Diario di un pilota del 4°Stormo 
Seconda parte: 1937 – 1959

LA TOPOLINO 
Con le diecimila cinquecento lire che ho prelevato dal mio conto in banca, sul quale avevo versato gli stipendi arretrati della Missione Speciale in Spagna (OMS), vado alla FIAT ad acquistare una Topolino. I piloti che hanno volato sul CR 32 e che hanno contribuito a far conoscere le prestazioni eccezionali di questo aereo all’estero beneficiano di uno sconto di duemila lire sull’acquisto di una autovettura della FIAT. La ricovero in un’autorimessa in centro a Gorizia ma, dopo una settimana, il col. Grandinetti mi convoca nel suo ufficio. “Patriarca, mi riferiscono che ti hanno visto alla guida di un’autovettura di tua proprietà, è vero?”, mi chiede. “Sissignore”, rispondo, “L’ho acquistata con gli arretrati della Spagna”, e lui “Lo sai che ai Sottufficiali non è permesso possedere automobili?”, e io “Veramente, Signore, non conoscevo questa disposizione. Negli USA ho sempre posseduto un’autovettura, fin da quando ho conseguito la patente”. Mi chiede se mi sono indebitato per l’acquisto dell’auto, rispondo che l’ho interamente pagata e che ho fatto convertire la mia patente di guida USA in quella italiana. Prendo il portafoglio dalla tasca e gliela porgo, la osserva per un attimo, prima mi domanda chi è il mio Comandante poi “Va bene, tieni pure la macchina ma sappi che la prima volta che crei un problema te ne dovrai sbarazzare”, risponde. Gli assicuro che non ci saranno problemi e dopo averlo ringraziato saluto e lascio l’ufficio. Ovviamente mi guardo bene dal creare problemi e con la Topolino mi diverto in compagnia degli amici, insieme ai quali, nelle ore di libera uscita, frequentiamo le sale da ballo dei paesi intorno a Gorizia: San Lorenzo, Romans, Gradisca, Fogliano.

SETTEMBRE 1937 
Il 4 settembre 1937 c’è un’esibizione aerea in onore della Principessa di Piemonte: purtroppo debbo rimanere a terra ad osservare i colleghi, sono ancora poco allenato per essere inserito nella formazione. La settimana successiva arrivano alcuni CR 32 nuovi e altrettanti vengono inviati a Torino per le revisioni. Sono a Gorizia dal 7 agosto, quasi un mese, e sto riprendendo la confidenza e sicurezza con l’aereo che avevo in passato. Il ten. Vittorio Pezzè parte per la Spagna e Raffaele Chianese e Mario Bandini ritornano a Gorizia. Grazie all’aiuto della Croce Rossa Internazionale sono stati scambiati con altrettanti piloti repubblicani tra i quali Giuseppe Krizaj, di Aidussina (oggi Ajdovscina), un pilota italiano di lingua slovena che, dopo essere stato congedato dall’Aeronautica, era andato a combattere in Spagna con i Repubblicani. Viene organizzato un pranzo al ristorante “Boschetti” di Tricesimo in onore dei reduci dalla Spagna del 4° Stormo, vi partecipa anche il Duca d’Aosta. Mentre siamo a tavola Chianese ricorda quel 13 settembre 1936 quando su Talavera de la Reina fui costretto a lanciarmi con il paracadute. Morato, Buffali e lui, alle 10.40, appresa la notizia, furono inviati in volo sul luogo dove avvenne il combattimento nel tentativo di individuarmi. Dopo due ore di volo rientrarono senza aver scorto nulla. Chianese poi racconta la sua avventura: “Il 1° dicembre 1936, insieme al serg. Gianlino Baschirotto parto su allarme per una ricognizione offensiva sulla zona di San Bartolomé dove sono stati segnalati movimenti. Gli avieri che stanno rifornendo il mio velivolo debbono bruscamente interrompere le operazioni e provocano un’abbondante fuoruscita di carburante che finisce nella fusoliera. Dopo il decollo ci dirigiamo verso la zona segnalata, distante 6-8 km dal campo. Sono costretto ogni tanto a sporgermi per prendere una boccata d’aria non satura dei vapori di benzina. Dopo pochi minuti di volo avvistiamo un gruppo isolato di una mezza dozzina di militari governativi. Ci predisponiamo all’attacco, vado avanti per primo, ad una quota di circa 50 metri, apro il fuoco, una frazione di secondo dopo i vapori del carburante si incendiano all’interno della fusoliera. Sopportando il calore, cabro bruscamente, rovescio il velivolo, mi slaccio e lo abbandono. Mi libero dal paracadute e mi allontano rapidamente dirigendomi verso le nostre linee. I militari governativi sono ad una distanza di circa 300 metri e mi inseguono. Penso tra me che non ho problemi, in meno di un’ora posso raggiungere il nostro campo, la zona che abbiamo appena sorvolato è sgombra da truppe. Baschirotto ha l’autonomia per volare sopra di me per un paio d’ore proteggendomi con le mitragliatrici di bordo dai soldati armati solo di moschetti. Con mia grande sorpresa Baschirotto dirige invece verso il nostro campo e mi lascia in balia del nemico. Vengo fatto prigioniero, condannato alla fucilazione e solo all’ultimo istante salvato dalla Croce Rossa”. Anche Bandini mi racconta come è stato catturato: “Il 29 dicembre 1936 sono partito da Sevilla con una Squadriglia di nove CR 32 per scortare tre S 81 e tre Ro 37 in missione di aiuto agli assediati del Santuario de la Virgen de la Cabeza. Il Comandante della Squadriglia è il cap. Francois, gli altri sono i ten. Berretta e Cenni, il s.ten. Pesce ed i sergenti Bernocchi, Trombotto, Crimoldi e Serafini. Dopo il decollo l’aereo di Francois ha un’avaria e rientra a Tablada, il comando della Squadriglia dei CR 32 passa a Berretta. Le condizioni meteorologiche in rotta sono pessime e i velivoli finiscono dentro i cumuli. In breve la formazione si rompe e alcuni velivoli finiscono in vite. Trombotto cade nei pressi del Santuario, Crimoldi tenta un atterraggio di fortuna nel letto di un fiume ma capotta e muore. Bernocchi atterra su una strada e viene catturato. Pesce e io tentiamo un atterraggio di fortuna e poco dopo anche noi veniamo catturati. Cenni si lancia col paracadute, sfugge agli inseguitori per tre giorni e poi anche lui è catturato. Una tragedia! Peggio di così non poteva andare! Finisco in cella con Pesce e Cenni, nello stesso carcere dov’era rinchiuso Chianese. Poi finalmente avviene lo scambio con i piloti repubblicani, grazie alla Croce Rossa”.

