Valerio de Campo nasce nel 1914: il padre, Secondo de Campo Ten. Col. del 2° Reggimento Fanteria, e’ stato insignito di Medaglia d’Argento e di Bronzo al Valor Militare per le sue azioni in Congo Belga, durante la Prima Guerra Mondiale e oggi riposa nel Tempio Ossario a Udine. Nel 1935 frequenta la scuola di pilotaggio di Cameri e successivamente quella di Malpensa. Nel 1936 è assegnato con il grado di Sottotenente alla 84^ Squadriglia, 4° Stormo di Gorizia. Da Aprile a Novembre 1937 partecipa alla Guerra di Spagna con la 32° Squadriglia, comandata da Ernesto Botto. De Campo viene promosso Tenente e gli viene conferita una Medaglia di Bronzo al V.M. per le sue azioni in Spagna. Nel 1938 torna a Gorizia ed è assegnato alla 90^ Squadriglia. Nel Giugno 1939 partecipa con la Pattuglia Acrobatica della 73^ Squadriglia alla manifestazione sull’aeroporto di Staaken, Berlino.
Nel maggio 1940 sposa Liliana di Manzano e poco dopo, nel giugno 1940, parte per la Campagna d’Africa. Da Ottobre 1940 a Gennaio 1941 comanda la 73^ Squadriglia e si distingue in numerose missioni quali: Sidi el Barrani, Marsha Matruk, Sollum e Bir Enba. Viene promosso Capitano e gli viene conferita la Medaglia d’Argento al V.M.
Nel 1942 lascia l’impiego operativo ed è assegnato all’Ufficio Tecnico Costruzioni Aeronautiche di Bologna. Nel 1948 si congeda dall’Aeronautica Militare con il grado di Maggiore Pilota e si trasferisce a Torino dove si dedica al settore dei legnami. e nel 1954 inizia in proprio l’attività di importazione di legnami. Nel 1960, a soli 46, anni scompare prematuramente.
Valerio de Campo riposa nella tomba di famiglia del cimitero di Manzano ed il figlio Francesco continuera’ l’attività intrapresa dal padre.
Ricordi delle O.M.S. del Ten. Valerio de Campo
I primi di aprile del 1937 a bordo di un Cant.Z di linea, presi il volo verso occidente. La Spagna mi attendeva, sconosciuta e misteriosa, sconvolta dalla guerra civile. Si trattava della mia prima grande avventura; mi recavo infatti al servizio del generale Franco quale legionario del “Tercio” per combattere contro la fazione rossa. Lo sfondo politico mi interessava quanto può valere a ventitré anni; mi attirava, infatti, il desiderio di vagliare le mie capacità, vivere l’emozionante momento del primo combattimento aereo, piacevole o meno, e infine speravo di conquistarmi una certa gloria. Non ultimo il lato pratico, il denaro, giacché ero propriamente un mercenario.
Il mattino radioso lasciava presumere un volo tranquillo e dietro di noi Ostia e la costa ben presto svanirono. Per la prima volta gustai il piacere di essere passeggero e ospite a bordo di un velivolo e mi sentivo piuttosto importante con un passaporto falso in tasca e un paio di libri sulle ginocchia. Man mano che ci inoltravamo il tempo andava guastandosi e nuvole oscure si addensavano di fronte a noi. I piloti cominciarono a scendere e si portarono sull’acqua a qualche centinaio di metri di quota quando fummo investiti da un violento scrosciare di pioggia. La visibilità era pressoché nulla e un grigiore denso pesava su di noi e ci avvolgeva da ogni lato. Fui colto da una certa apprensione quando notai che volavamo a pelo d’acqua su un mare sconvolto e spumeggiante. In se stessa la cosa era piacevole ma mi augurai che tutto finisse per il meglio. I lampi sfrecciavano e una caligine era divenuto il cielo che ci sovrastava. Anche i passeggeri, fra cui alcune signore in modo particolare, risentivano del ballo e facevano la spola dalle poltrone a un piccolo locale dove potevano placare i loro malori. D’improvviso una vivida luce azzurra attraversò sfrecciando tutta la fusoliera lasciando un acuto odore; una scarica elettrica era passata tra noi sfiorandoci e portandoci il benvenuto di Palma di Maiorca. Ammarammo all’idroscalo con un sole splendente fra bianche nubi e la sosta, breve e piacevole, mi lasciò una gradita impressione delle bellezze della ridente isola mediterranea. Qui presi contatto con le prime pesetas.
