia di Dewoitine che li attendeva in quota. Entrambi i piloti si sono lanciati, Castellani è rientrato nelle nostre linee mentre Monico, catturato, è stato passato per le armi. Monico è il primo caduto sul suolo spagnolo, la sua perdita è un duro colpo per tutti noi. Si inizia l’assemblaggio dei velivoli appena giunti da Vigo e si revisionano e approntano gli altri, vengono formate due squadriglie che opereranno congiuntamente. Il 6 settembre arriva a Tablada il capitano spagnolo Joaquín García Morato, è un famoso pilota spagnolo la cui conoscenza dell’orografia della Spagna ci sarà estremamente utile, è molto disponibile e stringiamo con lui un sincero rapporto di amicizia e di cameratismo. Dobbiamo addestrarlo sul nostro aereo in quanto dovrà costituire una Squadriglia di CR32 formata esclusivamente da piloti spagnoli. Sono lieto di essere nuovamente a Siviglia, vado a passeggio per la città, mando cartoline a parenti, amici e ad Ada, anche se avevo già scritto loro da Portalegre. Quasi ovunque quando sto per pagare la risposta è sempre la stessa: “È già pagato!”. Rientrato in albergo incontro il cap. Morato e gli confido che non riesco mai a pagare quanto dovuto, sorride e mi risponde “Il Popolo spagnolo apprezza quello che voi fate per loro, vi sono riconoscenti e desiderano dimostrarlo”. Rispondo che indubbiamente ciò mi fa piacere ma a volte mi mette a disagio, ho il timore che si possa pensare che me ne approfitti. Ci sediamo a un caffè per chiacchierare e prendiamo due bicchieri di Porto, infine ci ritiriamo nelle nostre camere. L’avanzata delle nostre truppe verso Toledo progredisce rapidamente. Si sviluppano degli aspri combattimenti alla periferia di Talavera de la Reina, le nostre truppe debbono lottare per aprirsi un passaggio sui fiumi Tago e Alberche. Le forze repubblicane occupano la sponda destra del Tago, nella zona in cui scorre tra i monti a sud di Talavera de la Reina.

Da Siviglia a Ca’Ceres – 9 settembre 1936
Alle 6.55 del 9 settembre ci trasferiamo a Cáceres con tre pattuglie comandate rispettivamente dal cap. Dequal, dal s.ten. Mantelli e s.ten. Franceschi, i gregari sono i serg. Avvico, Magistrini, Chianese, Buffali, Baschirotto e il sottoscritto. A Cáceres è schierato un Gruppo di Ju52 tedeschi per missioni di bombardamento; fino a oggi ha operato senza copertura della caccia e ha chiesto la scorta dei nostri CR32 a seguito degli attacchi dei velivoli repubblicani. Sul campo è dislocata anche una Squadriglia di caccia Heinkel che decollano prima degli Ju52 per garantire una copertura in quota, sono aerei dalla linea gradevole con una livrea color crema, più grandi dei nostri CR32 ma meno maneggevoli. Mentre sono accanto a un Heinkel e sto conversando con il pilota tedesco osserviamo tre Ju52 che atterrano dopo una missione, quando il secondo tocca terra qualcosa si stacca dalla pancia e rotola sul campo, è una bomba. Il pilota tedesco si butta immediatamente a terra e io lo imito, quando la bomba è a una cinquantina di metri dietro al velivolo esplode. È andata bene che la bomba era piccola e non è esplosa immediatamente dopo il contatto con il suolo, altrimenti l’equipaggio dello Ju52 l’avrebbe vista brutta. Ritorno nella mia tenda per scrivere a mio padre, a mio fratello e ad Ada, è il 9 settembre, ho lasciato l’Italia da due mesi e sembra un’eternità. Tutte le sere viene tenuto in albergo il briefing per il giorno successivo, con noi c’è il cap. Morato, si dimostra un pilota eccezionale, ha preso subito dimestichezza con il CR32 e sembra già un veterano. Per tutta la settimana non mi viene assegnata alcuna missione, l’attività aerea è molto ridotta. Una sera, durante il briefing, il cap. Dequal mi chiede a quando risale la mia ultima missione. Rispondo: “Al 27 agosto, durante la scorta agli SM81 su Málaga effettuata insieme a lei”. Guarda il ruolino delle missioni e, alzando lo sguardo, dice: “Domani, Avvico e Patriarca, volerete insieme a me con la prima pattuglia. Si parte all’alba. L’automezzo ci preleverà in albergo alle 4.30 per portarci alla base di Tablada, il decollo è previsto per le 05.30 per una missione di scorta ai bombardieri sul fronte di Talavera de la Reina”. Ceniamo tutti insieme, esco dall’albergo per una passeggiata in città e poi vado subito a letto.

Scorta agli Ju52 sul fronte di Talavera
Il mattino del 10 settembre mi alzo presto e sveglio Avvico in tempo per mangiare qualcosa prima dell’arrivo del mezzo che ci accompagnerà al campo, una grossa Hudson Touring che l’autista guida come un pazzo. Il capitano arriva subito dopo con un’altra macchina, intanto i motoristi scaldano i motori dei nostri CR32, dall’altra parte del campo nel settore tedesco riservato ai bombardieri vi è un gran movimento. Apro gli sportelli dei vani mitragliatrici e controllo personalmente le armi sotto lo sguardo attento dell’armiere che già le aveva ispezionate. I tre Ju52 iniziano il rullaggio per portarsi in fondo pista e decollano uno alla volta, circuitano sul campo per mettersi in formazione e infine dirigono verso il fronte. Saliamo a bordo e avviamo i motori, il Capitano è il primo a rullare verso l’inizio pista, alle 05.30 esatte siamo in volo. Dopo il consueto giro campo ci mettiamo in formazione con i bombardieri per proteggerli dalla caccia nemica. A 3000 metri passiamo sopra Talavera de la Reina, la Puebla de Montalbán e il Tago, è la prima volta che volo su questo fronte, tengo gli occhi bene aperti e guardo in continuazione attorno, soprattutto in coda, torcendomi il collo. Il sole è appena sopra la linea dell’orizzonte e illumina il suolo, i bombardieri quando arrivano sul bersaglio effettuano un largo giro e sganciano il loro carico di bombe che escono una alla volta dalla fusoliera. Le seguo nella caduta finché posso, poi spariscono e, parecchi secondi dopo, vedo a terra delle vampate seguite da colonne scure e dense di polvere che si alzano e crescono velocemente. Cerco di individuare dove cadono ma allo stesso tempo debbo guardarmi attorno perché il rischio di un attacco della caccia nemica è maggiore. Una salva di bombe cade sull’altra sponda del Tago in prossimità della strada che porta a Toledo. Due bombardieri prendono la rotta del rientro, il terzo rimane in zona perché il mitragliere effettua le riprese fotografiche del bombardamento che serviranno al Comando per la valutazione dei danni. Poi vira per raggiungere gli altri. La reazione della contraerea è modesta, si notano qua e là alcuni sbuffi di fumo delle granate con le spolette a tempo, ma non suscitano timore. Saliamo in quota e rimaniamo ancora qualche minuto in zona per proteggere i nostri bombardieri da un eventuale attacco da parte dell’Aviazione Repubblicana, non si vede nessuno, mettiamo la prua verso casa, in breve raggiungiamo i lenti bombardieri e ci mettiamo in formazione con loro. In prossimità di Cáceres i piloti degli Junker oscillano le ali, ci allontaniamo e lasciamo che si portino all’atterraggio. Segnalo ad Avvico di atterrare dietro agli Ju52, io lo seguirò a breve distanza. A Cáceres il campo non è molto preparato, ci sono ancora dei sassi e qualche buca, non è consigliabile atterrare in coppia. Ogni due ore una pattuglia parte in missione, ma non riesce a incontrare alcun aereo nemico per il resto della giornata. Anche gli Heinkel sono in volo e neppure loro incontrano aerei nemici. Giunge notizia che le nostre truppe sono in movimento e che alcuni piloti americani si sono arruolati nelle Forze Aeree governative. Dequal mi chiede cosa penso in proposito, rispondo che non capisco come degli americani possano combattere per delle Forze che hanno per simbolo la falce e martello. La sera il cap. Dequal tiene il briefing per il giorno dopo nella sala da pranzo, ha già pronti i turni di volo e mi assegna al primo, quello che inizia all’alba, con lui ed Avvico. Vado nella mia camera, sono stanco, ho avuto una giornata impegnativa, al fattorino dell’albergo chiedo di svegliarmi alle quattro e, se possibile, di rimediarmi una colazione. Mi stendo sul letto e mi addormento quasi istantaneamente.

11 settembre 1936, una giornata da non dimenticare
Pochi minuti prima delle quattro il fattorino entra in camera, mi sveglia scuotendomi e posa sul comodino un vassoio con del caffè bollente e del pane fresco, lo ringrazio e prendo il portafoglio per dargli la mancia ma non accetta. Faccio colazione e sveglio Avvico, prendo occhiali e caschetto e scendo nella hall. Il ragazzo ha un’altra tazza di caffè per me e per Avvico che in quel mentre sta arrivando. Mentre discuto con Avvico sulle possibilità di incontrare aerei nemici arriva il Capitano, saliamo tutti e tre sulla macchina per l’aeroporto. Gli aerei sono pronti al decollo, i meccanici stanno scaldando i motori. Effettuo i controlli consueti e mi accorgo che non c’è pressione per l’avviamento del motore e per azionare i freni e le mitragliatrici. Scendo e salgo sull’ala del CR32 del Capitano per informarlo, mi dice di riferire al motorista della Linea di Volo e di prendere l’aereo accanto con il motore caldo. Ripeto i controlli, in particolare sulle armi e salgo, quando sono pronto a mettere in moto segnalo “tutto OK” al Capitano che dà l’ordine di avviare i motori. Le nostre eliche compiono un giro o poco più, dai tubi di scarico esce qualche sbuffo nero e tutti e tre i motori si avviano contemporaneamente. Proviamo i motori, iniziamo a rullare e passiamo accanto alla Squadriglia tedesca, i piloti ci salutano unendo l’indice al pollice a formare una “O”. Decolliamo in formazione alle 5.00, saliamo a tremila metri, voliamo illuminati dal sole, mentre a terra è ancora buio o quasi.

Combattimento con un  Breguet XIX
Quando sorvoliamo il fronte, il Capitano si abbassa a duemila metri e penetriamo lo spazio aereo controllato dai Repubblicani. Siamo 10-15 miglia in territorio nemico, continuo a girare la testa tutto intorno, soprattutto dietro e sopra di me, da dove mi aspetto un probabile un attacco. Improvvisamente individuo un “puntino”, un aereo a circa duemila metri sopra di noi, non faccio in tempo a segnalarlo al Capitano che Avvico spara una breve raffica e oscilla le ali per segnalarci che ha avvistato tre bombardieri Repubblicani 30 gradi sulla nostra destra. Il cap. Dequal mi indica a gesti di portarmi in coda ad Avvico e di prepararci per l’attacco. Eseguo ma per precauzione tengo d’occhio l’aereo che ho avvistato ma che non ho avuto modo di segnalare, per tenermi pronto a un suo attacco mentre inseguiamo i bombardieri. Il capitano arriva per primo sotto i bombardieri che reagiscono stringendo la formazione; i mitraglieri di coda, che sono anche osservatori, puntano le loro armi contro di lui, quando è a duecento metri aprono il fuoco. Il Capitano desiste, cabra e si disimpegna, ci fa cenno di riportarci in formazione e di tentare un attacco tutti assieme per aumentare la potenza di fuoco. Tengo sempre d’occhio l’aereo più in alto e mi chiedo se il capitano e Avvico lo hanno notato. Serriamo la formazione, ci portiamo dietro ai bombardieri e ci prepariamo all’attacco da una quota più alta. I tre bombardieri si dividono, prendendo tre direzioni diverse. Punto su quello di sinistra, Avvico su quello di destra e il cap. Dequal sul leader. Indugio qualche secondo prima di aprire il fuoco, mi accerto di non avere aerei nemici alle spalle e do un’ultima occhiata alla posizione dell’aereo in quota, quando sono nel raggio d’azione delle armi di bordo dei bombardieri vedo accendersi di fuoco le canne delle mitragliatrici binate e le traccianti passare qualche metro sopra la mia ala superiore. A 150 metri appoggio l’occhio sul collimatore, effettuo una piccola correzione e quando il bombardiere è al centro del reticolo lascio partire una lunga raffica, vedo le traccianti colpire i piani di coda e risalire lungo la fusoliera. Il mitragliere porta le mani al viso e si abbatte sull’arma. Lascio partire una seconda raffica, colpisco un motore, l’elica rallenta i giri fino quasi a fermarsi, non apro più il fuoco. Il bombardiere riesce ancora a governare ma è in difficoltà, lo seguo nella sua discesa, tenta un atterraggio d’emergenza dietro le sue linee, solleva una nuvola di polvere e quando si ferma vedo il pilota saltare fuori e allontanarsi in cerca di riparo, lo lascio andare. Porto la manetta alla massima potenza e salgo per dirigermi sul caccia che circuita ancora sopra di noi a circa duemila metri, contemporaneamente vedo il cap. Dequal fare un passaggio sull’aereo che ho appena abbattuto e poi risalire, non capisco perché abbia deciso di abbandonare i gregari e di accertarsi personalmente del mio abbattimento. Anche Avvico ha abbattuto un bombardiere e il velivolo brucia al suolo. Risalgo in quota, il CR32 sale come nessun altro caccia, in breve raggiungo Avvico e proseguo la salita verso il caccia che ancora sta circuitando più in alto, né Dequal né Avvico l’avevano visto!

Combattimento con un Nieuport NiD52
Quando sono circa 500 metri sotto l’aereo nemico il pilota mi vede, vira, abbassa il muso e mi punta. Reagisco alla sua manovra con una stretta virata portandomi “muso a muso”, a 200 metri lascio partire una breve raffica. Ci incrociamo a pochi metri, gli passo sopra, io in salita e lui in discesa, immediatamente giro la testa per vedere che direzione prende, lui vira a destra e io mi butto a sinistra. Quando si rende conto che ora sono più alto effettua un rovesciamento per allontanarsi, lo inseguo e lo raggiungo. Se ne accorge e comincia a virare violentemente da una parte e dall’altra per sganciarsi, inizia delle cabrate seguite da rovesciamenti e affondate. Non ho problemi a seguirlo, il CR32 è veramente eccezionale, gli resto incollato alla coda senza sparare, voglio essere sicuro che sia al centro del collimatore prima di premere il pulsante sulla cloche che comanda le armi. Tenta di tutto per togliermi dalla sua coda, si butta giù in verticale. Mi avvicino ulteriormente, posso vedere che si gira in continuazione per controllare se sono sempre dietro a lui, tira su nuovamente e per stargli dietro debbo sopportare un’accelerazione che mi schiaccia al seggiolino e mi fa defluire il sangue dal cervello, vedo “nero” per qualche frazione di secondo. Appoggio l’occhio sul collimatore, il suo velivolo si sposta intorno alla croce del reticolo, quando è al centro premo il pulsante di sparo sulla cloche e lascio partire una breve raffica. Seguo il fumo delle mie traccianti e vedo l’impatto dei proiettili sulla fusoliera, qualche frazione di secondo più tardi una vampata. Le fiamme lambiscono il lato destro dell’aereo, la testa del pilota si accascia sul bordo dell’abitacolo. Tra di me ripeto: “Salta, salta fuori!”, forse l’ho anche gridato. Lo seguo fino a che si schianta al suolo in una nuvola di fumo e fiamme, faccio un giro e risalgo, vedo più in alto il cap. Dequal e Avvico che circuitano attendendomi. Mi porto in formazione e dirigiamo verso casa, sono assorto dal ricordo di quanto appena accaduto e istintivamente dico una breve preghiera per lui, un pilota che come me cercava solo di fare il suo dovere. Il Capitano alza due dita a significare le mie due vittorie e Avvico mi getta baci. Si torna a “casa”, il cap. Dequal ci fa cenno di allontanarci e di portarci in fila indiana, si abbassa, sorvola la pista alla massima velocità e effettua un tonneau lento. Avvico che lo segue fa altrettanto, io salgo a circa mille metri, mi butto in una ripida affondata con tutto motore, punto la mia Squadriglia, “tiro” fino a portarmi quasi verticale e faccio due tonneau che concludo con un Fieseler. A terra la notizia dei tre abbattimenti è giunta dall’ufficiale osservatore spagnolo sul fronte che tiene i collegamenti con i bombardieri e li dirige sugli obiettivi. Confermati gli abbattimenti, alcuni piloti tedeschi vengono a congratularsi per il successo della missione. La pattuglia successiva è già pronta per un pattugliamento con i motori accesi, sono il cap. Morato, il serg. Chianese e il serg. Buffali. Il cap. Dequal, sceso dal suo velivolo, sale sull’ala del capopattuglia, gli dà le ultime istruzioni e gli illustra la situazione sul territorio controllato dai repubblicani, scende e viene incontro ad Avvico e a me, ci congratuliamo a vicenda. Come prima cosa dobbiamo stendere i rapporti, il Capitano desidera che i nostri abbattimenti vengano confermati al più presto, andiamo nella tenda della Squadriglia e lui stesso mi aiuta a compilare il mio che poi firmiamo assieme. Nel debriefing il Capitano e Avvico affermano di non aver avvistato l’aereo che stava in quota finché non mi ha attaccato. Quando ho tentato di informare il cap. Dequal della presenza dell’aereo sulla nostra verticale, la raffica fatta partire da Avvico per segnalare l’avvistamento dei bombardieri ha impedito al Capitano di percepire il mio segnale. Se l’abbattimento di Málaga verrà confermato, con i due di oggi, ho tre aerei al mio attivo! Prima che la pattuglia di Morato, Chianese e Buffali sia di ritorno, giunge al campo la notizia che hanno abbattuto tre aerei repubblicani. Quando rientrano dalla missione, per manifestare la loro soddisfazione, sorvolano anch’essi il campo in fila indiana ed eseguono tre tonneau lenti, dopo un giro campo atterrano. Tutti corrono incontro ai tre aerei e si congratulano, anche i piloti tedeschi.