SEI MESI DALLA SCOMPARSA DI ADA 
Il 12 ottobre sono trascorsi sei mesi dalla morte di Ada, la ragazza di Trieste che avrei voluto sposare al ritorno dalla guerra di Spagna se una grave malattia non me l’avesse portata via poco prima del mio ritorno: sono libero dal servizio e vado a Trieste con la Topolino. Torno alla trattoria “Fortuna” dello zio di Ada, in via Carducci n. 12, dove eravamo soliti incontrarci. Quando entro nel locale lui mi viene incontro, è sorpreso e nello stesso tempo lieto di rivedermi. Ci sediamo a un tavolo e mi chiede come vanno le cose a Gorizia dopo il mio ritorno dagli USA. Gli racconto che sono venuto per portare un fiore sulla tomba di Ada, si fa serio in volto e mi dice che riposa al cimitero S. Anna di Trieste, insieme al padre Pietro, alla madre Carolina Presetnik e a un fratello morto a 11 anni. Mi spiega come trovare la tomba della famiglia Velicogna: è al campo 11, sulla lapide c’è il vecchio nome, “Velikonia”, italianizzato negli anni Venti per ragioni politiche. Mi racconta alcuni dettagli di Ada che non conoscevo prima: è nata a Gorizia nel settembre 1909 e nel 1925 si è trasferita con la famiglia a Trieste, luogo di origine dei suoi genitori, in via Gatteri n. 35. Quando ci lasciamo è commosso, mi saluta con un abbraccio, senza proferir parola, e torna al lavoro.

LUCIANO SERRA PILOTA 
La vita di Stormo continua e ho quasi cancellato i momenti bui passati da un anno a questa parte. Il 27 ottobre il serg. Osvaldo de Lotto, della 91ª Squadriglia, durante un volo acrobatico a bassa quota precipita con un CR 32 ai bordi del campo. Il 6 novembre viene organizzato nella Palazzina Ufficiali un incontro conviviale con i reduci della Spagna, al quale partecipa il Duca. Sempre nel mese di novembre sono previste delle esercitazioni di tiro che però vengono rimandate perché il Ministero dell’Aeronautica ci ordina di collaborare alle riprese del film “Luciano Serra Pilota” con Amedeo Nazzari, Germana Paolieri e Andrea Checchi. Dall’8 novembre tutto lo Stormo va in volo con sei Squadriglie di nove velivoli e viene ripreso mentre sorvola il campo in formazione serrata. Anche il 1° Stormo prende parte alle riprese cinematografiche, le formazioni sono tutte impeccabili ma dobbiamo ripetere più volte i passaggi. Terminiamo il 25 novembre, il personale delle riprese rientra a Roma e il giorno dopo riprendiamo le esercitazioni di tiro. Quando finalmente il film esce corro a vederlo: è una delusione, mi aspettavo tutt’altro!