La tappa da Palma di Maiorca a Cadice è senza storia; mi impressionò il monte aguzzo di Gibilterra che si erge acuto sullo stretto come una sentinella ed ammirai la costa africana sull’altro versante. Lo specchio d’acqua del porto di Cadice ci accolse e scivolammo tranquilli verso la banchina. Il mio sguardo, intanto, non perdeva tempo dinanzi al mondo nuovo che mi si schiudeva pieno di incognite e di sorprese. C’erano alla fonda alcuni vecchi aerei con le insegne di guerra, una croce nera su sfondo bianco, che si profilavano contro candidi edifici battuti dal sole. Sotto quelle insegne avrei trascorso un breve periodo della mia vita.
Con me c’era un amico, incontrato a Cadice, anche lui giunto da poco e, dopo le formalità di presentazione al locale comando di tappa, salimmo a bordo di una vettura americana su invito di un colonnello d’aviazione che gentilmente ci offrì un passaggio per Siviglia. Ricordo vagamente il viaggio ma rammento il tramonto con le sue luci vivaci e i bianchi paesetti che si snodavano lungo il percorso. Credevo di sognare e avevo dimenticato lo scopo del mio viaggio. Si giunse a Siviglia all’imbrunire e, percorse alcune vie formicolanti e illuminate a giorno, ci arrestammo dinanzi a un sontuoso edificio. Mi sentii piccino, con la mia valigetta piuttosto modesta, mentre salivo lo scalone d’ingresso di quel famoso Alfonso XIII° – o Andalusia Palace – ritenuto il più bel hotel d’Europa. Il personale ci accolse con cortesia e la nostra sistemazione fu immediata. Poi ci avviammo al gran salone da pranzo sulla cui soglia, colpito dalla sfarzosa signorilità, mi arrestai titubante sentendomi solo e osservato. L’imbarazzo dileguò non appena da un tavolo si diressero verso di noi alcune persone; erano degli amici, veterani diciamo, che vollero accoglierci con sincero cameratismo e calda simpatia. Se avessi saputo che mi attendeva d’essere ospitato sotto lo stesso tetto dei Pari di Spagna avrei provveduto, oltre alla valigia, a migliorare anche il guardaroba.
Non ebbi difficoltà ad acclimatarmi sostenuto com’ero da uno spirito fresco e giovane. Ogni cosa mi interessava ed ebbi modo di visitare e conoscere Siviglia in tutte le sue bellezze. Badai intanto a procurarmi tutto il necessario e superfluo alla mia nuova posizione e grande gioia fu indossare una fiammante divisa del Tercio. Certo che dopo pochi giorni finì quell’aria di villeggiatura e il 23 aprile feci il primo volo sull’aeroporto di Siviglia che si stende lungo il Guadalquivir. In compenso, la vita del campo era ancora spensierata e le ore trascorrevano veloci perché dovevamo mettere a punto gli aerei e approntare quanto occorre a una nuova squadriglia. Venni assegnato alla 32^ squadriglia del comandante Botto – mio comandante a Gorizia della 84^ – e non appena giunse il magg. Leotta ad assumere il comando di Gruppo, divenni aiutante maggiore. Questa carica mi infastidiva non poco in quanto, oltre alle scartoffie, limitava la mia libertà che mi è tanto cara. Trascorrevamo la sera nei ritrovi cittadini e molte volte anche nello stesso Andalusia Palace, dove avevo stretto amicizia con signorine spagnole e relative famiglie.
Sebbene la rivoluzione prima e la guerra civile poi avessero già fatto migliaia e migliaia di vittime, le orchestrine suonavano lo stesso e dovunque si ballava e si beveva. Non si può certo dire che tanti lutti avessero allentato la voglia di vivere agli spagnoli. Intanto iniziammo i primi voli di guerra sul fronte meridionale; si trattava di scorte alla ricognizione o ai bombardieri i quali, più che altro, si limitavano ad azioni di disturbo. Infatti i fronti più ardui allora erano quelli di Madrid e, al nord, di Santander. Di queste azioni rammento una scorta di bombardieri tedeschi che dovevano colpire un paesetto nel quale si diceva fossero nascosti un gran numero di carri armati nemici. Giungemmo sull’obiettivo e gli aerei sganciarono il loro carico. Dopo pochi secondi le prime casette cominciarono a saltare e via via tutto il paesetto se ne andò all’aria e scomparve avvolto da una gran nuvola di polvere. Fu una impressione che non mi piacque e mai come in quel momento ringraziai la sorte che mi aveva favorito facendomi diventare cacciatore.