Nasce la “Cucaracha”
Il cap. Dequal ci informa che da oggi alla nostra Squadriglia è assegnato ufficialmente il numero 24 e pertanto diventa la “24ª Squadriglia Caccia”. Vuole avere anche l’approvazione degli altri piloti in merito al nome di battaglia che propone per la Squadriglia, “Cucaracha”, e per il distintivo, rappresentato da uno scarafaggio che suona un sax dal quale escono i 7 aerei che formano una squadriglia. Il Capitano infine si alza e lascia la tenda, va in linea di volo a seguire il lavoro degli specialisti. Prendo una tazza di caffè, mi siedo e fumo una sigaretta, ho bisogno di riposare un po’ ma comunque sono pronto a intervenire in caso di necessità. Facciamo i turni di allarme con la squadriglia tedesca, verso mezzogiorno apprendiamo che una loro squadriglia ha abbattuto un aereo e prima di andare a pranzo vado congratularmi col pilota, è lo stesso col quale ho parlato appena arrivato a Cáceres. Alle 14.30 decolla una nostra pattuglia e rientra dopo un’ora e venti minuti; pochi minuti prima del loro atterraggio, giunge notizia dagli osservatori che hanno abbattuto entro le nostre linee altri due velivoli, un pilota ferito è stato catturato e ricoverato in ospedale. Alla sera, in occasione di un briefing congiunto con gli Ufficiali Superiori spagnoli, veniamo elogiati per il lavoro svolto dal cap. Dequal che elenca gli abbattimenti e i nomi dei piloti, sette velivoli repubblicani contro nessuna perdita da parte nostra.
Il 12 settembre non mi vengono assegnate missioni di pattugliamento, sono in servizio d’allarme a difesa della base da eventuali attacchi aerei, seduto nell’abitacolo dell’aereo, pronto al decollo in pochi secondi. È una vera sofferenza col caldo che fa stare in tuta di volo, con il paracadute, imbracato con cinture e bretelle. Per tre volte debbo sopportare questa sofferenza, pur di decollare spero in qualche allarme, anche falso, ma nulla accade. Al briefing per l’indomani vengo assegnato alla pattuglia del cap. Morato, assieme al serg. Baschirotto, quest’ultimo arrivato dall’Italia con la seconda spedizione e alla sua prima missione. La nostra sarà la prima pattuglia della giornata. Baschirotto mi chiede alcuni chiarimenti sulla missione, è molto agitato e preoccupato ma faccio finta di non notarlo, gli raccomando solamente di non allontanarsi da noi, andiamo al bar e parliamo d’altro. Vado a letto presto ma non riesco ad addormentarmi subito ed al mattino l’attendente mi deve scuotere ripetutamente per svegliarmi.

Il combattimento aereo con il  Nieuport NiD52 DI di Fe”LixX Urtubi – 13 Ssettembre 1936
Mentre faccio colazione arriva Baschirotto. Poco dopo ci raggiunge il cap. Morato con la sua Hudson, si siede con noi per qualche minuto, poi ci alziamo e partiamo insieme per il campo di Tablada. Durante il viaggio ci accordiamo: chi avvista per primo il nemico sparerà una breve raffica e indicherà dov’è. Ripeto nuovamente a Baschirotto di rimanere calmo, di non emozionarsi qualunque sia il numero di velivoli che incontreremo e soprattutto di guardarsi bene alle spalle per evitare di trovarsi un aereo in coda e, nel caso ciò si dovesse verificare, di effettuare una cabrata o un’affondata con la massima pendenza. Il CR32 ha delle prestazioni sia in salita che in discesa che attualmente nessun velivolo riesce a uguagliare. Quando arriviamo in aeroporto gli specialisti sono al lavoro, gli aerei pronti ed allineati sulla linea di volo, il mio ha ancora problemi con le candele, così salgo su un altro. Prima di effettuare i controlli di routine vado all’aereo di Baschirotto e lo assisto durante il controllo delle mitragliatrici. Ognuno prende posto sul proprio aereo, i motori cominciano a girare quasi contemporaneamente, mentre stiamo controllando i magneti tre Heinkel rullano davanti a noi e i piloti ci salutano. Alle 07.00 decolliamo in formazione e ci dirigiamo verso il fronte, incontriamo i tre Heinkel che stanno raggiungendo i cinque Ju52 per scortarli, ci teniamo distanti da loro e continuiamo per Talavera de la Reina. Sorvoliamo ancora per un po’ le nostre linee e poi entriamo in profondità nello spazio aereo controllato dai repubblicani. Mentre stiamo per rientrare il cap. Dequal avvista un aereo solitario molto distante, è un velivolo da ricognizione, dirigiamo su di lui e subito dopo, a circa 500 – 600 metri più in basso, noto due aerei da bombardamento Potez che dirigono verso il fronte e dietro loro una formazione di tre caccia di scorta. Probabilmente sono sicuri che non possiamo penetrare così in profondità e non si guardano attorno. Mi avvicino al Capitano e sparo una breve raffica, oscillando le ali mi segnala che ha compreso e dirige verso l’aereo solitario. Io invece viro verso i caccia, preferisco evitare che siano loro a prendere l’iniziativa di attaccarmi per primi. Mantengo la quota fino a 600 – 700 metri da loro e poi picchio decisamente puntando l’aereo a sinistra della formazione. A circa 150 metri poso l’occhio sul collimatore a cannocchiale, con qualche piccolo aggiustamento lo centro e apro il fuoco, le scie delle traccianti finiscono sulla fusoliera, dietro la cabina di pilotaggio. Improvvisamente le fiamme avvolgono il velivolo, lo abbandono a se stesso e mi metto in coda al capopattuglia. Cerco di collimarlo, non ci riesco, cabra così violentemente che mi sfugge, lascio andare anche lui e tento di agganciare il gregario destro che inizia una manovra evasiva a destra ma non lo perdo, riesco a portarmi in coda senza grandi difficoltà, continua a manovrare per sganciarsi, lo lascio fare e intanto la distanza che ci separa diminuisce. Quando sono a non più di cinquanta metri lascio partire una raffica; inconsapevolmente lui manovra proprio nella direzione delle traccianti e ne viene investito in pieno, si staccano e volano via pezzi dell’aereo, vedo l’elica rallentare i giri e fermarsi, quasi sicuramente il pilota è stato colpito. Non sparo più, lo lascio alla sua sorte, dirigo sui bombardieri sotto di noi e intanto mi guardo attorno: non vedo gli altri caccia, forse stanno dirigendo velocemente alla loro base per evitare il confronto con i nostri CR32. Continuo l’affondata fino a portarmi un po’ più sotto ai bombardieri e, mentre sto risalendo per colpirli dal basso, vedo delle traccianti passarmi vicino, guardo dietro e vedo un caccia che mi sta sparando ancora distante e dall’alto. Lascio perdere i bombardieri, il caccia in picchiata ha raggiunto una velocità elevata e, quando mi è più vicino, porto la manetta al minimo, cabro e spingo la pedaliera a fondo corsa da una parte per far “derapare” l’aereo nel tentativo di farmi superare dall’inseguitore e trovarmelo davanti: non ci casca ed effettua un largo looping. Ridò motore e lo aspetto all’uscita dal looping, sono convinto di recuperare il mio svantaggio iniziale grazie alle eccezionali doti del CR32: se lo volessi potrei buttarmi in picchiata e sganciarmi, ma voglio confrontarmi con lui. Ho notato che quando raggiunge la sommità del looping rimane rovescio per qualche frazione di secondo per vedere dove sono. Riduco un po’ la potenza e “tiro” di più per costringerlo a stringere il looping e quando sta uscendo siamo muso contro muso. Lascio partire una lunga raffica, vedo le traccianti entrare poco sotto l’ogiva dell’elica, continuo a sparare e alzo leggermente il muso per correggere il tiro. Anche lui ha aperto il fuoco, lo vedo dalle vampate delle mitragliatrici. Deve aver incassato in pieno la mia raffica, in una frazione di secondo il serbatoio nella sezione centrale dell’ala, sopra la testa del pilota, esplode in una palla di fuoco. La velocità relativa è altissima e non ne ho tenuto conto, siamo in rotta di collisione, inclino di 90° e tento di schivarlo con una rapida virata a destra ma non ce la faccio, il suo carrello urta di striscio la semiala superiore ma l’impatto è comunque violento. L’aereo inizia una serie di tonneau incontrollabili, tolgo potenza e tento di fermare la rotazione sull’asse longitudinale: impossibile, i comandi non rispondono, la cloche è bloccata fondo corsa a destra. Guardo l’ala per valutare il danno, l’estremità superiore sinistra è piegata fino all’altezza del montante esterno, ho perso il controllo degli alettoni. Porto la pedaliera a fondo corsa a sinistra, provo a togliere motore, la rotazione non si ferma, rallenta solo, non mi rimane che lanciarmi.

Il lancio con il paracadute
Verifico che il moschettone di apertura del paracadute sia agganciato, slaccio le cinture di sicurezza, metto il motore alla massima potenza affinché l’impatto con il suolo distrugga il più possibile ogni parte del velivolo. Sono a circa 500 metri dal suolo, mi sollevo sul bordo dell’abitacolo, punto i piedi sul seggiolino e l’aria mi investe violentemente, do una spinta verso l’esterno e precipito nel vuoto. Il paracadute si apre con un secco schiocco strattonandomi sull’imbracatura. Mentre oscillo appeso al paracadute comincio subito a guardarmi intorno, il mio aereo sta ancora precipitando, lo seguo finché si schianta al suolo senza incendiarsi, due colonne di fumo si alzano non molto lontano, sono i due aerei repubblicani abbattuti. Cerco di capire dove sono: vedo il Tago in lontananza, dove penso ci siano le nostre truppe, spero che nel frattempo siano avanzate verso di me, il vento mi sta facendo scarrocciare proprio nella zona che dovrebbe essere in mano ai Repubblicani. Manovro le funi del paracadute nel tentativo di accelerare la discesa, temo di finire nelle linee nemiche, mentre mi avvicino al suolo comincio a sentire il sibilo di pallottole, sono io il bersaglio. Non vedo alcuna trincea e ho la certezza di essere finito in territorio ostile. Finisco dentro un fossato secco, mi stendo per occultarmi e orientarmi, sgancio il paracadute e mi allontano. Dopo una ventina di metri mi metto a correre nella direzione del fiume, mi fischiano intorno le pallottole, quando gli schizzi di terra dei proiettili si avvicinano mi butto nelle buche più vicine. Il fuoco si fa meno intenso, mi rialzo e riprendo a correre più che posso, improvvisamente un’esplosione davanti a me mi butta a terra, ho il timore di essere ferito, rimango steso per qualche secondo, sono stordito. Controllo se ho del sangue, fortunatamente tutto è a posto. Riprendo a correre, una seconda granata esplode vicino, rotolo in una buca, ci sono dentro una decina di miliziani, sono sorpresi quanto me, nessuno di loro si muove, non realizzano il perché di questa inaspettata irruzione. Poi uno di loro, senza proferir parola, si alza, mi viene addosso col fucile, mi da un colpo di baionetta che schivo, la lama si infila nella manica all’altezza dell’ascella e il mirino mi scalfisce il torace. Gli sferro un calcio all’inguine e gli afferro il fucile, gli altri miliziani mi saltano addosso mentre due bloccano il compagno che mi aveva assalito.

La cattura
Mi legano e mi perquisiscono, ho ancora indosso la pistola, non l’ho mai levata dalla fondina, me la tolgono e quello che sembra essere il più alto in grado, forse un caporale, mi chiede perché non l’ho usata. Rispondo che “non avrei risolto nulla anzi, avrei peggiorato la situazione”. Una granata esplode vicina e una pioggia di detriti ci investe, il “caporale” dice che bisogna andarsene perché la Falange sta avanzando, sono già a meno di un chilometro e mezzo. Mi tolgono le scarpe, se ne appropria uno di loro, mi svuotano le tasche, mi aprono il portafogli e si prendono subito cinquecento pesetas e una piccola agendina con tutti gli indirizzi, le fotografie di mio padre, mio fratello Carmine e Ada. Uno di loro mi chiede se Ada è mia moglie o mia sorella, rispondo “mia moglie”, sta per restituirmela ma interviene quello che voleva “trafiggermi” con la baionetta, gliela strappa di mano e la butta via. Gettano anche l’agenda con gli indirizzi, mi lasciano solo il mio portafortuna, un piccolo ciondolo con un cane. Un’altra granata esplode sul bordo della buca, veniamo coperti di detriti e vengo colpito da una pietra, non sono ferito ma dolorante, mi massaggio la spalla colpita. Mi mettono tra quattro di loro e mi conducono fuori dalla buca strisciando carponi fino a una trincea abbastanza profonda da poter stare in piedi e che conduce verso le retrovie. Camminiamo per circa un chilometro e impieghiamo un’ora prima di uscire a lato della strada principale che porta a Toledo. Una volta sulla strada mi legano le mani dietro la schiena e l’individuo che comanda il gruppo mi dice che sarò portato dal “Generale”. Non molto distante c’è una grande Buick Touring, mi ci spingono dentro, nei sedili posteriori, in mezzo a due guardie armate. Tre di loro si siedono di fronte a noi sugli strapuntini e due di fianco al conducente. Quattro di loro viaggiano in piedi all’esterno della vettura e si guardano intorno, a un certo punto scorgono tre Ju52 scortati da cinque caccia, l’autista prontamente esce di strada e si ferma sotto alcuni alberi, scendiamo tutti. Cerco di riconoscere i velivoli della scorta, la guardia che era seduta alla mia destra mi chiede se sono miei compagni, rispondo che sono tedeschi, la formazione prosegue sulla sua rotta e risaliamo tutti in macchina. Il “caporale” si rende conto che ho difficoltà a stare seduto con le mani dietro la schiena, mi scioglie e le lega davanti.

L’interrogatorio del generale Asensio
Viaggiamo per dieci o quindici chilometri sulla strada principale poi il conducente imbocca una strada sterrata di campagna, percorriamo altri due chilometri e ci fermiamo davanti a una grande fattoria. Mi spingono fuori dalla macchina e mi ordinano di stare sempre in mezzo a loro. Alcuni uomini escono dalla fattoria e si fermano a guardarmi in silenzio, l’unico esagitato è il miliziano che aveva tentato di colpirmi con la baionetta, che continua a insultarmi e mi sputa addosso. Il suo superiore, spazientito, gli dice di smetterla se non vuole che gli arrivi il calcio del fucile in testa. Intanto arrivano quattro uomini che portano un ferito su una barella. Un medico dà loro le istruzioni, posano la barella e attendono un furgone che deve arrivare da dietro l’edificio. L’uomo in barella chiede a una delle guardie chi io sia. “Un pilota falangista, fatto prigioniero nei pressi di Talavera de la Reina”, è la risposta. Il ferito chiede alle guardie di condurmi vicino a lui, intende farmi alcune domande, mi chiede su quale aeroplano volavo e se sono il pilota che da solo ha attaccato la pattuglia dei tre caccia. Gli rispondo, mi osserva per qualche secondo in silenzio e rivolgendosi alle guardie attorno a me esclama: “Es un chico!” (“È un ragazzo!”). Mi domanda come sono caduto prigioniero, gli racconto della collisione in volo con il leader della loro pattuglia e che ho perso il controllo del mio aereo e mi sono lanciato. Gli chiedo come si sente. “Molto male”, mi risponde, è stato operato da poco e gli hanno estratto due pallottole. Arriva il furgone, lo sollevano, mi inchino augurandogli “Mucha suerte”, in spagnolo, mi sorride mentre lo portano via. Il dottore mi dà un’occhiata e ritorna nell’edificio, una guardia esce e mi fa portare dentro. Vengo condotto in una grande stanza con delle mappe appese alle pareti, dietro a un grande tavolo è seduto un generale, chino il capo per salutare, non lo posso fare con le mani perché sono legate, lui comprende al volo e ordina di slegarmi e di lasciarmi solo con lui, ricambio l’attenzione con un breve sorriso. Mi fissa qualche attimo e mi chiede quanti anni ho. “Ventidue e sei mesi”, rispondo, vuole anche le mie generalità e gli do quelle vere, non quelle assegnatemi alla partenza dall’Italia. Continua chiedendomi da dove vengo e rispondo anche in questo caso con la verità, mi fa anche qualche domanda sul fronte e sulle nostre operazioni, gli spiego che sono giunto da pochi giorni dal Marocco e non insiste ulteriormente. Mi chiede se ho mangiato, rispondo “Solo una tazza di caffè prima di partire per la missione”. Chiama la guardia e fa portare due tazze di caffè e dei biscotti. Mentre prendiamo il caffè mi fa qualche altra domanda e gli ripeto che non conosco neanche con esattezza la linea del fronte. Mi offre una sigaretta e mi lascia tutto il pacchetto, dice di essere il Generale Asensio, il Comandante in Capo di questo fronte, e mi comunica che sarò trasferito a Madrid per essere sottoposto a ulteriori interrogatori. Chiama la guardia e gli dice di far entrare il sergente che mi ha accompagnato, gli dà disposizioni per il mio trasferimento immediato a Madrid, al Ministero della Marina e dell’Aria, e si raccomanda di non maltrattarmi. Sono di nuovo legato e condotto fuori, mi fanno salire sul sedile posteriore della Buick, questa volta mi accompagnano solo tre guardie. Partiamo per Madrid.

L’incontro con i piloti repubblicani
Lungo la strada facciamo una sosta all’aeroporto di Toledo dove ci attendono alcuni piloti che, avuta la notizia della mia cattura e del mio trasferimento a Madrid, hanno chiesto di incontrarmi. Quando mi vedono anche loro rimangono sorpresi per la mia giovane età, uno di loro mi offre un bicchiere di Benedectine e di anice. Mi rivolgono alcune domande sulle caratteristiche del CR32. Rispondo che è considerato il miglior caccia oggi impiegato sul teatro spagnolo e fra i più moderni in assoluto. Mi dicono che questa mattina quattro dei loro aerei non sono rientrati da una missione di scorta a due bombardieri, uno dei piloti è rientrato a Madrid gravemente ferito ed è stato necessario operarlo d’urgenza. Altri due aerei risultano abbattuti, uno dei piloti era l’asso della loro Caccia, Félix Urtubi, tuttora disperso. Mi guardo bene dal dichiarare che sono stato io ad abbattere i loro aerei, l’altro abbattimento deve essere stato opera del cap. Morato. Alcuni piloti si dimostrano cavallereschi e mi invitano a pranzo con loro, un paio invece sono bruschi e infastiditi dalla mia presenza, sono comportamenti e sentimenti del resto ben comprensibili, avendo perso alcuni loro compagni. Il sergente che comanda la scorta dice che dobbiamo riprendere il viaggio per Madrid il più presto possibile, mi viene offerto un altro bicchiere di Benedectine e ripartiamo. Il viaggio procede senza imprevisti, ci fermiamo per fare rifornimento e continuiamo alla volta di Madrid, le guardie non dicono chi sono alle persone che incontriamo o che ci fermano per controlli, nel timore che mi possa succedere qualcosa.