LA CERIMONIA DI COMMIATO DEL DUCA, 6 E 12 DICEMBRE 1937 
Il 12 dicembre S.A.R. Amedeo di Savoia Duca d’Aosta, Generale Comandante la Divisione Aerea “Aquila” verrà nominato “Viceré d’Etiopia” e dovrà lasciare il comando dei Reparti della II Zona Aerea Territoriale. Il Duca passerà in rivista la 3ª e 6ª Brigata Aerea, composte dal 4° Stormo di Gorizia, dal 1° Stormo di Campoformido, dal 6° Stormo di Rimini, dal 2° Stormo di Ravenna, dallo Stormo Bombardieri di Ferrara, dalle Squadriglie di Osservazione Aerea di Bolzano, Padova e Udine. Sarà presente S.E. il Sottosegretario all’Aeronautica Generale Valle, i Comandanti dei Corpi d’Armata di Trieste e di Udine, il Comandante la Divisione Militare dell’Isonzo, il Comandante la Zona Militare e numerosi Ufficiali Superiori dell’Aeronautica, tra i quali il gen. Ranza e il gen. di Squadra Aerea Francesco Pricolo che pronuncerà il discorso di saluto. Sul campo c’è una gran confusione, gli alloggi del personale sono stracolmi, in ogni camera ci sono due piloti per ogni brandina, per entrare ci si deve arrampicare scavalcando i colleghi che dormono. Sono riuscito ad avere in camera Fausto Mascia che è stato richiamato in servizio e assegnato a uno Stormo di bombardieri. Gli Ufficiali alloggiano nella sala mensa del campo. La rivista è prevista tra due giorni e la Pattuglia Acrobatica del nostro Stormo si sta preparando per l’esibizione. Il giorno prima della rivista vengono fatti i briefing agli equipaggi e la Pattuglia Acrobatica effettua una prova ridotta dell’esibizione. Gli aerei giunti a Gorizia da altri aeroporti, dopo aver sfilato, rientreranno alle rispettive sedi mentre i velivoli dei Comandanti atterreranno sul campo. Il mattino dopo siamo tutti in piedi prima del solito. Il personale deve indossare l’uniforme e i piloti devono portare la tuta di volo e posarla nel posto di pilotaggio insieme al paracadute per indossarli subito dopo la rassegna delle autorità. Gli aerei sono allineati intorno al campo, la mia Squadriglia, la 91ª, è l’ultima della linea dei caccia e il mio aereo è l’ultimo della fila. Alle 9.30 il Duca d’Aosta inizia a passare in rivista la Divisione Aquila cominciando dagli hangar della Ricognizione Aerea, nel lato Nord del campo. Lo segue con un’auto la Principessa Maria Josè, la moglie del Principe ereditario, accompagnata dalla Duchessa d’Aosta. Quando il Duca d’Aosta arriva alla linea del 4° Stormo chiede alle Altezze Reali di scendere e tutti e tre insieme ci passano in rivista. Stringono la mano al Comandante dello Stormo, al Comandante di ogni Gruppo e ai Comandanti di Squadriglia. Sono l’ultimo della fila e quando il Duca mi è accanto saluto e rimango sull’attenti. Lui si ferma e si rivolge alle signore: “Questo è il nostro pilota americano”, dice, e loro due mi porgono la mano. I reali salgono infine sul palco appositamente preparato per loro, quando sono seduti gli aerei rullano fino al centro del campo e decollano.

IL Ro 41 
Nel mese di dicembre a ciascuna Squadriglia viene assegnato un caccia leggero, un IMAM Ro 41. Questo velivolo assomiglia molto al caccia americano Curtiss F9 C, con l’ala a forma di gabbiano, che veniva agganciato sotto i dirigibili. Il Ro 41 viene utilizzato dal Nucleo Addestramento in sostituzione del CR 20 DC (Doppio Comando) e del CR Asso. Chiedo e ottengo l’assenso dal Comandante Fiacchino di effettuare un volo prova e il 20 dicembre dopo un breve briefing decollo con il Ro 41. È un velivolo non impegnativo, facile da condurre ma privo della robustezza del CR 32 che è in grado di “incassare” bene i colpi. È dotato di un motore radiale Piaggio da 390 CV raffreddato ad aria. Preferisco comunque il mio CR 32.