Così, fra un volo e l’altro e un po’ di vita spensierata, giunse il giorno della partenza per il Nord. L’undici giugno, salutati gli amici ed Emilia del Castillo, volammo verso Soria. In questo trasferimento, mentre volavamo sopra i monti in direzione di Salamanca, mi trovai un certo momento solo. Ancora oggi non riesco a spiegarmi come mai, ben dodici o più aerei che viaggiavano a scaglioni, sparissero d’un tratto alla mia vista. Forse mi ero distratto a guardarmi in giro ma sta di fatto che, quando cercai di riprendere contatto con gli occhi con le altre formazioni, mi accorsi che anche i miei due gregari mi avevano abbandonato. Ebbi qualche attimo di esitazione e di scoramento non immaginando la causa che aveva provocato tale situazione. Finalmente, guarda e riguarda, vidi sotto di me un altro caccia molto lontano e mi tuffai a rincorrerlo. Raggiuntolo vidi che era il serg. Corsi della mia pattuglia e dopo un po’ di segni con le mani riuscii a capire che gli altri si trovavano sparpagliati e molto innanzi a noi. Riuscimmo a ricongiungerci e, in breve, atterrammo a Salamanca. Qui potei sapere cosa era accaduto. Il capo pattuglia, su segnalazione di un gregario, si era gettato in picchiata su un aereo da bombardamento che volava a bassa quota sulla nostra destra ritenendolo nemico, mentre si trattava di un nostro S.81 che tranquillamente se ne tornava alla sua base. Dimostrazione evidente del nostro spirito aggressivo. Sostammo la notte a Salamanca e il mattino proseguimmo per Soria dove raggiungemmo la nostra nuova base. Soria è una cittadina nell’altopiano rossiccio ed era sede di un gruppo di bombardieri. L’aeroporto è situato un po’ fuori, ad alcuni chilometri, e per raggiungerlo si attraversa un’assolata campagna piuttosto brulla. Data la carenza di alloggi fummo alloggiati nell’albergo dei bombardieri e fui ospite di Ruspoli e Rospigliosi. Erano due bravi ragazzi e, in più, anche principi. Qui sostammo pochi giorni e il lavoro consisteva nel levarsi prima dell’alba per essere sul campo alle prime luci e fare i turni di servizio di allarme. Qualche scorta ai bombardieri sul fronte di Bilbao e qualche partenza su allarme. Il cinque luglio, approntati i bagagli, volammo verso Villarcayo sul fronte di Santander e finalmente ci trovammo in zona di vere operazioni.
Sapevamo che quel fronte era piuttosto duro e che gli avversari erano agguerriti; già alcuni nostri compagni di altre squadriglie avevano sostenuto combattimenti degni di questo nome e alcuni ci avevano rimesso la vita. Era pure capitato che alcuni dei nostri avessero abbattuto un aereo di linea civile carico di povera gente che con la guerra c’entrava ben poco. In ogni modo bisognava tenere gli occhi aperti e attendersi di giorno in giorno il primo scontro. Nei primi giorni ci ambientammo un po’ eseguendo voli di scorta ai bombardieri sulle zone di Soncillo, puerto del Escudo, Santander e sul fronte di Biscaglia. Erano voli insidiosi perché bene addentro le linee nemiche e un banale guasto sarebbe bastato a farci trovare nelle mani del nemico. C’era però qualcosa di interessante nel senso turistico perché la gran costa sull’Atlantico era piacevole specie se raggiunta attraverso le alture sorvolate a bassa quota. Santander situata lungo il mare si vedeva avvolta da un leggero velo di nebbia portato dai suoi stabilimenti industriali ma doveva essere una città caratteristica e riposante con il suo lungomare e con le colline circostanti verdi e l’oceano azzurro cupo. A Villarcayo alloggiavamo in un alberghetto dove Nati, la nostra cameriera piuttosto belloccia, si prodigava a servirci, banda di spregiudicati e buontemponi, sorridendo delle battute spiritose e insinuanti che tutti le rivolgevano fra un pizzicotto e l’altro mentre, impegnata con i piatti di portata, non poteva difendere le sue parti posteriori. In fondo, anche lei contribuiva come poteva a rendere allegra l’atmosfera che non mancava certo di molta spensieratezza e assenza di preoccupazioni.
Io e il mio caro amico Tinti passavamo poi il nostro tempo libero presso un bar dove sentivamo canzoni inglesi, imparando lo spagnolo con qualche timorata fanciulla del luogo. Alla sera, poi, tutto finiva in baldoria e ben spesso anche le stoviglie e i piatti volavano per la sala da pranzo che alla fine si riduceva a un cumulo di rottami.
Erano forme, queste, di esagerata esuberanza, talvolta di forzato entusiasmo che non piacevano certo neppure agli spagnoli; ma c’erano fra di noi molti esemplari di quella gioventù fascista che, per inneggiare al grande duce e alla guerra, davano sfogo ai loro fieri propositi ed esprimevano l’indiscussa fede nel grande capo e nella ancor più grande causa sfasciando tutto ciò che trovavano a portata di mano.