L’arrivo a Madrid
Dopo un paio d’ore giungiamo a Madrid, attraversiamo la città e incontriamo una parata con dei giovani che indossano sgargianti indumenti tradizionali di colore rosso. Il sergente dice al conducente di prendere la strada per la “Puerta del Sol”, sarà più facile arrivare al Ministero della Marina e dell’Aria. Arriviamo al Ministero alle 14.30, mi fanno scendere e mi conducono in una cella utilizzata come deposito di carbone, non c’è luce eccetto quella che viene dallo spioncino della porta. Un marinaio viene a darmi un’occhiata attraverso lo spioncino come se fossi un animale raro, non ci faccio caso, non c’è nulla ove sedersi e così mi metto in un angolo del pavimento, discosto dalla porta. Verso sera una guardia apre la porta, mi butta un sottile materasso, così poco imbottito che sembra più una coperta e posso sentire le pietre del pavimento, lo sistemo lungo il muro, mi stendo e provo riposare. Sono molto stanco, sono sveglio dall’alba e in poche ore ho vissuto le più disparate esperienze, cerco di dormire ma la guardia viene a svegliarmi battendo sulla porta in continuazione. Va avanti così tutta la notte e anche se non dormo almeno riesco a riposare stando disteso.

L’interrogatorio con Pietro Nenni – 14 settembre1936
Il mattino successivo vengo condotto in un ufficio nei piani superiori, la stanza è molto grande, vi sono alcuni Ufficiali e dei civili dall’aspetto autorevole dietro un lungo tavolo. Tra loro c’è un signore alto e grasso, con spessi occhiali, la cui voce sovrasta le altre. Accanto a lui c’è un uomo che gli assomiglia tanto da sembrare suo fratello, pure lui con gli occhiali. Ho ancora le mani legate, mi dicono di sedermi, l’ufficiale che deve interrogarmi mi chiede se parlo lo spagnolo, rispondo che lo parlo poco; un altro mi chiede se parlo l’italiano, gli rispondo abbastanza, al che mi domanda che cosa intendo per “abbastanza”, rispondo che la mia lingua madre è l’inglese. Il mio interlocutore, che si esprime in perfetto italiano, mi dice che parla a nome del Ministro della Marina e dell’Aria, del Governo spagnolo, dice di essere Pietro Nenni e di essere antifascista. Lo guardo e immagino che legga sul mio volto ciò che penso di lui, che sta combattendo contro il suo stesso popolo. Mi chiede da dove provengo; lo guardo, prendo tempo nel rispondergli, gli dico che vengo dagli Stati Uniti e che vivo a New York City. Rimangono tutti colpiti da questa mia affermazione, chiarisco che sono un cittadino americano. Mi chiede come mai sia in Spagna a combattere per il generale Franco e voli su aerei italiani. Rispondo in italiano che ho le mie idee e che sono contrario al comunismo. Mi domanda quanto sono pagato per combattere. Rispondo: “Duecento dollari al mese, più le spese”. Il ministro vuol sapere dove mi sono arruolato con i ribelli del generale Franco, dico a Melilla nel Marocco spagnolo. Non credono che sono americano ma non cedo e insisto con la mia dichiarazione. Il ministro chiama un ufficiale del Dipartimento della Marina e gli ordina di rintracciare subito qualcuno che parli perfettamente l’inglese. Mentre attendiamo alcuni di loro mi chiedono informazioni sul fronte e da quanto tempo sono in Spagna. Rispondo che sono arrivato dal Marocco da non molto e che quello che so sul fronte è ben poca cosa. Mi dicono che se continuo a essere reticente verrò fucilato, insisto che non sono a conoscenza di nulla. Pietro Nenni con tono di voce alterato esclama “Sei un avventuriero che combatte per denaro e senza alcun ideale!”. Lo guardo e rispondo “Il denaro non è tutto nella vita”, e lui sempre a voce alta risponde “Abbiamo tutte le ragioni per mandarti davanti ad un plotone d’esecuzione”. Ribatto “Potete farlo ma ciò non vi porterà alcun vantaggio”. Mi guarda e non aggiunge altro. L’ufficiale di Marina ritorna con un collega e il ministro gli dice di interrogarmi in inglese e di tradurre tutto ciò che dico. Mi chiede da dove vengo, della mia famiglia, dei miei studi e via dicendo. L’inglese non è la sua madre lingua ma lo parla discretamente, rispondo alle sue domande e infine l’ufficiale si rivolge al ministro dicendogli che il mio inglese è perfetto, e che quanto meno ho vissuto molti anni negli Stati Uniti. Aggiungo che se non mi credono o hanno dei dubbi il Governo Spagnolo può contattare il loro Console a New York e verificare se quanto da me dichiarato corrisponde a verità. Mi chiedono se ho il passaporto, rispondo che è andato distrutto con il mio aereo. Resosi conto che non voglio o non posso fornire loro informazioni utili, il ministro ordina che venga riportato in cella. A mezzogiorno mi portano del merluzzo, un piatto di lenticchie e un bicchiere d’acqua, è il primo pasto da quando sono caduto prigioniero, mi sento debole. Mangio il merluzzo ma non riesco mangiare le lenticchie, sono rancide. Mi stendo sul materasso e penso che sono stato sottoposto al mio primo interrogatorio, sicuramente ne seguiranno altri. Nel tardo pomeriggio due miliziani si fanno aprire la mia cella ed entrano, uno dei due estrae la pistola e me la punta all’orecchio e mi invita a recitare le preghiere, dice che mi manda alla “Corrida”. Non mi muovo e non FIATo, fisso il suo collega, dopo alcuni interminabili secondi ripone con calma la pistola nella fondina e mi chiede divertito “Hai avuto paura?”. Mi chiede se fumo e mi offre una sigaretta, la guardia che è presente dice che non è permesso fumare ma chiude un occhio. Mi confida che è di Santander, nel Nord della Spagna, una enclave isolata dai nazionalisti, non ha più notizie della sua famiglia. Gli dico che mi dispiace, purtroppo questa è la guerra. La guardia li invita ad andarsene prima che arrivi l’ufficiale d’ispezione. Il miliziano getta la sigaretta appena iniziata sul pavimento ed esce, sapeva che l’avrei raccolta. Rimango solo, il resto della giornata trascorre senza altri imprevisti, durante la notte la guardia viene a controllarmi un paio di volte. Sono in cella da tre giorni, senza poter lavarmi o radermi e il mattino del quarto giorno arriva un ufficiale che ordina alla guardia di accompagnarmi ai servizi igienici e di controllare che mi lavi e che mi rada e poi di portarmi nel suo ufficio. È difficile spiegare la piacevole sensazione che si prova nel sentire l’acqua scorrere sul corpo e sul viso dopo tanti giorni. Lavato e rasato vengo condotto in un ufficio ai piani superiori, ci sono molte persone in piedi e disposte a circolo nella sala, il ministro è seduto al centro dietro la scrivania. Quando tutti sono sistemati dice che sono un pilota della Falange, fatto prigioniero a Talavera. Un cronista spagnolo presente mi fa delle domande sul fronte e sull’aeroporto da dove sono decollato, rispondo solamente che sono decollato da Cáceres, mi chiede di dove sono e dove sono nato. “Sono di City Island nel Bronx, New York e nato a Newburg”, rispondo e gli do anche l’indirizzo di casa. I giornalisti vengono fatti uscire e il mio interrogatorio continua, ripeto le stesse cose che ho detto nei giorni scorsi. Sono presenti anche due ufficiali della Forza Aerea Repubblicana, mi pongono alcune domande, rispondo che non sono in grado di dare loro le informazioni richieste perché sono in Spagna da pochi giorni. Mi dicono di aver assistito al mio combattimento, loro erano a bordo dei bombardieri scortati proprio dai caccia che ho attaccato. Terminato l’interrogatorio vengo riportato in cella.

Trasferimento alla caserma Conde Duque
In piena notte vengo svegliato e fatto uscire dalle guardie. Immagino che sia la fine, mi stanno portando davanti al plotone d’esecuzione. Una vettura ci attende col motore acceso, vengo spinto sul sedile posteriore, chiuse le portiere usciamo dal portone principale del Ministero. I tre miliziani che mi scortano mi guardano come se volessero dirmi qualcosa, ho il presentimento che sia la fine, chiudo gli occhi e penso alla persone più care, al babbo, a mio fratello Carmine e ad Ada, mi dispiace aver causato loro tanti problemi, tra me e me li saluto, so che non li rivedrò più in questo mondo. Il capo dei miliziani che mi è accanto mi dà un colpetto sul gomito, apro gli occhi, con le mani legate mi asciugo le lacrime che mi scendono sulle guance. La guardia, che sembra un buon uomo, mi dice a bassa voce “Pasa nada, hombre”. Lo guardo sorpreso e lui risponde con un sorriso. L’autovettura si ferma davanti a un grande edificio, l’autista chiede al militare di guardia se è il Cuartel “Conde Duque”, ci aprono il portone, entriamo e mi fanno scendere, siamo in nell’ampia corte di una caserma di fanteria. Dicono di seguirli e mi conducono in un ufficio dove un gruppo di miliziani seduti attorno a un tavolo stanno discutendo. Mi consegnano a quello che ha delle grandi bande rosse al braccio e sembra essere il responsabile; non c’è nella sala alcun ufficiale anche perché gran parte è stata arrestata o fucilata. La guardia dice che sono un pilota fatto prigioniero a Talavera de la Reina e gli consegna una lettera che lui legge e passa a chi gli sta accanto. Chiama poi alcuni dei suoi uomini, che sembrano già pronti a giustiziarmi. Li guardo negli occhi ma loro evitano di incrociare il mio sguardo; ordina loro di rinchiudermi in un angusto sgabuzzino vicino al corpo di guardia, dove mi possono tenere sott’occhio. Il locale non è illuminato, resto al buio tutta la notte. Al mattino mi accompagnano al bagno e mi posso lavare un po’, mi danno un caffè in cortile, assieme a un gruppo di militari detenuti nell’altra ala dell’edificio.

La finta esecuzione
Nei due giorni successivi vengo lasciato solo ma ogni ora una guardia viene a controllarmi. Il terzo giorno, alle sei del mattino, mentre sono steso sul materasso e guardo il soffitto aprono la cella e mi trascinano fuori, in otto mi circondano e marciamo verso un alto muro perimetrale in fondo alla caserma. Mentre marciamo nell’ala destra della caserma vedo i prigionieri alle finestre che mi guardano e quando passo vicino si ritirano. Mi fermano con le spalle al muro, la squadra si allinea di fronte a me e imbraccia il fucile, la guardia che comanda il plotone ordina di puntare. È questione di qualche frazione di secondo, ho il cuore in gola, è finita! Passano alcuni secondi e non succede nulla, attendo la parola “Fuoco!” e la scarica di proiettili, rimango ritto in piedi, non capisco. La guardia fa posare i fucili, mi rimettono al centro del plotone e marciamo di nuovo verso la cella. I prigionieri sono di nuovo alle finestre e ora gridano “Cabrones!” (caproni) all’indirizzo della squadra. Sono di nuovo in cella, dopo un’ora una guardia apre e mi porge una scodella di caffè caldo con del pane, mi chiede se ho avuto paura. Rispondo che chiunque l’avrebbe avuta, ma tuttavia se debbo morire preferisco saperlo l’ultimo momento, almeno non ci penso sopra. Si accende una sigaretta, prende alcuni biscotti e me li offre. “Domani”, mi dice, “ti porto un po’ di frutta. Non è consentito, non devi dirlo a nessuno”. Lo ringrazio e se ne va. Come ogni pomeriggio recito le mie preghiere, chiedo a Dio che, se la sorte vuole che sia fucilato, mi dia serenità e coraggio.

La riparazione di un FIAT 509
Poco dopo la guardia che comandava il plotone d’esecuzione apre la porta della cella e mi chiede se ho qualche conoscenza delle automobili FIAT. Rispondo “Un po’”. Mi ordina “Vieni fuori e vedi se riesci a metterla in moto. Dobbiamo partire”. È una piccola FIAT 509 Spider. Controllo che ci sia carburante nel serbatoio, è mezzo pieno, apro il rubinetto della benzina e chiedo la chiave d’accensione, me ne danno alcune che trovano al posto di guardia ma non sono adatte. Chiedo che mi procurino un cavetto elettrico e dietro al cruscotto collego direttamente tra loro i cavi d’accensione, mi siedo al posto di guida, innesto una marcia e dico loro di spingere. Dopo alcuni tentativi il motore si avvia. Le guardie esultano di gioia, faccio un giro del piazzale, mi fermo, scendo e faccio salire la guardia. Fa un paio di giri, ma ora ha il problema di come spegnere il motore, dovrebbe scollegare i cavi dietro il cruscotto, è troppo complicato per lui. Ho un’altra idea, riconnetto i cavi dietro il cruscotto, chiedo un coltellino, lo infilo al posto della chiavetta e armeggio finché trovo la posizione giusta, la serratura gira, premo il pulsante dello starter e il motore parte. Sale nuovamente sulla vettura e fa un giro del piazzale, scende e soddisfatto mi dice: “Bravo, ci sai fare coi motori!”. Controllo anche il livello dell’olio, mi ringrazia, mi accompagna in cella e prima di chiudere la porta mi allunga tre sigarette. Chiedo a una guardia da dove è arrivata la FIAT, mi dice che apparteneva al Comandante della caserma prima che venisse giustiziato dai repubblicani. Più tardi il capo dei miliziani viene in cella per parlarmi, si dice dispiaciuto per quanto ha fatto in mattinata, il suo intento era solo di spaventarmi e osserva “Non sembravi poi tanto spaventato, ho riservato lo stesso trattamento ad altri prigionieri e sono svenuti prima che pronunciassi la parola ‘Fuoco’”, e aggiunge “Stai tranquillo, da oggi non devi più temere che qualcuno ti faccia del male. Questi sono gli ordini del Ministro”. Mi sento un po’ sollevato, ma Dio solo sa per quanto ancora dovrò restare prigioniero.

La visita dei funzionari dell’ambasciata americana
Nel tardo pomeriggio, mentre sono seduto immerso nei miei pensieri, una guardia dallo spioncino della porta mi dice che sono arrivati due civili con una lettera del Ministero della Guerra che chiedono di intervistarmi. Secondo lui vengono dall’Ambasciata degli Stati Uniti. Mi pettino e mi riordino come posso. Dopo alcuni minuti il capo dei miliziani viene nella cella con i due civili, fa portare due sedie e assiste al colloquio. Cominciano a farmi domande in inglese. Penso siano dei giornalisti, poi uno dei due dice che è un funzionario dell’Ambasciata degli Stati Uniti, il suo nome è Eric Wendelin. Vuol sapere se ho un passaporto americano, rispondo che è andato perduto nell’incidente e che l’ho rinnovato a Trieste nel maggio scorso prima di lasciare l’Italia. Prende nota di tutto e mi dice di pazientare, vuol vedere cosa può fare per me. Prima di andarsene mi chiede come vengo trattato, rispondo “Come ogni altro prigioniero”. Mi chiede com’è il vitto, gli mostro ciò che mi hanno portato per la sera e che non ho toccato, annusa storcendo il naso e osserva che sa di rancido. “Questo è il motivo per cui non posso mangiare”, gli dico. Si informa se fumo e se ho sigarette, estrae dalla tasca un pacchetto e me lo porge. Nota che dormo sul pavimento e mi chiede se mi serve una coperta. “Certamente”, rispondo, “durante la notte fa freddo”. Mi assicura che me ne manderà una domani. Prima di andarsene mi incoraggia a tenere duro e mi invita a non commettere sciocchezze. Li ringrazio e se ne vanno. Ora mi sento molto più sereno, penso che il peggio sia passato e l’aver parlato nella mia lingua madre, anche se per pochi minuti, mi ha sollevato il morale. Andati via i funzionari dell’Ambasciata, il capo delle guardie viene nella cella e mi chiede perché non gli ho mai detto che sono americano. “Non me l’hai mai chiesto”, rispondo. Apro il pacchetto di sigarette appena consegnatomi, ne sfilo una per me e una offro a lui, mi guarda come se volesse dirmi qualcosa, poi tira fuori dalla tasca l’accendino e avvicina la fiamma prima alla mia e poi alla sua sigaretta. La assapora in silenzio, chiama infine un paio di guardie e ordina loro di sistemarmi in un luogo migliore. Vengo trasferito in un garage, pieno di luce e di aria fresca. Una delle guardie ha l’ufficio lì vicino, ascolta sempre la radio e, se non c’è troppo rumore, posso sentire la musica e soprattutto i notiziari. Ho anche una brandina e finalmente trascorro una notte senza svegliarmi in continuazione. Al mattino mi consegnano sapone e rasoio, posso radermi e lavarmi, anche piccole cose come queste si apprezzano nei momenti difficili della vita. Mi portano perfino del caffè e del pane, il resto della giornata lo passo camminando nella mia nuova prigione. Alle 18 ricevo la visita di un giovane, William Krieger: viene dall’Ambasciata degli Stati Uniti, mi porta un thermos con della minestra calda, pane, una fetta di torta e della frutta, il tutto inviatomi personalmente dal cuoco dell’Ambasciata. Mi prega di mangiare subito la minestra perché deve riprendere il thermos, si siede accanto a me e parliamo della mia situazione. Mister Wendelin, mi spiega il giovane, sta facendo tutto il possibile per me e non debbo preoccuparmi. Si rivolge anche alla guardia e noto che parla correntemente lo spagnolo. Mi consegna un pacchetto di sigarette, me n’erano rimaste solo tre, ne accendo subito una e un’altra la offro alla guardia che la accetta volentieri e mi dice “Attento che il superiore non ti becchi mentre fumi”. Prima di andarsene mister Krieger mi chiede se mi serve ancora qualcosa. “Se fosse possibile gradirei qualcosa da leggere, tanto per far passare il tempo”, rispondo. Il trattamento riservatomi ora è migliorato e per di più tutte le sere il signor Krieger mi porta qualcosa da mangiare e, quando è impegnato, manda qualcun altro dell’Ambasciata. Quel che l’Ambasciata mi invia è tanto abbondante che a volte conservo qualcosa per il mattino successivo. Ho fatto amicizia con alcune guardie, quando mi avanzano sigarette gliele regalo e loro in cambio mi portano della frutta. Le giornate trascorrono lentamente e mi sto rassegnando a questa vita. Mr. Wendelin ultimamente viene a trovarmi due volte al giorno, in una delle sue visite mi conferma che tutto ciò che ho detto in relazione al passaporto è stato confermato dal Consolato di Trieste e che ha attivato i canali diplomatici per liberarmi e riconsegnarmi agli Stati Uniti.

La fine della prigionia – 25 novembre1936
Il 74° giorno di prigionia sto per coricarmi quando una guardia entra nella cella, mi dice che alcune auto sono ferme davanti all’ingresso principale e che quattro persone sono scese e che stanno parlando col capo delle guardie. Aggiunge che a suo parere si tratta dell’ambasciatore degli Stati Uniti o comunque di un funzionario molto importante. Mi lascia solo e prima di andarsene mi dice “Mucha suerte”, “Buona fortuna”. Mi stendo sulla brandina e faccio finta di leggere; dopo qualche minuto arriva il capo delle guardie, apre la porta ed entra, mi invita a prendere i miei pochi effetti personali e a seguirlo, ci dirigiamo verso l’ingresso della caserma dove sono ferme le due auto. Una delle due porta una bandierina degli Stati Uniti sul parafango anteriore, nell’altra ci sono alcuni miliziani che rimangono seduti nella vettura e che probabilmente hanno ordine di scortare il mezzo dell’ambasciata. Mi dicono di prender posto nella prima, mr. Wendelin è sul sedile posteriore e, quando mi siedo accanto a lui, mi accoglie sorridente stringendomi la mano. Poi  scambia alcune parole con il capo delle guardie, lo saluta e ordina all’autista di portarci subito all’Ambasciata. Sono nuovamente un uomo libero, ringrazio lui e la Divina Provvidenza per avermi tirato fuori da questo pasticcio!

All’ambasciata U.S.A. di Madrid
Sulla strada per l’ambasciata mi chiede se so che giorno è oggi, rispondo che non ne ho la minima idea, durante la prigionia ho perso la cognizione del tempo. “Oggi è una giornata particolare, è il 25 novembre, il Thanksgiving Day, il Giorno del Ringraziamento”, risponde. L’autovettura entra nell’ambasciata, scendiamo e andiamo nell’ufficio di mr. Krieger. Mr. Wendelin gli dice di trovarmi una sistemazione, lui deve recarsi a prelevare un altro cittadino americano detenuto nel carcere civile. Mr. Krieger mi accompagna nelle sale sopra l’autorimessa dell’ambasciata e mi sistema nella sua stanza. Prima di andarsene mi chiede se mi serve qualcosa. “Vorrei fare una doccia prima di tutto”, rispondo. Mi porta un pezzo di sapone e aggiunge: “Purtroppo non abbiamo l’acqua calda”. “Dopo due mesi di carcere non è certo questo un problema. Va bene anche l’acqua fredda”, rispondo. Quando esco dalla doccia mi porge un suo abito, mi suggerisce di provarlo, lo farà adattare alla mia taglia se necessario e aggiunge “Non chiamarmi Mister ma William o Bill”. Diventiamo buoni amici. Più tardi, dopo circa un’ora, arriva mr. Wendelin assieme a un altro ragazzo che era detenuto fino a poco fa: alcune persone di nazionalità americana gli vanno incontro, lo baciano e lo abbracciano, sono suoi parenti e amici che vivono in Spagna e sono da alcuni giorni in Ambasciata ad attenderlo. Danno da mangiare a entrambi, le cuoche sono così emozionate per la nostra liberazione che piangono anche loro per la gioia. Quando abbiamo finito di mangiare il padre del ragazzo prende una chitarra, la porge al figlio e lo invita suonare: rimango incantato per come suona le canzoni spagnole, i tango e perfino le romanze d’opera, è veramente fantastico. Nel pomeriggio, verso le cinque, suona l’allarme aereo e tutto il personale dell’Ambasciata corre nel rifugio. Rimango solo nel salone e quando sento il rumore degli aerei esco per osservarli. Due forti esplosioni fanno tremare il palazzo, la reazione della contraerea è quasi nulla. Alcuni aerei sorvolano alti l’Ambasciata, un paio di edifici a circa mezzo miglio da noi debbono essere stati colpiti, vedo infatti il fumo nero degli incendi salire al cielo. Credo che oggi sia stata la prima volta che gli aerei hanno bombardato Madrid, durante la prigionia non ne ho mai sentiti. Alla sera, dopo cena, mi intrattengo con il ragazzo liberato e con i suoi amici e parenti, verso mezzanotte andiamo a letto. Dopo aver dormito per due mesi su una brandina stento a prender sonno. Penso ad Ada, vorrei scriverle ma purtroppo il suo indirizzo era nell’agendina che mi è stata tolta quando sono caduto prigioniero. Mi sento scuotere, apro gli occhi: Bill è accanto al letto, mi dice che è in piedi da un bel po’, è ora di alzarsi. Mentre mi sto vestendo mi chiede chi è Ada. Rimango sorpreso dalla domanda, non ho mai accennato di lei a nessuno, mi dice che l’ho chiamata diverse volte nel sonno, mi chiede se è carina. “Molto”, rispondo. Mi lavo, mi vesto e andiamo tutti e due a fare colazione nella cucina dell’Ambasciata. Le cuoche sono molto cordiali, continuano a portarci da mangiare, le ringrazio, la più anziana mi dà un bacio sulla guancia e dice “Vaya con Dios”, che Dio ti accompagni. Bill deve andare al lavoro nel suo ufficio e rimango solo, gironzolo nel salone dell’Ambasciata, leggo alcuni giornali che trovo in giro, mi affaccio alla finestra: per strada, appena fuori dall’Ambasciata, ci sono continui movimenti di truppa. Dalla periferia di Madrid giunge fin qui il cupo boato dei cannoni. Ho occasione di osservare sul cielo di Madrid alcuni dei nuovi monoplani repubblicani di costruzione russa, i Polikarpov I-16: assomigliano molto ai “Gee Bee” da corsa. Bill mi racconta di un episodio accaduto il 5 novembre sul cielo di Madrid: c’è stato uno scontro spettacolare tra nove caccia italiani e una quindicina di caccia repubblicani, sette di quest’ultimi sono stati abbattuti dagli italiani, un solo aereo italiano è caduto in fiamme e il pilota si è lanciato, è stato raccolto gravemente ferito a una gamba e ricoverato in un ospedale di Madrid dove gli è stata amputata. Bill è autorizzato a lasciare l’ambasciata per motivi di lavoro ed è spesso in città, mi mette al corrente che diverse ambasciate straniere sono in procinto di essere trasferite a Valencia e anche noi ce ne andremo entro un paio di giorni. Un mattino verso le cinque siamo invitati a raccogliere i nostri effetti personali, l’ambasciata deve spostarsi in tutta fretta alla volta di Valencia. Alle nove arrivano tre autobus con i quali lasciamo Madrid, ci raccomandano di non scendere per alcun motivo salvo situazioni di pericolo immediato, il viaggio dovrebbe durare una decina di ore. Lungo la strada mr. Wendelin ferma l’autobus nel quale mi trovo, mi fa salire sulla sua autovettura e indica al conducente dell’autobus un albergo dove prelevare alcuni rifugiati americani, dovrà poi proseguire in fretta verso il porto, far scendere i passeggeri e recarsi negli alberghi che lui gli indica per prelevare altri rifugiati.

Imbarco a Valencia su incrociatore U.S.A.
Giungiamo nella zona portuale in pochi minuti, la nostra macchina si arresta vicino a un gruppo di marinai americani che ci stanno attendendo, mr. Wendelin si presenta all’ufficiale che li comanda. Ci fanno salire a bordo di un motoscafo, poi salgono a bordo anche loro e usciamo dal porto. Fuori dalle dighe frangiflutti l’imbarcazione accosta verso un incrociatore all’ancora non molto distante. Quando siamo vicini leggo il nome sulla fiancata dello scafo: “U.S.S. Raleigh”. Un marinaio ci aiuta a salire a bordo poiché il mare è mosso e piove. Mr. Wendelin si apparta per un minuto col comandante della nave, poi mi chiama e mi presenta. Mi raccomanda di rimanere a bordo fino a domani, quando tornerà assieme ad altri rifugiati, ci saluta e riparte con l’imbarcazione. Il comandante mi chiede se sono il pilota delle Forze Aeree ribelli del generale Franco catturato dai Repubblicani. Rispondo “Sì signore, sono io!”. Sa anche che prima di venire a combattere in Spagna sono stato in Etiopia, mi chiede l’età e poi quanti aerei ho abbattuto, rispondo “Cinque, ma uno non mi è stato confermato”. Vuol sapere cosa penso di Franco. “Credo che il gen. Franco stia mettendo in difficoltà i Repubblicani, nonostante gli ingenti aiuti della Russia e Francia”, rispondo. Sorride e mi dà la mano. Prima di congedarmi chiama un sottufficiale dicendogli di sistemarmi per la notte nella torretta dei cannoni di poppa e di offrirmi qualcosa da mangiare. Ringrazio e seguo il sottufficiale che mi trova una brandina, due lenzuola e mi mostra dove sono i servizi e la doccia. Mi invita a seguirlo nelle cucine e mi porge due fette di torta di mele, è la prima torta di mele che mangio da due anni, infine mi accompagna alla torretta raccomandandomi di non allontanarmi. Il mattino successivo mi alzo alle otto, il sottufficiale mi aspetta per fare colazione insieme. Mentre ci incamminiamo verso la mensa un marinaio ci informa che sta salendo a bordo un folto gruppo di rifugiati americani. Li osservo dal ponte, impiegano quasi l’intera mattinata per imbarcarsi, alla sera sono tutti sistemati a bordo.

Con l’incrociatore U.S.S. Raleigh a Barcellona e a Marsiglia
La sera, mentre stiamo cenando, l’incrociatore leva le ancore e dirige alla volta di Barcellona. Arriviamo nel primo mattino, anche qui imbarchiamo altri americani: alcuni piangono, altri imprecano contro la guerra, ma la maggior parte di loro è felice di poter lasciare la Spagna. Sul Raleigh ci sono oltre duecento rifugiati e l’equipaggio ha difficoltà ad assistere tutti, specialmente donne e bambini. Lasciamo Barcellona alle tre del pomeriggio e facciamo rotta per Marsiglia dove arriviamo il mattino successivo.

Da Marsiglia a Parigi e Le Havre
Poco prima di sbarcare mister Wendelin mi consegna il passaporto e trentacinque dollari con la raccomandazione di prendere il treno e lasciare Marsiglia il più presto possibile, alla volta di Parigi. A Parigi debbo presentarmi all’Ambasciata degli Stati Uniti, riceverò ulteriori istruzioni. Non vado direttamente alla stazione ferroviaria ma visito la città, la sera prendo il treno delle 19 e sono a Parigi intorno alle 12 del giorno successivo. Alla stazione prendo un taxi e mi faccio accompagnare all’Ambasciata degli Stati Uniti. Il personale è già a conoscenza del mio arrivo e mi assegnano una camera; dovrò attendere un paio di giorni affinché giungano le disposizioni di Washington. Trascorsi due giorni arriva l’ordine di recarmi a Le Havre e di presentarmi al Consolato degli Stati Uniti, mi viene raccomandato di non rientrare assolutamente in Spagna o in Italia, sono pedinato. A Parigi non ho occasione di vedere molto, non ho né i soldi né la voglia, lascio la città al pomeriggio e la notte stessa sono a Le Havre. Mi presento al Consolato che mi trova una pensione per il tempo necessario del mio soggiorno. Ogni mattina alle 10 debbo recarmi negli uffici del Consolato per ricevere eventuali istruzioni. Trascorsi altri due giorni il Console mi chiede se preferisco attendere che giunga da Washington il denaro per il viaggio o se accetto di essere imbarcato come marinaio. Rispondo d’istinto, senza pensarci sopra, sono disponibile a lavorare durante il viaggio pur di uscire da questa avventura senza fine. Mi consegnano ancora venti dollari per il vitto e altre piccole necessità. Il terzo giorno, alle cinque del mattino, il segretario del Console mi sveglia e mi dice di prendere i mie effetti personali, ci sta attendendo una vettura per condurci al porto, mentre ci stiamo avviando mi dice “Speriamo che tu sia idoneo per qualche lavoro sulla nave, così puoi rientrare prima che arrivino i soldi per il viaggio”.

La traversata atlantica
Arrivati in porto ci dirigiamo verso una grande nave passeggeri, un transatlantico che trasporta anche merci, si chiama “Manhattan”. A bordo c’è già il Console generale, sta parlando con un paio di ufficiali, mi vede e mi chiama per presentarmi. Il più alto in grado mi chiede se ho mai lavorato prima d’ora su una nave. “Prima di venire in Europa ho lavorato in un cantiere navale e come marinaio a bordo di yacht privato”, rispondo. La mia risposta lo convince, mi assegna al personale di coperta e chiama un anziano marinaio dicendogli di mostrarmi gli alloggi dell’equipaggio e di trovarmi una cuccetta. Il marinaio, mentre mi accompagna, mi chiede come sono finito in Francia. Gli rispondo che è una storia lunga. Mi guarda sospettoso e mi domanda se ho avuto a che fare con la polizia, gli rispondo “Non fino a questo punto! È stata una ragazza, ho perso la testa”. Non menziono nulla del mio passato e lui non mi fa altre domande. Negli alloggi dell’equipaggio, visto che dovremo lavorare assieme, mi assegna una cuccetta accanto alla sua. Mi mostra dove sono i servizi con le docce e ne approfitto subito per lavarmi, lui mi lascia e torna in coperta. Mi viene sonno, mi sono alzato molto presto e faccio un pisolino fino alle 14. La nave sta per lasciare gli ormeggi, vado verso l’anziano marinaio che mi consiglia di indossare gli indumenti previsti per chi lavora in coperta; al magazzino mi consegnano un maglione blu e un berretto di lana, si dimostreranno molto utili durante il viaggio. Lasciamo Le Havre e il mattino successivo siamo a Southampton, in Inghilterra, dove carichiamo passeggeri e posta. Dopo un paio d’ore la nave lascia il porto e dirige per Cork in Irlanda, dove carichiamo solo posta. Vengo incaricato di qualche lavoretto, lavo una parte del ponte e vernicio alcune pareti esterne. Quando lasciamo Cork inizia la traversata atlantica, siamo diretti a New York e il viaggio dura sei giorni. Navighiamo sempre col maltempo, perfino alcuni membri dell’equipaggio soffrono il mal di mare. Lo soffro un po’ anch’io ma la prendo con filosofia e non perdo l’appetito.

L’arrivo a  New York
Quando arriviamo nel porto di New York alcuni rimorchiatori vengono incontro alla nave, i funzionari della Capitaneria salgono a bordo e tra loro immagino ci siano anche i piloti che guidano la nave fino alla banchina. Mentre sono impegnato nel mio lavoro mi sento chiamare, debbo andare in Classe Turistica. Vado a vedere chi mi sta cercando, non vedo nessuno, mi indicano un uomo piccolo, quando si gira lo riconosco: è mio padre. Sono sorpreso nel vederlo, rimango per un attimo senza parole, era nel gruppo di persone salite a bordo poco fa insieme ai piloti. Gli vado incontro, ci guardiamo l’un l’altro e ci abbracciamo. Nel salone ci sono alcuni giornalisti che si avvicinano, vogliono intervistarmi e fotografarmi. Chiedo a mio padre a cos’è dovuto tutto ciò. Mi dice: “Non ti preoccupare figliuolo, rispondi loro quello che vuoi!”. Dichiaro che sono felice di esser tornato a casa e che è bello rivedere la Statua della Libertà.

Nella csa di  Rhode Island
Vengo autorizzato a lasciare la nave, passo i controlli di polizia e doganali. Quando usciamo mio padre invece di andare a casa mi porta a cena al Roosevelt Hotel, dove già in passato eravamo stati assieme. Arriviamo a casa che è già notte, la mia matrigna mi sta aspettando: quando entriamo mi abbraccia commossa e mi stringe forte a sé, mio padre sta in disparte e non le rivolge parola, ho la sensazione che non vi sia molta armonia fra loro. Lei è stata sempre molto cara e buona con me, mi incoraggiava quando le parlavo della mia passione per il volo, al contrario di mio padre. Il babbo va a sedersi in soggiorno mentre la mia matrigna, tutta fiera, mi dice che dopo la mia partenza ha lasciato ogni cosa al suo posto nella mia camera, esclusi i pochi oggetti che Carmine ha spostato prima di arruolarsi in Marina. Ritrovo infatti i miei libri, un paio di modelli d’aereo che avevo costruito sono ancora appesi al soffitto, ci sono perfino i ritagli tratti dal Daily Mirror di Tail Spin Tommy del quale seguivo le avventure e i miei vecchi vestiti che ora mi andrebbero un po’ stretti. Mi affaccio alla finestra, rivedo le case dei miei vecchi amici, sento il frangersi dei flutti sulla spiaggia, sono a un isolato dal mare. La mia matrigna si siede accanto a me sul letto, le racconto tutte le mie avventure da quando sono andato via, anche lei mi racconta tutto ciò che è accaduto nel frattempo e infine mi invita ad andare a letto, mi vede molto provato e stanco. Le do il bacio della buona notte, saluto mio padre e mi infilo nel letto. Mi sento a disagio nel constatare che i due non si parlano nemmeno e ciò diminuisce il piacere di essere nuovamente a casa. Al mattino vado nella mia chiesa, St. Mary Star of the Sea, desidero assistere alla prima messa e ringraziare Iddio per l’aiuto che mi ha dato. Dopo la messa vado nella piccola cappella di St. Anthony, gli occhi mi si inumidiscono per la commozione, mi ricorda la chiesa di Sant’Antonio a Trieste dove Ada e io ci siamo promessi eterno amore. Mentre sto uscendo sento un braccio sulla spalla, mi giro: è mr. Flanagan, con lui parlavo di aerei e volo quando veniva nel salone di mio padre, era stato osservatore nella prima guerra mondiale con una squadriglia di DH-4 della American Forces in Francia. Mi abbraccia e si dice felice di rivedermi a casa. Seguiva le mie vicende attraverso le lettere che scrivevo a mio padre e ultimamente dalla stampa. Deve andare al lavoro e prima di lasciarmi mi invita, appena avrò sistemato le mie cose, a fargli visita a casa sua.
È il 13 dicembre 1936, una giornata grigia e piovosa e fa abbastanza freddo. Vado a casa, la mia matrigna ha già preparato la colazione. Mentre mangio mio padre dice che dobbiamo andare da Fordam per acquistarmi qualche abito e quant’altro necessario, ne ho proprio bisogno. Al ritorno trovo un telegramma del famoso corrispondente di guerra mr. Floyd Gibbins che mi invita al Radio City Music Hall. L’avevo incontrato quand’ero in Africa, ma non ho avuto modo di parlare con lui perché era attorniato da molte persone. L’appuntamento è per il pomeriggio alle 16, sono indeciso se presentarmi o meno ma sia la mia matrigna che mio padre mi consigliano di andarci, secondo loro potrebbe essere un’occasione per guadagnare qualcosa. Non posso prendere l’automobile di mio padre perché non ho più la patente di guida e vado in metropolitana. Arrivo alle 16 passate, mostro il telegramma a un usciere che lo guarda e si allontana, per tornare poco dopo insieme a mr. Floyd Gibbins che mi prende sottobraccio e, prima che possa dire qualcosa, mi accompagna davanti a un folto pubblico e mi presenta raccontando brevemente la mia storia e mi invita a dire qualcosa. Rispondo che non saprei cosa dire e lui: “Questo è uno show per ‘Junior Birdmen of America’, di’ qualunque cosa!”. Rispondo “Preferisco che sia lei a rivolgermi le domande!”. Mi allora chiede della guerra civile di Spagna, quanti aerei ho abbattuto e della prigionia. Quando l’intervista è terminata vengo salutato da un caloroso applauso. Mr. Floyd Gibbins mi presenta al sindaco di New York City, Fiorello La Guardia, che si congratula e mi rivolge alcune domande, poi vengo invitato a cena da mr. Gibbins e rientro a casa a notte tarda.
Il mattino successivo mi alzo più tardi del solito e vado nell’emporio del mio amico ebreo, Ruddy, per trovare i miei vecchi amici. Lui quando mi vede lascia il banco, mi viene incontro e mi stringe la mano, è felice di rivedermi. Gli chiedo dei nostri comuni amici, mi dice che stanno arrivando, ordino un latte al malto con gelato, come li fa lui non li fa nessuno. “Nei Paesi che ho conosciuto avevano del buon vino”, gli racconto, “ma non sapevano preparare il latte con il gelato”. Sorride e risponde che se preferisco un buon bicchiere di vino ha pure quello. Mentre parliamo due dei nostri amici entrano nel locale, ci salutiamo, chiedono dell’Europa e come sono le ragazze. “Come le americane”, rispondo. Vogliono sapere se ho avuto una ragazza e come me la sono cavata con la lingua. “Con una bella ragazza non hai bisogno di conoscere molto la lingua!”, dico, e ridono. Non accenno ad Ada, è una faccenda troppo personale. Chiedo se giocano ancora a dadi dietro il Thewaits Shore Dinner Restaurant, come facevamo in passato. Mi rispondono: “Una sola volta e non dietro Thewaits, come eravamo soliti fare. Molti di noi lavorano nei cantieri navali e ci vediamo solo al sabato”. Restiamo ancora un po’ insieme, poi ci salutiamo e vado al salone di mio padre, dove incontro alcuni suoi amici che vogliono sapere delle mie vicende in Spagna, racconto loro alcuni episodi e me ne torno a casa. È quasi mezzogiorno, la mia matrigna ha preparato un ottimo pranzo, ma mio padre non viene a casa con noi. Le chiedo come mai, se c’è qualcosa che non va fra loro due. Mi racconta che da qualche anno ognuno vive la sua vita, non si parlano più e mio padre viene a casa solo per dormire. “Da quando tuo fratello Carmine è partito per la Cina la situazione è divenuta insostenibile, non si può più andare avanti così”, aggiunge. Non commento e lei non dice più nulla, mi alzo e l’aiuto a sparecchiare la tavola. Vado nella mia cameretta e scrivo una lettera a mio fratello, lo informo del mio ritorno ma non accenno al rapporto tra i nostri genitori, non desidero dargli questo dispiacere. Sono amareggiato da questa situazione familiare e mi sento a disagio a casa mia. Comincio a star fuori fino a notte inoltrata, rientro quando loro due sono già a letto.
Arriva Natale ed è il peggior Natale che abbia trascorso, mi sento solo e triste, vorrei tornare in Italia, rivedere Ada o perfino tornare in Spagna. Non posso rimanere senza lavorare, mi avvilisco sempre di più, penso di trovarmi un lavoro e vado a parlare in uno dei cantieri navali ma la stagione dei lavori non è ancora iniziata e non c’è richiesta di mano d’opera.

La conferenza all’ American Legion Aviator
Una sera, al mio rientro trovo sul letto un telegramma, lo apro, è un invito ad una conferenza dell’American Legion Aviator N° 743, downtown. La conferenza è prevista l’indomani alle 19, prima di prender sonno penso se è il caso di prendere in considerazione l’invito. Il mattino mi alzo per tempo e racconto alla mia matrigna del telegramma, mi dice che debbo andarci, può essere una buona idea. Ne parlo anche con mio padre quando vado a trovarlo al salone. Si offre di accompagnarmi, ne approfitterebbe per far visita a un nostro cugino che abita downtown. Partiamo alle 17 e in poco più di un’ora arriviamo alla sede dell’American Legion Aviator. Mio padre mi lascia. Mi rivolgo ad un signore davanti all’ingresso della sala, mostro il telegramma e vengo accompagnato dal presidente dell’Associazione che chiede l’attenzione dei soci e mi presenta. Mi prende sottobraccio e mi accompagna verso un gruppetto di persone in piedi che sta parlando e mi dice “Vincent, desidero presentarti al più grande Asso di Guerra vivente, il Maresciallo dell’Aria dell’Aviazione Canadese, Billy Bishop”. Lo guardo per qualche istante senza proferire parola, mai avrei immaginato di poter stringere la mano a un famoso pilota da caccia. Avevo letto delle sue imprese, era uno dei miei idoli come Richthofen, Udet, Rickenbacker e l’italiano Baracca al cui nome era intitolato il mio Stormo di Gorizia. Il presidente mi presenta altri tre piloti rientrati da poco dalla Spagna, hanno combattuto con i repubblicani, il pubblico potrà così sentire le testimonianze di entrambe le parti. I tre sono Eddie Snyder, Gordon Bell e Harry Baul, ci scambiamo poche parole poi il presidente invita i presenti a sedersi, prende la parola e spiega l’argomento che verrà trattato: alcuni episodi della guerra aerea di Spagna, narrati da quattro piloti da caccia che hanno preso parte ai combattimenti. Il primo a prendere la parola è Eddie Snyder, parla anche a nome dei suoi due compagni. Descrive alcune missioni cui ha preso parte e conclude dicendo di essere fortunato di aver fatto ritorno a casa. Rievoca alcuni combattimenti aerei tra Nazionalisti e Repubblicani: mentre i primi avevano migliori piloti, i secondi avevano aerei più veloci ma non in grado di gareggiare con i CR32, decisamente più maneggevoli. Menziona poi alcuni dettagli relativi all’organizzazione dell’Aviazione Repubblicana e al trattamento loro riservato, racconta inoltre dell’ingiunzione del Governo degli Stati Uniti, tramite l’Ambasciata di Madrid, di abbandonare l’intervento a fianco dei Repubblicani, pena la perdita della cittadinanza. Prende poi la parola Gordon Bell: racconta alcune esperienze e un episodio relativo a un pilota abbattuto dai Repubblicani, gravemente ferito e ricoverato in ospedale. Il presidente mi invita a prendere la parola, mi alzo, salgo sul palco e mi siedo accanto a lui. Lo ringrazio per avermi dato l’opportunità di conoscere il Maresciallo dell’Aria Bishop che ho sempre ammirato per il grande numero di vittorie conseguite durante la Prima Guerra Mondiale, le mie esperienze non possono certamente essere raffrontate alle sue. Inizio dicendo che non sono un buon oratore e che proverò a raccontare brevemente la mia esperienza in Spagna. Uno dei presenti mi interrompe subito chiedendomi di iniziare dall’Etiopia, ha letto della mia missione in quel paese prima che mi recassi in Spagna. Spiego che in Etiopia la situazione era molto diversa dalla Spagna, non c’era praticamente un’aviazione avversaria da affrontare e la nostra attività era svolta essenzialmente a supporto alle fanterie, ciononostante ho perso lì due cari compagni, Vaschi e Allavena. Racconto della mia partenza per la Spagna, dell’arruolamento nella Legione Straniera, i combattimenti, la prigionia e la liberazione con l’aiuto dell’Ambasciata. Concludo il racconto e chiedo se ci sono domande, non ce ne sono e ricevo un caloroso applauso, il presidente si congratula e mi ringrazia. Ci viene offerto da bere. Sono accanto a Bishop, mi chiede quante ore di volo avevo quando sono partito per l’Etiopia e per la Spagna, rispondo rispettivamente 120 e 200. Colgo l’occasione per fargli una domanda, e cioè se corrisponde a verità che arrivò al fronte con sole cinque ore di volo e che al termine del conflitto aveva conseguito 72 vittorie con poco più di 400 ore di volo. Sorride e mi risponde che alcuni numeri non sono precisi ma le sue vittorie sono esatte, mi stringe la mano e aggiunge “Devi aver letto proprio molto su di me”.

L’intervista con Knight
Il presidente mi invita nel suo ufficio e mi presenta a Clayton Knight, anche lui pilota di guerra e ora disegnatore di un quotidiano di New York. Mi chiede di raccontargli qualche episodio, vorrebbe trarne un servizio sulla rivista edita dal comandante Eddie Rickenbacker. Rientro nel salone, tra gli invitati c’è un’atmosfera allegra, si formano gruppetti di amici che raccontano le loro esperienze, alcuni iniziano a cantare delle vecchie canzoni di guerra e tutti gli altri si uniscono al coro. Tutto ciò mi porta indietro nel tempo, sono preso dalla nostalgia della mia vecchia squadriglia di Gorizia quando anche noi cantavamo durante le cene. Intorno a mezzanotte gli ospiti iniziano a lasciare la sala, ringrazio il presidente per la simpatica serata, mi avvicino a Billy Bishop e gli dico che è stato un onore averlo conosciuto, mi stringe calorosamente la mano e mi augura ogni possibile fortuna, faccio il saluto militare e mi allontano. Arrivo a casa che è molto tardi, le due di notte, la metropolitana e i bus dopo la mezzanotte hanno le corse molto ridotte.
Il giorno dopo aiuto la mia matrigna in casa, vado poi al negozio di mio padre e vi trascorro gran parte della giornata. Sono a casa da poco più di un mese e non vedo una via d’uscita da questa mia situazione, decido di tentare un’ultima strada, scrivere una lettera ai miei vecchi amici del 4° Stormo in Italia. Non ho più avuto contatti con loro, forse non sono nemmeno al corrente del mio ritorno a casa e pensano che sia ancora prigioniero o che sia morto. Mi confido con mio padre circa la mia intenzione di inviare una lettera, dice di aspettare che le acque si calmino. Tre settimane dopo l’incontro all’American Legion Aviator ricevo una lettera da Clayton Knight con accluso un provvidenziale assegno, mi scrive di comperare il Sunday Herald, dove c’è un lungo articolo sulla mia storia.

Negli uffici dello U.S. Air Corps
Grazie a questo assegno prendo un aereo per Washington D.C.: voglio vedere se riesco ad arruolarmi nello U.S. Air Corp, ora non sono più un pivellino, ho partecipato a due conflitti come pilota da caccia in un’Aviazione di grande prestigio e nel suo migliore Reparto. Mi informano, come nel 1931, che per diventare pilota debbo frequentare il corso di due anni presso le Scuole di Pilotaggio. Insisto sulla mia precedente esperienza, sui miei cinque abbattimenti e aggiungo: “I proiettili delle mie mitragliatrici non hanno risparmiato i piloti che avevano frequentato le Scuole per Ufficiali Piloti”. L’ufficiale che mi parla dice di comprendere le mie ragioni ma non può aiutarmi, questo è il regolamento. Contro la stupida burocrazia non c’è nulla da fare! Lo ringrazio e me ne vado. Ora so che la mia ambizione di diventare un pilota dello United States Air Corp è irrealizzabile, l’unica speranza ora è la Regia Aeronautica, decido di scrivere subito in Italia. Mi fermo a visitare Washington che non conoscevo e torno a casa dopo due giorni. Racconto della risposta dello U.S. Air Corp a mio padre che mi consiglia di attendere prima di prendere una decisione affrettata. Ritorno ai cantieri navali per vedere se c’è richiesta di mano d’opera, ancora nulla! Aiuto mio padre nel negozio per mettere assieme qualche soldo, almeno per far fronte alle spese personali. Vado anche all’aeroporto di Miniole, anche lì non c’è alcuna possibilità di trovare lavoro. Mi giunge la voce che in città ci sarà una manifestazione aerea, vado a vedere se posso fare qualcosa, anche qui non ci sono speranze, la manifestazione dura solo qualche settimana.
Sono trascorsi già sette mesi, i più infelici della mia vita: la mia mente è sempre in Italia, mi tormenta il ricordo di Ada e la nostalgia di Gorizia. Ottengo nuovamente la patente di guida e a volte vado a visitare un aeroporto per passare il tempo.

Al consolato italiano di New York
Un giorno desidero andare a Rye Beach, chiedo la macchina a mio padre ma ha un impegno in centro a New York e sarà di ritorno solo alle 13. Trovo alcuni amici e andiamo a Rye a divertirci in compagnia di un paio di ragazze che conosciamo. Quando torno a casa mio padre mi dice che ieri, venerdì, mi hanno cercato dal Consolato italiano. Immagino che si tratti della lettera che, malgrado i consigli di mio padre, ho inviato ai compagni di Stormo: forse mi hanno risposto e desiderano avere ulteriori mie notizie. Chiedo a mio padre come fa a sapere che mi cercano se io non ho ricevuto alcuna comunicazione o lettera da oltre due mesi. Mi risponde che è passato per caso da quelle parti e questo è quello che gli hanno detto, ma la risposta non mi sembra molto convincente. Il mattino seguente vado al Consolato, dico all’impiegato che debbo conferire col Console Generale, mi chiede il nome e comunica con l’ufficio del Console, posa il telefono e avverte le persone che sono in sala d’aspetto che dovranno pazientare un’ora poiché c’è un contrattempo. Vengo accompagnato nell’ufficio del Console e incontro l’Addetto Militare che ho conosciuto tre anni fa, prima di partire per l’Italia e di arruolarmi nella Regia Aeronautica. Mi riconosce, mi stringe la mano e mi presenta al Console che è molto cordiale e vuol sapere cosa è accaduto dopo la mia cattura in Spagna. Il Console dà disposizione di convocare tutti i Capi Dipartimento nella sala conferenze, nel frattempo fa portare del caffè e poi anche noi ci dirigiamo verso la sala. Quando entriamo sono tutti in piedi, il Console li invita a sedere e mi presenta: mi accolgono con un battimani, debbono già sapere qualcosa della mia storia. Vengo invitato a raccontare in due parole la mia avventura, alcuni prendono nota di quanto dico e quando finisco il Console mi mette una mano sulla spalla e mi dice: “Sei stato in gamba!”. Torniamo nel suo ufficio e mi chiede “Vincent, ti piacerebbe tornare in Italia?”. Rispondo “Certamente, tornerei volentieri, ho anche il denaro necessario in Italia, potrei rimborsare il costo del biglietto una volta arrivato a Gorizia, dove ho il conto in banca”. Mi dice di non preoccuparmi di questo, non è un problema e mi invita a tornare domani prima delle nove, con due fotografie per il passaporto. Il mattino successivo mi presento dall’Addetto Militare, mi dice di attendere, alza il telefono, annuncia il mio arrivo e mi informa che un Ufficiale, giunto ieri sera dall’Ambasciata italiana di Washington, desidera vedermi. Dopo alcuni minuti arriva l’Ufficiale, l’Addetto Militare mi presenta al t.col. Vincenzo Coppola, un Ufficiale dell’Aeronautica Italiana. Conversiamo piacevolmente e un cameriere ci serve il caffè. L’Addetto Militare ricorda il nostro primo incontro, tre anni fa, quando sono venuto al Consolato per la prima volta e infine gli consegna il rapporto su quanto ho dichiarato circa la ma cattura e prigionia in Spagna. Quando ci salutiamo mi ricordo di consegnare le foto all’Addetto Militare che mi chiede di tornare domani, venerdì, alla stessa ora. Quando ritorno vengo fatto accomodare direttamente nell’ufficio dell’Addetto Militare, sta firmando alcune carte e mi prega di attendere un minuto. Quando ha terminato mi invita a seguirlo nell’ufficio del Console dove troviamo anche il t.col. Coppola. Dopo i convenevoli il Console chiede all’Addetto Militare di accompagnarmi all’Agenzia di Navigazione Italia ad acquistare il biglietto di viaggio in cabina singola. All’agenzia mi rilasciano un biglietto di viaggio per l’imbarco sulla Saturnia, con il biglietto torniamo al primo piano nell’ufficio del Console Generale che prende il biglietto e mi mostra il passaporto dicendomi “Come vedi questi sono il passaporto e il biglietto per l’Italia, la Saturnia partirà dalla banchina 59 domani mattina alle 11.50, ti saranno consegnati entrambi quando ti presenterai al Controllo Biglietti, sarà sufficiente che tu dica il tuo nome. Non accennare a nessuno della tua partenza, tranne che ai tuoi genitori. Buona fortuna”. Mi porge la mano e mi saluta augurandomi buon viaggio, altrettanto fanno l’Addetto Militare e il t.col. Coppola. Quest’ultimo aggiunge che spera di tornare presto in Italia e di venirmi a trovare. Ritornato a casa, informo mio padre che parto domani, mi chiede come mai così presto. Rispondo che sarà anche affrettata ma questa è l’unica possibilità che mi rimane. Acquisto quelle poche cose che mi possono servire e torno a casa. Trovo la mia matrigna intenta ad ascoltare la radio, guarda sorpresa tutti i pacchi che ho con me, le annuncio che parto per l’Italia, rimane senza parole e si mette a piangere. Sento che mi vuole veramente bene, la bacio e le dico che mi dispiace procurarle questo dolore in un momento difficile perché non potrà avere il conforto di mio padre. Mi spiace che non ci sia un buon rapporto tra loro, li amo entrambi e mi rendo conto di non aver alcun diritto di dar loro dei consigli. Si rasserena un po’, mi chiede del viaggio, della mia destinazione in Italia; mio padre rientra a casa e prima di andare a letto parlo anche con lui. Non riesco a prender sonno, penso al mio ritorno in Italia, rivedrò Ada e tornerò a Gorizia, alla mia vecchia 90ª Squadriglia. È trascorso esattamente un anno da quando sono partito per la Spagna e otto mesi da quando sono ritornato a casa, ho scritto solo due lettere ad Ada, l’agenda nella quale avevo il suo indirizzo mi è stata tolta quando mi hanno fatto prigioniero. Il cielo inizia a schiarirsi, è l’alba, sono stato sveglio tutta la notte solo con i miei pensieri.

La partenza per l’Italia
Alle nove del mattino del 26 luglio 1937 mi alzo, il bagaglio è già pronto, lo prendo e scendo a fare colazione. La mia matrigna mi sta aspettando in silenzio, è triste, ci scambiamo poche parole, penso che forse è l’ultima volta che la vedo. Torno un’ultima volta nella mia cameretta, passo la mano sui miei libri d’aviazione, guardo i miei modellini, penso a mio fratello che quando tornerà dalla Cina sarà solo e mi commuovo. Mentre scendo mi asciugo le lacrime, mio padre è già fuori e mi aspetta nella sua Studebaker. Stringo a me la mia matrigna, la bacio e le dico che non potrò mai dimenticarla. Lei cerca di nascondere il suo dolore, non vuole uscire per vedermi partire, non vuole rattristarmi di più. Salgo in macchina e chiedo a mio padre di lasciarmi guidare, così almeno sono occupato nella guida, ci vuole circa un’ora per arrivare al molo 59 e vi giungiamo intorno alle 11. Parcheggio non molto distante dall’ingresso ed entriamo nella Stazione Marittima, andiamo alla biglietteria dove dico che c’è un biglietto a mio nome, l’impiegato mi chiede di attendere, si allontana. Poco dopo torna accompagnato dal t.col. Coppola che mi saluta e mi invita a seguirlo. Gli dico che sono con mio padre e lo presento, tutti e tre saliamo a bordo della nave. Il Colonnello mi accompagna alla mia cabina, è una singola, mi consegna il biglietto e il passaporto, mi raccomanda di non allontanarmi dalla cabina prima che la nave abbia lasciato il porto e mi saluta. Rimango assieme a mio padre finché la sirena di bordo non invita i visitatori a lasciare la nave. Dico a mio padre di affrettarsi a scendere, salirò sul ponte per salutarlo quando ritireranno la passerella. Ci baciamo e gli raccomando di non preoccuparsi per me e di pensare a se stesso. Vado sul ponte, lui è accanto alla passerella, mi vede e mi saluta. La nave va indietro fino a metà fiume, mio padre la segue fino in fondo alla banchina. È l’ultima immagine che ho di lui e la porterò per sempre nel mio cuore.

Il viaggio per l’Italia: New York – Azzorre – Lisbona – Gibilterra – Algeri- Napoli
Quando la nave mette la prua verso il lato a Sud del porto non vedo più mio padre, torno nella mia cabina apro la valigia, tolgo gli indumenti che mi servono e li appendo nell’armadio. Un cameriere bussa alla porta per annunciare che il pranzo sarà servito tra dieci minuti. In sala da pranzo mostro il mio biglietto al capo cameriere che mi indica un tavolo. Non ci sono molti passeggeri, mangio da solo e torno in cabina, riposo per un’ora circa e poi vado sul ponte: in lontananza, sulla la linea dell’orizzonte, c’è New York. Mentre passeggio sul ponte mi dico che questa è la seconda volta che mi trovo a bordo della Saturnia, la prima volta mi ha portato nell’Africa Orientale, ora mi riporta in Italia. Mi sistemo su una sdraio del ponte, l’aria è fresca e il cielo limpido, alle 16 viene servito il tè e resto lì fino all’ora di cena. Terminata la cena viene proiettato un film e in un’altra sala l’orchestra suona dei ballabili, osservo le coppie che danzano. I primi due giorni li trascorro in solitudine, il terzo giorno faccio conoscenza con una compagnia di turiste americane non più giovanissime, provenienti da diversi Stati. Mi unisco al loro gruppo, andiamo a nuotare in piscina, pranziamo e ceniamo insieme, alla sera balliamo fin dopo la mezzanotte, sono il passeggero più giovane a bordo e il più corteggiato. Prima di raggiungere le Azzorre dov’è previsto uno scalo il mare è leggermente mosso e alcuni passeggeri soffrono il mal di mare, quando la nave attracca ci dicono che ci sarà una sosta di sei ore e che chi lo desidera può scendere a terra. Sono già sbarcato qui nel viaggio di tre anni fa e scendo a terra con due “ragazze”: giriamo nella zona del porto, acquistiamo degli ananas e li facciamo preparare dal cameriere che ce li serve a cena. Il mattino successivo arriviamo a Lisbona, scendiamo a visitare la città, ci fermiamo in un caffè e osserviamo la gente che passeggia nella piazza. Ci dividiamo in due gruppi, faccio notare alle “ragazze” che le piazze sono diverse l’una dall’altra e possono essere un riferimento per non perdersi e ritrovare la strada del ritorno. Siamo a bordo per la cena e alla sera si balla fino a notte inoltrata. Attracchiamo anche a Gibilterra ma non ci è consentito sbarcare, lo scalo è previsto solo per il servizio postale.

Algeri e le danzatrici arabe
Il giorno successivo arriviamo ad Algeri, ai passeggeri che intendono visitare il luogo viene raccomandato di essere accorti nell’acquisto di souvenir. Scendo con il solito gruppo di “ragazze” e una di loro esprime il desiderio di visitare un harem. Cerco di dissuaderla ma, vista la sua insistenza, fermo un signore che ha l’aria di capire la mia lingua, mi risponde invece con uno stentato inglese, è un italiano! Gli chiedo se ci può indicare un posto non troppo squallido dove ci sia uno spettacolo con delle danzatrici arabe: ci indica un locale che a prima vista sembra una casa privata, alla porta un uomo ci invita ad entrare e ci indica una grande sala, il pavimento è ricoperto di spessi tappeti e ci sono cuscini tutto attorno alle pareti, sostituiscono le sedie. Ci sediamo a semicerchio, accendo una sigaretta; un arabo che indossa un costume locale molto elegante con in mano una teiera e un vassoio pieno di tazze ci serve con abilità il tè senza mai appoggiare il vassoio. Mentre sorseggiamo il tè qualcuno da una stanza accanto inizia a suonare uno strumento musicale tipicamente arabo, una tenda si sposta e compaiono tre giovani belle ragazze arabe che iniziano a danzare attorno a noi. La più bella delle tre impugna una scimitarra e mentre danza la fa ruotare attorno al suo corpo, tutte e tre sono completamente nude, le “ragazze” americane sembrano imbarazzate ma faccio finta di non accorgermene. Quando le danzatrici hanno finito suggerisco di raccogliere qualche moneta da offrire a loro, prendo un mezzo dollaro d’argento e lo porgo alla ragazza con la scimitarra che mi sorride, mi fa un inchino e mi ringrazia in arabo e in francese. Pago il tè e dico all’arabo di tenere il resto, ci alziamo e usciamo, tutti ci ringraziano e si inchinano. Passeggiamo ancora un po’ e ci avviamo verso il porto. A bordo le “ragazze” raccontano alle amiche di aver visitato un harem e che è stata un’esperienza eccitante, di quelle che si vedono solo al cinema. La nave lascia Algeri e dopo due giorni siamo a Palermo, mi sembra di respirare aria di casa, parlo l’italiano e conosco un po’ la città, ci sono già stato in passato. Accompagno le “ragazze” in una delle più caratteristiche pasticcerie di spumoni. Il locale esiste da oltre duecento anni, è molto frequentato, ordino un vassoio di questi dolci, sono deliziosi e le “ragazze” li apprezzano e li fanno sparire in un baleno. Lasciamo Palermo prima dell’imbrunire, è l’ultima notte che trascorriamo a bordo e per l’occasione viene organizzato un ballo in maschera. Non partecipo alle danze, mi piace guardare la festa. Un ragazzino e una ragazzina vicini al mio tavolo non prendono parte al ballo perché non hanno un costume. Dico loro di seguirmi, andiamo dietro al caffè mi faccio dare un turacciolo, lo brucio e disegno barba e baffi al maschietto, prendo due tovaglie e due tovaglioli e li acconcio come fossero turbanti e tuniche. Quando li riporto nella sala tutti battono le mani, i genitori mi ringraziano, il padre mi invita al loro tavolo e ordina dello champagne. Resto con loro per tutta la serata.

L’arrivo a Napoli
Non vado a letto, voglio assistere all’arrivo nel porto di Napoli: alle 7.30 del 3 agosto 1937 la nave attracca alla banchina. Vado dal barbiere di bordo per farmi tagliare i capelli, faccio una doccia e prendo il bagaglio. Prima di salire sul ponte un agente di polizia in borghese salito a bordo a Napoli mi ferma e mi fa alcune domande: vuol vedere il passaporto, lo guarda e me lo restituisce, mi chiede quando ho intenzione di partire per Roma. Rispondo verso le venti, mi saluta e augura buon viaggio. Passeggio per Napoli e vado a visitare i luoghi che mi sono familiari, pranzo da “Zi’ Teresa”, dove ero solito andare in passato: il tempo scorre veloce, è ora che mi avvii alla stazione. Acquisto il biglietto e salgo sul treno per Roma, incontro nuovamente le “ragazze” della nave che rivedendomi mi fanno un sacco di feste, mi raccontano le loro escursioni per Napoli e mi chiedono consigli per visitare Roma. Dico loro che è la città più interessante d’Europa, è una città antica che si integra con la vita moderna, i romani sono gioviali e ospitali. Giunti a Roma ci lasciamo appena fuori dalla stazione Termini, loro vanno al loro albergo mentre io prenoto una camera al “Nuova Roma”, non molto distante e vicino al caffè usualmente frequentato dagli aviatori che vengono nella capitale. È alquanto tardi e vado a letto, sono stanco per aver passato la notte precedente sul ponte della nave in attesa di arrivare a Napoli. Prima d’addormentarmi penso che oramai è solo questione di giorni, presto sarò di nuovo a Gorizia, fra i compagni del mio Stormo e a Trieste da Ada.

Al Ministero dell’Aeronautica
Alle otto del 4 agosto mi sveglio e poco dopo sono al Ministero dell’Aeronautica. Chiedo di conferire con qualcuno dell’Ufficio del Personale, dopo alcuni minuti vengo accompagnato nell’ufficio di un colonnello che mi fa accomodare, esamina i miei documenti e mi chiede di raccontargli le mie vicende in Spagna. Mi invita a ritornare al Ministero alle 13, vado a mangiare qualcosa e mi ripresento all’ora prevista. Dopo circa un’ora mi chiama e mi invita a seguirlo, scendiamo nell’ampio ingresso del palazzo, ci avviamo verso una grande porta che immette in una enorme sala che, più che una sala conferenze, sembra l’aula di un tribunale. Alcuni ufficiali sono già seduti al loro posto, un maggiore che ho avuto modo di conoscere in passato si avvicina e mi saluta, mi dice di esser lieto di rivedermi, mi invita ad accomodarmi su un lato della sala e ritorna a conversare con i colleghi. Poco dopo si avvicina con una cartella che porta il mio nome e contiene la mia documentazione personale e si siede accanto a me. Gli chiedo se sono davanti a una Corte Marziale, mi risponde che è una normale inchiesta per accertare le circostanze in cui sono stato fatto prigioniero in Spagna, il trattamento durante la prigionia, i miei rapporti con il Consolato americano e la liberazione. La grande porta della sala si apre ed entra un generale accompagnato da due colonnelli, prendono posto nelle tre sedie al centro dell’emiciclo. Riconosco il generale, è Scaroni, uno dei più grandi assi viventi della Grande Guerra. Tutti gli ufficiali indossano l’uniforme bianca estiva. Il generale dice che si può iniziare; il maggiore che mi sta a fianco chiede il permesso di presentarmi, mi alzo in piedi, declina le mie generalità, il Reparto di appartenenza, il mio ruolo nell’ambito delle O.M.S. (Operazioni Militari Spagnole). Mi fa cenno di sedere e rievoca brevemente il mio arrivo in Italia, l’arruolamento nella Regia Aeronautica, la missione in Africa Orientale e conclude dicendo che faccio parte del primo gruppo di piloti partiti per la Spagna. Uno dei colonnelli giunti col Generale vuole conoscere le circostanze della mia cattura e come sia potuto rientrare negli Stati Uniti. Mi alzo in piedi, racconto del combattimento, dei due aerei abbattuti, della collisione col terzo, del lancio col paracadute, della cattura e della prigionia. Spiego infine che durante la prigionia un giornalista americano mi ha intervistato, la notizia è apparsa sui giornali americani e mio padre ha chiesto l’intervento del Governo degli Stati Uniti. L’Ambasciata di Madrid si è attivata ed è riuscita a liberarmi e a farmi rientrare negli U.S.A. Terminata la mia deposizione mi siedo accanto al maggiore, il generale si consulta con i colonnelli, invita il maggiore e me ad avvicinarsi, mi chiede quali sono le mie intenzioni. Rispondo “Signor Generale vorrei tornare al mio vecchio Stormo di Gorizia”, e il Generale di rimando: “Si consideri già a Gorizia. Lei risulterà in servizio attivo e il periodo trascorso negli U.S.A. sarà considerato ‘licenza’ a tutti gli effetti. Riceverà stipendio e indennità di volo e non perderà alcun giorno di anzianità di servizio. Si metta a rapporto all’Ufficio del Personale domani mattina alle nove, ritirerà la documentazione per presentarsi alla Zona Aerea Territoriale dove sarà assegnato al Reparto e le verranno consegnati i documenti di viaggio. Le saranno date istruzioni per ritirare gli stipendi arretrati”. Conclude con l’augurio “Good Luck” e invita gli Ufficiali ad alzarsi in piedi, loro si avvicinano e mi stringono la mano. Infine il Generale lascia l’aula e tutti scattano sull’attenti. Il Maggiore mi dice che dalla Caserma Cavour arriverà tutta la documentazione e di andarla a ritirare nel suo ufficio domani mattina. È ora di pranzo, sono libero di andare, mi saluta e mi fa i suoi auguri.

Assegnato nuovamente al 4°Stormo
Mangio qualcosa e torno in albergo, scrivo a mio padre e a mio fratello che sono tornato in Italia e ho ripreso il servizio, imbuco le lettere alla stazione, passeggio per la città e infine vado al cinema e rientro a mezzanotte. Il mattino successivo faccio colazione in un caffè e poi vado al Ministero, mi presento dal Maggiore, saliamo assieme al piano superiore e ci rechiamo all’Ufficio del Personale. Chiede i miei documenti, me li consegna e mi saluta. Prendo un taxi e in meno di venti minuti sono alla Zona Aerea Territoriale, mi presento all’Ufficiale in servizio che mi indirizza dal responsabile della Cassa. “I conteggi sono pronti”, mi dice quest’ultimo, e, sorridendo: “Cosa farai con tutto questo denaro?”. Rispondo che probabilmente mi sposerò. Consegno la mia documentazione al cassiere, firmo alcuni grandi fogli e lui inizia a contare il denaro. Debbo incassare più di ventisettemila lire, una somma considerevole, oltre milletrecento dollari. L’ultima volta che avevo posseduto una tale cifra era quando avevo messo da parte tutte le mie paghe per conseguire il brevetto di volo al North Beach Airport. Preferisco non incassare la somma e chiedo all’Ufficiale pagatore di trasferirmi quanto mi spetta all’Ufficio Amministrativo del mio Stormo, oppure alla Banca d’Italia a Gorizia. Ritiro in contanti solamente quanto necessario per il viaggio e per le altre piccole spese. L’indomani mattina, il 6 agosto, prima di partire per Gorizia, debbo sottopormi alla visita medica fiscale all’Istituto di Medicina Legale dell’Aeronautica, indispensabile per poter riprendere a volare. Alle 8.30 sono davanti all’Istituto, accanto al Ministero dell’Aeronautica; alle 13 ho finito tutte le visite, sono idoneo. In albergo preparo i bagagli e li deposito in stazione, cerco un treno per Trieste che parta a un orario comodo e che abbia una coincidenza a Monfalcone, preferisco uno che viaggi di notte, quando fa più fresco. Acquisto un biglietto di prima classe, per non viaggiare in uno scompartimento affollato e per potermi stendere e dormire. L’ultimo treno è alle 22, ho ancora tutta la giornata a mia disposizione. Con me ho solo i documenti e il poco denaro ritirato, entro in un ristorante per il pranzo: durante il viaggio non avrò l’opportunità di mangiare. La giornata è calda e mi reco in una delle migliori piscine di Roma, incontro alcuni giovani stranieri e facciamo subito amicizia, si accorgono che sono americano nonostante parli l’italiano e vogliono sapere cosa faccio qui in Italia. Sono le 18 passate quando lascio la compagnia, ci salutiamo e mi augurano buona fortuna, prendo il filobus che mi porta alla stazione, ritiro i bagagli dal deposito e attendo leggendo il giornale. Il treno arriva in anticipo, è vuoto, probabilmente viene dal deposito, cerco la vettura per Trieste, salgo e prendo posto in uno scompartimento di 1ª classe. Partiamo in orario, fa caldo e abbasso il finestrino per far entrare un po’ d’aria fresca, dopo qualche minuto il controllore mi fora il biglietto, è l’unica persona che vedrò fino all’arrivo a Bologna. Nello scompartimento sono solo, posso stendermi e riposare. La notte passa veloce, mi alzo solo quando stiamo lasciando Firenze. A Bologna faccio colazione con un caffè e una brioche, si è fatto giorno, il paesaggio dal treno in corsa è molto bello. Poco dopo mezzogiorno il treno arriva a Venezia, si cambia dalla trazione elettrica a quella a vapore, la linea per Trieste non è elettrificata nel tratto dopo Venezia. Pranzo nella carrozza ristorante e alle 15 arriviamo a Monfalcone, cambio per Gorizia e dopo pochi minuti sono sul treno che arriva da Trieste e mi porterà a Gorizia. Costeggiamo le pendici del Carso, passiamo accanto all’Isonzo, i segni lasciati dalla Grande Guerra sono ancora evidenti, dal finestrino posso scorgere i resti delle trincee, delle caverne e delle fortificazioni nelle quali venti anni prima decine di migliaia di giovani come me hanno dato la propria vita per la Patria.

Di nuovo a Gorizia
Quando ci avviciniamo a Gorizia il treno passa nei pressi dell’aeroporto, sulla destra vedo alcuni aerei in volo e altri parcheggiati davanti agli hangar del 4° Stormo. Provo una forte emozione e una strana sensazione, come se mi fossi liberato da un gran peso, mi sembra di respirare meglio. Esco dalla stazione, mi incammino lungo corso Vittorio Emanuele III, il viale con platani e rose nelle aiuole. Giungo all’altezza del Parco della Rimembranza, entro nel caffè “Alle Ali” dove ferma l’autobus che parte da piazza della Vittoria e porta all’aeroporto. La proprietaria, la signora Gnagne, e sua figlia Gentile mi riconoscono e mi salutano calorosamente, vogliono sapere dov’ero finito. Ordino una bevanda fresca e chiedo di poter lasciare il mio bagaglio in attesa dell’autobus per l’aeroporto, attraverso il corso e passeggio per il parco. Non è cambiato nulla, mi siedo su una panchina sotto gli alberi, vicino al monumento dedicato ai caduti della Grande Guerra, sono sereno e mi sento a casa mia, amo Gorizia e la sua gente. Guardo l’orologio, è ora di andare alla fermata dell’autobus, torno al caffè a prendere il bagaglio, ringrazio la signora Gnagne ed esco. Vedo arrivare il bus dall’inizio del corso, alzo il braccio, faccio segno di fermarsi e salgo, a bordo ci sono alcuni giovani avieri che non conosco. In dieci minuti siamo in aeroporto.

Al mio Stormo
Il bus si ferma all’ingresso, al posto di guardia esibisco i documenti all’Ufficiale di picchetto, dice che è tardi, gli uffici sono chiusi e di presentarmi all’ufficio del personale domani mattina. Chiama il sottufficiale di servizio, gli dice di aiutarmi, di accompagnarmi agli alloggi e di trovarmi una sistemazione. È un sergente che non conosco, è allo Stormo da un mese: ci presentiamo, mi chiede da dove provengo, gli rispondo dagli Stati Uniti. Si mette a ridere, pensa che sia una battuta. Percorriamo il vialetto che porta al mio vecchio hangar della 41ª Squadriglia, entriamo nella palazzina Sottufficiali, incontro alcuni piloti anziani che mi riconoscono, mi chiamano per nome, mi vengono incontro e mi stringono la mano. Mi fanno un sacco di domande, rispondo che ci vedremo più tardi e che racconterò tutto con più calma. Il serg. Tonello mi dice che nella sua stanza c’è un letto libero, se voglio posso dormire da lui, accetto volentieri e mi accompagna. Mentre saliamo al piano superiore gli racconto che il mio bagaglio è stato consegnato in magazzino prima della partenza per la Spagna: ho dentro l’uniforme e diversi effetti personali che non ho potuto portare con me. Tonello è amico del sergente addetto al magazzino e, sebbene a quest’ora sia chiuso, in mezz’ora riesce a recuperare il mio bagaglio. Lo apro, controllo, è tutto a posto, oltre alle divise ci sono anche il mio libretto di banca e alcune fotografie dei miei familiari. Poco dopo arriva in camera il sergente addetto al magazzino con un altro bagaglio, dice che proviene dalla Spagna. Lo riconosco, è proprio il mio bagaglio. Lo apro e ritrovo la mia uniforme spagnola, trovo anche una stecca di sigarette “Bisonte”. Manca la macchina fotografica, pazienza, ne acquisterò un’altra migliore. Indosso l’uniforme, mi sta perfettamente, sistemo le altre cose che sono nei bagagli, vado a fare una doccia, mi cambio e scendo al Circolo. Incontro alcuni colleghi, mi raccontano le novità dopo la mia partenza per la Spagna e io le mie avventure. A un tratto si apre la porta del Circolo, mi volto e vedo Avvico. Anche lui rimane sorpreso, mi viene incontro e mi abbraccia. È una gioia per entrambi rivederci dopo tanto tempo, ci scambiamo un po’ di notizie, lui vuol sapere cosa è successo dopo la mia cattura, io chiedo della mia Squadriglia. Racconta che su dodici piloti della prima squadriglia siamo rimasti solo in cinque, gli altri sette sono dispersi in azione. A Gorizia, i soli superstiti del 4° Stormo facenti parte della prima squadriglia spagnola sono il cap. Dequal, il serg. Salvadori, Avvico ed io. Tutti i piloti del 1° Stormo che facevano parte della nostra spedizione sono caduti. Io sono l’unico fatto prigioniero. Mi confida infine che “da pochi giorni, il 20 luglio, dopo una lunga trattativa e grazie all’intervento della Croce Rossa, c’e stato in Spagna uno scambio di prigionieri tra quattro piloti italiani e tre piloti repubblicani. Si tratta di due piloti del 1° Stormo, Cenni e Pesce e due del 4° Stormo, Chianese della 91ª e Bandini della 90ª. Fra i tre repubblicani scambiati con i nostri c’è un pilota di Ajdovš?ina, Giuseppe Križaj, pilota di complemento della Regia Aeronautica che, dopo essere stato congedato, è andato in Spagna a combattere con i Repubblicani”. Sono lieto per la sorte di Chianese e Bandini che ce l’hanno fatta, sono due cari amici, provo momenti di gioia nel sentire chi si è salvato e di tristezza nell’apprendere la sorte di chi non è tornato. Mi chiede come sono finito negli Stati Uniti, dice che sono stato fortunato, i primi piloti catturati sono stati tutti uccisi, come il ten. Franceschi e il serg. Presel: quest’ultimo, fatto prigioniero nei pressi di Guernica, è stato decapitato, la sua testa infissa in una baionetta e portata in giro per la città. Chiedo chi sia ora il comandante del 4° Stormo, mi dice che è il col. Grandinetti mentre il col. Retinò è stato inviato in Africa Orientale. “È il posto adatto per lui!”, commento, e tutti sorridono. Alcuni colleghi accanto a noi si mettono a giocare a ramino e quelli che non escono in libera uscita fanno cerchio intorno al tavolo. Guardo qualche mano, sono stanco e desidero riposarmi, mi scuso con gli amici e salgo al piano superiore. Fa molto caldo e in camera mi spoglio restando in mutande, riposo con le finestre aperte e le luci spente perché ci sono molte zanzare in questo periodo. Dopo alcuni minuti cado in un sonno profondo, nemmeno la confusione del mattino successivo mi sveglia, Tonello deve scuotermi perché apra gli occhi. Ha appena terminato di vestirsi e si sta lavando, mi invita ad andare a colazione, altrimenti rischio di trovare la mensa chiusa, scendiamo insieme. In mensa incontro alcuni colleghi che vivono fuori dalla base, si è già sparsa la voce che sono rientrato e stavano aspettando che scendessi per la colazione: sono felici di rivedermi, e io lo sono più di loro. Vorrebbero farmi altre domande ma è tardi, debbo presentarmi al Comando di Stormo mentre loro debbono raggiungere le rispettive squadriglie e così ci lasciamo.

A rapporto dal Comandante di Stormo
Mentre esco dalla mensa incontro Avvico che sta scendendo dalle scale, mi accompagna al Comando, percorriamo insieme il vialetto fino al posto di Guardia, giriamo a destra e dopo cento metri siamo alla palazzina Comando del 4° Stormo. Sull’entrata incontro il cap. Dequal che sta uscendo, non mi dà neanche il tempo di salutarlo: mi abbraccia e rimane un attimo in silenzio, poi si scosta, mi guarda fisso negli occhi, è emozionato. “Vincenzo, che piacere rivederti!”, sono le sue prime parole. “Che fine hai fatto, perché non ti sei fatto vivo prima?”. Aveva saputo del mio ritorno e aspettava che mi mettessi a rapporto al Comando. Avvico intanto se ne va alla sua Squadriglia e si incammina lungo il vialetto che corre parallelo alla strada e che porta agli hangar del 4° Stormo. Saliamo al primo piano, Dequal entra nell’ufficio Comando, esce e mi dice di attendere, va a parlare direttamente con il Colonnello. Mi chiama, entro e mi presenta: “Comandante, le presento il serg. pilota Vincenzo Patriarca, del quale le avevo parlato in precedenza e che riprende servizio al 4° Stormo”. Il col. Grandinetti si alza, mi viene incontro, mi stringe la mano e dice di esser lieto di riavermi allo Stormo, mi domanda degli Stati Uniti e mi racconta di esserci stato per un paio di mesi alcuni anni fa, si informa della mia famiglia e della prigionia in Spagna. Mi chiede infine a quale Gruppo vorrei essere assegnato. Guardo il capitano Dequal e rispondo “Comandante, sarei lieto di essere assegnato al X Gruppo, il Gruppo al quale appartenevo prima di partire per la Spagna”. Il Colonnello si rivolge al cap. Dequal: “Il sergente Patriarca è suo!”, e poi a me: “Il cap. Dequal ora comanda il X gruppo ed è in attesa della promozione al grado di Maggiore. Vedrà di assegnarla a una delle tre squadriglie del Gruppo”. Ringrazio il Colonnello, il cap. Dequal mi invita a raggiungere il mio Reparto e rimane nell’ufficio con il Colonnello. Lascio la palazzina Comando e mi incammino verso gli hangar, in fondo al campo. Il primo hangar, quello vicino alla strada è del IX Gruppo, il secondo è metà del IX Gruppo e metà del X Gruppo, il terzo è del X Gruppo. Quando passo davanti al primo hangar i piloti che sono in attesa sulla linea di volo mi riconoscono e mi vengono incontro, sono felici di rivedermi, la notizia del mio ritorno si è già sparsa e si complimentano con me. Continuo fino all’ultimo hangar dove, nell’ufficio del Comando del X Gruppo, debbo attendere l’arrivo del cap. Dequal che mi assegnerà ad una Squadriglia. Entro nell’ufficio e trovo alla scrivania il cap. D’Agostinis che mi saluta con un “Ciao, Patriarca” e mi stringe la mano. Lo conosco da tanto tempo, da quando sono arrivato a Gorizia, allora era tenente, è stato sempre disponibile e amichevole. Mi invita a sedermi e mi chiede a quale Squadriglia sono stato assegnato, rispondo che sono in attesa dell’assegnazione. Poco dopo arriva il cap. Dequal assieme al cap. Elio Fiacchino, mio vecchio comandante della 90ª Squadriglia. Li sento discutere sull’organico delle Squadriglie per decidere a quale assegnarmi: “La 84ª è al completo, la 90ª ha alcuni piloti anziani incaricati dell’addestramento dei nuovi arrivi, la 91ª non ne ha. Va bene la 91ª Squadriglia”. Vengo così assegnato alla 91ª, il cap. D’Agostinis è soddisfatto di avermi nella sua Squadriglia, mi stringe la mano e mi invita ad attenderlo nel suo ufficio. Quando arriva mi accompagna per un giro nell’hangar, mi presenta al personale di terra e di volo che non conosco, un paio di giovani sottotenenti e due sergenti. “Quanto tempo è trascorso dal tuo ultimo volo?”, mi chiede. “Poco più di un anno”, rispondo. Mi invita a passare al magazzino a ritirare una tuta, domani farò un volo di controllo con un istruttore.

Festeggio il mio ritorno
Chiedo al Capitano se ha nulla in contrario se offro da bere alla Squadriglia, com’è l’usanza. Lui risponde “Va bene!”. Prima di passare al magazzino vado al Circolo Sottufficiali e mi accordo affinché preparino un rinfresco per le 11.30 all’interno dell’hangar della 91ª Squadriglia, vermouth e pasticcini per tutto il personale. Vado al Magazzino Vestiario, dalla parte opposta dell’aeroporto, nel lato Nord, dietro al mio vecchio hangar della 41ª Squadriglia e ritiro tuta di volo, occhiali e caschetto. Quando ritorno alla Squadriglia i camerieri stanno già preparando i tavoli, vado a cercare Avvico, voglio che sia presente al brindisi. La 91ª Squadriglia è al completo, D’Agostinis invita i capitani Dequal e Fiacchino ad unirsi a noi e rivolge un breve discorso di benvenuto. Mi viene offerto il primo bicchiere e brindiamo tutti insieme. Il cap. Dequal e Avvico si avvicinano, mi abbracciano e mi battono amichevolmente le spalle. Mentre stiamo discorrendo, Avvico mi chiede se so più niente della ragazza che gli ho presentato il giorno prima della partenza per la Spagna e con la quale ha fatto il viaggio insieme fino a Trieste. Non rispondo e gli chiedo se l’ha vista ancora al ristorante di suo cugino, a Trieste. Dequal, che è triestino, ci interrompe e mi chiede se ho una ragazza a Trieste. Rispondo “Si, se ancora si ricorda di me! Manco da un anno e non ho potuto scriverle”, e spiego il motivo per cui non ho potuto farlo. È quasi mezzogiorno, i colleghi mi salutano e ringraziano, la festa si conclude e i camerieri sparecchiano la tavola, è ora di andare alla mensa. Avvico mi fa salire sulla canna della sua bicicletta, attraversiamo il campo e ci rechiamo alla mensa Sottufficiali: mi siedo al tavolo con i piloti della 91ª, mi sento di nuovo a casa mia, tutte le vicissitudini che ho passato da quando ho lasciato Gorizia sembrano improvvisamente lontane, un brutto sogno. Mentre sto mangiando entra l’Ufficiale di Giornata e chiede al maresciallo di mensa se sono tra i commensali, il maresciallo mi chiama, mi alzo e l’ufficiale si avvicina al tavolo. Mi dice stare pure seduto, di finire di pranzare, e di presentarmi al Comando alle 13.30 in punto, in uniforme ordinaria. Gli chiedo se conosce il motivo della convocazione, mi risponde che non lo sa.

A Rapporto dal Duca d’Aosta
Qualche minuto prima delle 13.30 sono davanti al Comando di Stormo, sto fumando una sigaretta quando arriva un’automobile che si ferma davanti all’ingresso: Sua Altezza Amedeo di Savoia, Duca d’Aosta, e il colonnello Grandinetti scendono e si avviano verso la palazzina. Quando il Duca mi è vicino scatto sull’attenti e saluto, Sua Altezza mi riconosce e mi viene incontro, mi stringe la mano e dice di seguirlo nel suo ufficio. Mi fa accomodare e, rivolgendosi in inglese, vuol sapere quel che tutti mi chiedono: come sono stato fatto prigioniero e come sono riuscito a ottenere la libertà e a raggiungere gli Stati Uniti. Ascolta tutto con attenzione e infine gli confido che purtroppo al momento della cattura mi hanno tolto la pistola che lui mi aveva donato. Mi batte sulla spalla, dice che ho agito bene, che ringraziando Dio ne sono uscito vivo e che mi trova bene. Si alza esclamando “Keep up the good work!” e mi invita ad accompagnarlo alla macchina che lo sta attendendo e che lo porterà al Castello di Miramare, sua residenza dal 1931, quando è arrivato a Trieste col grado di Colonnello di Artiglieria. Scendiamo le scale, gli cammino accanto, sale sulla macchina che lo sta attendendo, siamo tutti sull’attenti e salutiamo; lui risponde con un cenno della mano, due avieri aprono il cancello e la macchina parte. Vado nel nostro hangar che dividiamo con la 90ª Squadriglia, gli specialisti sono intenti a scaldare i motori degli aerei che debbono andare in volo nel pomeriggio. Mi avvicino al capo dei motoristi, il m.llo Bianchi, e gli chiedo di poter salire su un velivolo parcheggiato sul piazzale davanti all’hangar e di poter avviare il motore. Gli spiego che debbo riprendere confidenza con gli strumenti e con le manovre. Mentre attendo l’arrivo di uno specialista che mi assista sotto bordo per la messa in moto, ripasso la procedura di avviamento. Quando arriva avvio il piccolo compressore, metto in pressione la bombola, apro la valvola del motorino d’avviamento, l’elica gira, inserisco i magneti, il motore parte. Dopo un anno finalmente risento il rombo caratteristico del motore del CR32, è musica per le mie orecchie! Resto ancora un po’ seduto nell’abitacolo con il motore che gira, ho ripreso subito la mano, mi sembra impossibile che sia trascorso già un anno dal mio ultimo volo. Penso che sono veramente fortunato a essere nuovamente qui a Gorizia, avevo pochissime probabilità di farcela, tutto sembrava contro di me e ho rischiato moltissimo, scorrono nella mia mente i volti dei compagni meno fortunati che non sono tornati dalla Spagna. Sono sotto il sole che scotta e finché il motore girava non lo sentivo, il soffio dell’elica attenuava i suoi raggi di calore, ma ora debbo scendere in fretta. Mi sento chiamare, è il capitano D’Agostinis, mi chiede cosa stavo facendo sull’aereo, rispondo che volevo riprendere la mano e vedere cosa ricordavo; mi chiede come è andata. “Meglio di quanto potessi immaginare, mi sembra di sapere tutto, salvo eventuali modifiche nelle ultime versioni del velivolo”, rispondo. “Bene”, dice, “domani mattina effettuerai un doppio comando sul CR30 con un istruttore, se risulti idoneo riprendi a volare subito sul CR 32”.

La ripresa dei voli
Il giorno dopo, il 12 agosto 1937, il mio volo è il primo nella lista del programma giornaliero, c’è anche il nome dell’istruttore, il ten. Vittorio Pezzè. Pezzè è di Udine, è considerato fra i migliori piloti acrobatici dello Stormo, ha guidato la 73ª Squadriglia durante la prima esibizione della Pattuglia del 4° Stormo nel marzo 1936 a Budapest. Ha una passione segreta, il violino, suo fratello Piero è un noto compositore di questo strumento. Attendo il ten. Pezzè davanti all’hangar, sulla linea di volo; quando arriva mi stringe la mano e saluta dicendo “Sono lieto che tu sia di nuovo allo Stormo. Appena sei pronto andiamo”. Mentre siamo in hangar e stiamo indossando il paracadute mi fa un breve briefing sulle manovre che eseguiremo, saliamo a bordo del CR30 e quando siamo sistemati e imbracati esclama “Vai pure!”. Il motorista avvia il compressore, quando la pressione è sufficiente glielo segnalo, lui lo spegne, si allontana dall’aereo e mi fa segno che l’elica è “libera”. Metto in moto, il motore è già stato riscaldato e rullo verso il punto di attesa per il decollo, il sergente addetto alla linea di volo agita la bandiera verde, mi allineo e gradatamente porto la manetta a fine corsa. Controllo con la pedaliera la tendenza a imbardare ed inizio la corsa di decollo. L’aereo acquista velocità, spingo leggermente in avanti la barra di comando per sollevare la coda, tengo giù il muso finché raggiungo la velocità prevista, allento la barra, il muso si alza leggermente e le ruote si staccano da terra. I sussulti del terreno scompaiono, sono in volo, il potente rombo del motore mi dà una sensazione che solo chi l’ha provata può capire. Pezzè è seduto dietro a me, non tocca i comandi e non dice nulla, effettuo un paio di virate in volo livellato, uno stallo e poi mi porto sull’aeroporto per effettuare un circuito. Non trovo difficoltà particolari e mantengo le velocità previste con sufficiente precisione, tocco a metà pista, do subito motore prima che l’aereo smaltisca la velocità, effettuo altri due “touch and go” e infine Pezzè mi fa cenno di rientrare. Dentro l’hangar ci sono i cap. D’Agostinis e Dequal; il s.ten. Pezzè dice che secondo lui posso volare da solo. D’Agostinis si volta verso di me: “Patriarca, prendi il primo aereo pronto che trovi e va subito in volo”. Vado a cercare il Capo dei motoristi, il m.llo Bianchi, mi indica un CR32 rifornito e con il motore caldo, effettuo i controlli previsti, lui mi assiste durante la messa in moto. Quando sono pronto a rullare, con il pollice alzato gli faccio segno di togliere i tacchi. Il cap. D’Agostinis dalla linea di volo solleva il braccio, lo ruota con l’indice verso il cielo e poi mostra tre dita della mano facendomi capire di fare tre circuiti. Eseguo tre “touch and go” come istruito e poi salgo in quota per riprendere la mano con l’acrobazia. È una giornata splendida, sono a 3000 metri, non c’è umidità nell’aria: le Alpi Giulie sono visibili in tutta la loro bellezza, spicca il Monte Nero con il suo profilo caratteristico, a Sud c’è il mare con il golfo di Trieste e Monfalcone. Dopo una ventina di minuti torno sul campo, mi porto in circuito, davanti a me c’è un aereo delle Ricognizione che anche lui va all’atterraggio, lo seguo. Quando vado a posare il paracadute il cap. D’Agostinis mi chiede “Allora come va, cosa provi dopo un anno d’inattività?”. Rispondo che, dopo i momenti terribili che ho passato, non ci sono parole che possano descrivere quello che provo. Sorride, dice di ripresentarmi nel pomeriggio alle 14 per un altro volo, mi consiglia nell’attesa di farmi un panino. Resto ad oziare sulla linea di volo per tutta la mattinata, osservo l’attività della mia squadriglia seduto su una comoda sedia a sdraio; dopo le esperienze vissute nell’ultimo anno ho imparato ad apprezzare anche le cose più semplici della vita. Un giovane sergente pilota si siede accanto a me, osserviamo due aeroplani da caccia che sono impegnati in un combattimento simulato sopra il campo, uno spettacolo affascinante, sono entrambi molto abili e nessuno dei due riesce a mettersi in coda all’altro. Quando vengono a trovarsi sotto i mille metri di quota interrompono lo scontro, come previsto dalle regole per la sicurezza. Il capitano D’Agostinis rientra con una pattuglia di cinque aerei; quando tutti i piloti sono raccolti attorno a lui fa il debriefing e spiega come migliorare il volo in formazione. Infine incarica due piloti anziani di prendere un allievo ciascuno e di portarli in volo in pattuglia appena i velivoli saranno riforniti e controllati. Vado in officina a seguire il lavoro dei motoristi e degli armieri che preparano i nastri per le mitragliatrici; la mattinata passa veloce, a mezzogiorno mi lavo e vado a pranzo. Alla mensa siamo in pochi, vengo servito subito e quando sto per alzarmi arrivano i colleghi di Squadriglia. Mi scuso dicendo che debbo andare in volo, vado invece nella mia cameretta, mi stendo e riposo, penso ad Ada, debbo trovare il modo per ottenere un permesso per andare a Trieste, non riesco a capacitarmi: sono a pochi chilometri da Ada e non posso vederla, è come se fossi ancora in America! Tonello entra nella stanza, guardo l’orologio, sono quasi le 13, è tardi e dovrei essere in Squadriglia. Chiedo a Tonello di prestarmi la bicicletta per arrivare in tempo e risparmiarmi una camminata sotto il sole; mi dà la chiave, indosso la tuta di volo estiva e mi avvio.

Un volo di controllo con il Cap. D’Agostinis e il Ten. Comelli
In hangar poso la bicicletta e mi metto a discorrere col m.llo Bianchi, alle 14 arriva il cap. D’Agostinis e mi chiede se sono pronto ad andare in volo con lui, vuole mettermi alla prova come gregario. “È parecchio che non voli in formazione”, mi dice. “Effettueremo alcune virate accentuate e rovesciamenti. Se resterai in formazione proveremo delle virate strette in cabrata e un paio di looping. Prendi il n. 4 e attendi il mio segnale prima di mettere in moto”. Indosso il paracadute e salgo sull’aereo, decolliamo in coppia, saliamo a 1500 metri e livelliamo, regolo i giri del motore a un valore medio per non dover intervenire in continuazione sulla manetta. Il cap. D’Agostinis con un dito davanti all’occhio mi segnala che iniziamo, alzo il pollice per confermare che sono pronto e cominciamo. Dopo una ventina di minuti livella e con la mano mi fa segno che abbiamo finito, atterriamo sempre in coppia e rulliamo fino al nostro hangar. Mi avvicino al capitano. “Sei sudato, hai lavorato un po’?”, mi dice sorridendo. “Vai abbastanza bene, considerando che sei fuori allenamento. Devi fare molto addestramento in formazione e quando sarai pronto comincerai ad addestrare i piloti che ci arriveranno dalle Scuole. Avremo parecchio da fare con le esercitazioni al poligono, la 91ª deve diventare la Squadriglia migliore dello Stormo!”. Mi saluta e va nel suo ufficio, resto sulla linea di volo fino alle diciotto, torno in cameretta, mi cambio e vado a Gorizia a fare acquisti. Deposito al caffè ciò che ho comperato e vado al cinema, alle 21.45 sono di ritorno in aeroporto. Il mattino successivo vado come prima cosa a vedere il tabellone dei voli, sono programmato col ten. Comelli che prima ha un volo in formazione con tutta la Squadriglia. Gli aerei vengono riforniti e controllati, poco dopo decolliamo, a 2000 metri ripetiamo più o meno quanto fatto il giorno prima con il cap. D’Agostinis ma con manovre più accentuate. Quando scendiamo si avvicina, mi batte sulla spalla e mi dice “Va bene, mi sembra che sei nuovamente in forma”. In hangar ci sono il cap. D’Agostinis e Dequal; quando passiamo davanti a loro il cap. D’Agostinis chiede al s.ten. Comelli “Come è andato?”, e poi, rivolgendosi a me: “Fatti trovare qui alle 14”. Il capitano Dequal mi chiede come sta andando la ripresa voli. “Mi sento in forma, ancora qualche ora di volo e sono pronto per tornare in Spagna”, rispondo, e lui sorridendo: “Scordati della Spagna!”. Andiamo tutti a pranzo, poi torno all’hangar e indosso la tuta di volo. Fa caldo e ho un po’ di sonnolenza, mi sistemo su una sedia a sdraio all’ombra dell’hangar. Più tardi arriva il Capitano, penso che si vada in volo assieme, mi ordina invece di decollare e lui resta sul campo per osservare le mie evoluzioni. Decollo, salgo a 2000 metri e inizio alcune figure acrobatiche, concludo atterrando con una scivolata d’ala da 800 metri fino a terra, rullo verso l’hangar. Da lontano il m.llo Bianchi agita le braccia per indicarmi dove parcheggiare. Mentre scendo gli chiedo “Come ti è sembrato?”. Sorride e mi fa segno OK, unendo il pollice con l’indice. Mi chiede come vanno il motore e l’aereo, rispondo “Tutto in regola!”. In hangar c’è il cap. Dequal, mi chiede se ho ripreso la padronanza del velivolo come prima della partenza per la Spagna. “Mi sembra di andar bene”, rispondo, “avrei solamente il desiderio di andare questo fine settimana a Trieste, visto che non sono in servizio questo sabato”. Mi chiede di pazientare, mi darà un permesso di due giorni la prossima settimana così potrò lasciare la base venerdì sera dopo la fine servizio. I piloti che non sono in turno di volo organizzano una partita a pallavolo dietro l’hangar, nello spiazzo retrostante verso Merna, formano una squadra e vengo invitato anch’io. Giochiamo contro i piloti della 84ª e vinciamo l’incontro per un punto. Torniamo ai nostri alloggi, dopo la cena alcuni vanno a vedere un film nel cinema accanto alla nostra palazzina. Il giorno successivo è sabato: sono di servizio di guardia fin dal mattino, mi presento all’ufficiale di giornata alle ore 8.30, al Corpo di Guardia, accanto all’ingresso principale. L’ufficiale mi dà le istruzioni per la giornata e consegna la lista dei Sottufficiali autorizzati a lasciare la base. Per tutta la giornata controllo i permessi d’uscita, durante la notte ispeziono i posti di guardia nel perimetro del campo. Tutto fila liscio senza problemi di sorta e al mattino della domenica vengo rilevato dal sergente che mi subentra. Dopo una doccia vado a dormire, ho trascorso la maggior parte della notte in piedi; mi sveglio che è ora di pranzo, nel primo pomeriggio vado a Gorizia, al cinema. La settimana successiva l’attività è intensa, è previsto l’addestramento al volo in formazione dei piloti appena giunti dalle Scuole, me ne vengono assegnati un paio. Alcune squadriglie, tra le quali la nostra, debbono partecipare alle esercitazioni al Poligono. Dobbiamo sbrigarci, tutto è pronto, gli armieri hanno caricato i nastri delle mitragliatrici, i piloti del IX Gruppo hanno già effettuato le missioni di Tiro a Vivaro e siamo in attesa del nostro turno.

In libera uscita a Trieste
Chiedo al capitano se venerdì posso avere qualche ora di permesso al mattino, debbo ancora depositare l’assegno in banca: mi concede due ore. Rimedio un passaggio fino a Gorizia, mi reco alla Banca Commerciale, in fondo al Corso, e apro un libretto di deposito. Quando esco vado al caffè “Alle Ali” e poco dopo arriva l’autobus dell’aeroporto. Torno alla Squadriglia, il Capitano è sorpreso nel rivedermi così presto, approfitto per chiedergli nuovamente se posso avere un permesso per Trieste, per il fine settimana. Gli spiego che, dal mio rientro in Italia, non mi sono mosso dalla base e che avrei bisogno di andare a Trieste per una faccenda molto importante. Acconsente e mi dice di passare nel suo ufficio dopo l’orario di servizio, mi farà trovare il permesso. Quando ripasso il permesso è pronto e firmato, c’è scritto che debbo rientrare entro la mezzanotte di domenica, ringrazio e lascio l’ufficio. Torno a Gorizia per alcuni acquisti, mi fermo per la cena, rientro e vado a dormire. Al mattino mi alzo in ritardo, il bus è già partito, il successivo è alle 11, all’ingresso principale ci sono un paio di sergenti piloti, uno di loro ha la famiglia a Trieste e ha invitato i colleghi per una visita alla città. L’autobus è in orario e poco dopo mezzogiorno siamo a Trieste. Un collega mi chiede se vado al bagno, visto che è una giornata molto calda. Rispondo che debbo vedere una persona e, sorridendo, esclama: “Una ragazza, scommetto!”. “Lo spero”, rispondo. Ci salutiamo e vanno per la loro strada, cammino per il centro, mi fermo al caffè dell’Excelsior, prendo un caffè, sono emozionato e nervoso, penso a quello che le dirò, a quello che dirà lei, perché non mi sono più fatto vivo, se è ancora innamorata. Esco dal caffè e mi incammino verso la trattoria dello zio di Ada, è passato un anno, non ricordo bene la strada. Infine la ritrovo. Quando arrivo vedo molte persone che pranzano all’aperto, come l’ultima volta che ero qui con Ada. Non entro subito, spero di vedere Ada arrivare o uscire dal locale, passeggio avanti e indietro lungo la via senza dare nell’occhio. Passa quasi un’ora, molti clienti pagano il conto e se ne vanno, entro infine nel locale. Lo zio in un primo momento non mi riconosce, poi lascia quello che sta facendo, si toglie il grembiule e prega un cameriere di occuparsi dei clienti. Il suo volto si rischiara, mi viene incontro e mi abbraccia, è contento di rivedermi. È commosso, ha gli occhi lucidi, mi chiede quando sono tornato in Italia, dice che aveva immaginato che fossi partito per la Spagna quando ha saputo dai giornali che l’Italia stava aiutando il generale Franco. Mi invita ad accomodarmi a un tavolo, va alla ghiacciaia e torna con due birre, si siede accanto a me, le versa nei bicchieri, bevo un sorso, e quando poso il bicchiere, chiedo come sta Ada. Non risponde subito, mi guarda in silenzio e cambia espressione. “Ada se ne è andata”, risponde. “Non capisco”, insisto, “dove è andata Ada?”. Penso che sia andata altrove, mi domando dove. È imbarazzato. “Non se ne è andata via”, mi dice, “se ne è andata per sempre… è morta! Sono trascorsi già due mesi”. È come se qualcuno mi avesse colpito con una mazza, un pugno nello stomaco. Non riesco a parlare, mi manca il respiro, debbo esser impallidito; mi mette un braccio intorno al collo, mi batte sulle spalle. Piango, mi alzo e giro attorno al tavolo, ripeto “Perché? Perché?”. Mi prega di calmarmi. Avevo tanti progetti insieme ad Ada, dovevamo sposarci, la amavo sinceramente. Non riesco a capacitarmi, l’ho vista sempre in salute e piena di vita, chiedo se era ammalata. Mi rivela che me lo teneva nascosto. Mi chiede se so cosa sia la leucemia. “Non lo so”, rispondo. “È una malattia del sangue per la quale non c’è cura”, dice, e scuote la testa. “È stata la volontà di Dio”. Si fa il segno della croce: “Era una brava ragazza e Dio l’ha voluta con sé”. Rimaniamo entrambi in silenzio, ognuno con i propri ricordi di Ada, poi si riprende e mi racconta che si era innamorata fin dal primo incontro, parlava sempre di me. Ada pianse per due settimane quando partii per la Spagna, una domenica accompagnò una amica a un ballo, un sergente pilota la invitò a ballare e lei gli chiese se mi conosceva, le rispose che ero stato fatto prigioniero in Spagna e forse fucilato. Per poco non svenne e tornò subito a casa, si chiuse in se stessa e da allora la sua malattia si aggravò. Prima di morire Ada gli disse che se fossi tornato doveva dirmi che aveva amato solo me. Non me la sento di continuare la conversazione, voglio andarmene, mi abbraccia e mi chiede di tornare a trovarlo quando verrò di nuovo a Trieste. Mi saluta dicendo “Sei un bravo ragazzo. Abbi cura di te”. Strada facendo mi chiedo perché Dio me l’ha portata via, così giovane e bella. Passo davanti alla chiesa di S. Antonio, entro e guardo il banco dove mi ero seduto con Ada l’ultima volta. Ho le lacrime agli occhi, debbo andarmene. Oramai non ho più alcun interesse a Trieste, vado alla stazione, prendo il bus e rientro a Gorizia. In camera mi tolgo la divisa e indosso un paio di pantaloni leggeri e una camicia, scendo al Circolo, ci sono alcuni colleghi che non hanno potuto lasciare la base. Giocano a ramino, mi invitano ma non sono in vena, sono come un automa, nella mia mente c’è solo Ada. Durante la notte mi giro e rigiro, non riposo, penso a lei e ai nostri progetti svaniti. Il mattino mi alzo presto vado nell’hangar dove gli specialisti stanno aprendo i grandi portoni scorrevoli, sono triste e non ho voglia di parlare con nessuno. Do una mano a tirare fuori gli aerei e a scaldare i motori, alle 7.45 sono tutti presenti, il programma di volo per la giornata è stato preparato in precedenza, ho una missione di volo in formazione di cinque aerei. Il leader è il s.ten. Camarda, è giovane ed essendo ufficiale deve addestrarsi anche nel ruolo di capo formazione. In volo dobbiamo sudare per stargli dietro, è molto brusco nelle manovre e vola come se fosse da solo e non con quattro aerei attaccati alle sue ali. A terra i gregari gli fanno notare che non è stato facile stargli dietro, io non dico nulla, ascolto e poi mi siedo al bordo dell’hangar a osservare l’attività di volo. Il Capo motorista, il m.llo Bianchi, si siede accanto a me, chiede come è andata la formazione. “Da schifo”, rispondo. Bianchi è stimato da tutti, è il più anziano, un vecchio motorista della Grande Guerra, un padre per tutti noi. Sento il bisogno di parlare con qualcuno e gli confido la mia sofferenza, mi ascolta attento, quando ho finito rimane qualche attimo in silenzio e poi mi dice “Hai avuto due grandi amori, il volo e Ada, ora te ne è rimasto uno solo, dedicati completamente a questo e non pensare ad altro”. Mi dà una botta sulla spalla, si alza e va a controllare gli aerei che gli specialisti spingono davanti ai portoni dell’hangar.