DICEMBRE 1937 
Ci giunge la notizia che Aldo Ferrulli e Guglielmo Biffani il 7 dicembre si sono guadagnati una Medaglia d’Argento ciascuno durante una partenza su allarme dalle Baleari, da Palma de Maiorca. Hanno inseguito una formazione di Martin Bomber per 150 chilometri sul mare e quando li hanno raggiunti ne hanno abbattuto due. Poco dopo entrambi tornano a Gorizia, Aldo mi racconta che le Baleari non erano poi così male e che si sarebbe fermato ancora se non fosse arrivato l’ordine di rientro; ha compiuto molti voli di pattugliamento e pochi scontri col nemico. Il 22 dicembre tutte le attività vengono sospese e il personale non in servizio è libero per Natale o, a scelta, per Capodanno. Faccio il servizio di guardia al posto di Aldo Ferrulli che desidera andare a Brindisi a trovare i genitori e quando ritorna, dopo cinque giorni, mi porta dei dolci pugliesi fatti in casa. Festeggio l’Anno Nuovo con un viaggio a Venezia con la mia Topolino, trascorro piacevolmente un paio di giorni e poi ritorno poiché sento il bisogno di riprendere a volare. 
Il 6 gennaio del 1938 sono nuovamente libero dal servizio e con Aldo e altri due ragazzi andiamo a Trieste. Loro tre conoscono un paio di ragazze in una sala da ballo, faccio un paio di balli anch’io ma devo stare attento che i miei compagni non esagerino con il vino e lo spumante. Torniamo a Gorizia in nottata ed è una fortuna che non dobbiamo volare il giorno dopo a causa del brutto tempo. Anche per il resto del mese non ci sono miglioramenti, salvo per alcune giornate limpide e fredde, durante le quali ci alleniamo con il volo in formazione. Verso la fine del mese mi vengono assegnati dei giovani piloti da addestrare e iniziare al volo in coppia.

A DOBBIACO CON LA NEVE 
Il 5 febbraio ricevo l’ordine di andare a Dobbiaco, un piccolo paese di montagna in Alto Adige nei cui pressi c’è un campo intermedio utilizzato per addestrare i piloti a operare sulla neve con i Ro 41 dotati di sci. Arrivo a Dobbiaco il giorno successivo con due piloti di diverse Squadriglie. L’istruttore è Giuseppe Avvico, che ha sistemato il suo ufficio operativo in un albergo, poco distante dal campo. Andiamo a salutare Avvico. “Come ci si sente a fare il Comandante di Squadriglia di tre BA 25?”, gli chiedo scherzando, e lui sorridendo mi risponde: “Tutto sommato non si sta male da soli, debbo attenermi al programma di addestramento stabilito dal Ministero. Certamente non è che ci sia una gran vita qui. Non siamo a Gorizia!”. Mi dice di mettermi a mio agio e di pensare a sistemarmi, volerò domani e quando avrò finito ritornerò a Gorizia. Si sta bene in montagna, il clima freddo e secco è piacevole. Il mattino del 7 febbraio faccio colazione con Avvico e gli altri due piloti. Avvico dice che dobbiamo attendere che il sole sia più alto e ci fa un briefing sulla tecnica di decollo e atterraggio dai campi in montagna. Bisogna fare attenzione a mantenere la corretta velocità in finale, perché non ci sono i freni per fermare l’aereo. Sono il primo ad andare in volo sul BA 25 biposto insieme ad Avvico, che dopo due circuiti mi fa scendere e decolla con gli altri due piloti. Decollo poi da solo con il BA 25 per ambientarmi ed effettuo qualche circuito; dopo 25 minuti sono di nuovo a terra. Avvico ci dice che siamo pronti per decollare con il Ro 41. Salgo a bordo e con l’aiuto di un meccanico metto in moto e scaldo il motore; quando sono pronto mi allineo controvento, porto il motore alla massima potenza, l’aereo prende velocità e sono subito in volo. Il paesaggio innevato è stupendo, l’aria è pulita e la visibilità eccezionale. Sorvolo una coppia di sciatori che mi salutano, li sorvolo, cabro e dopo 20 minuti ritorno al campo, dove atterro parallelamente alla fila degli altri aerei e mi fermo a metà campo. Avvico mi aspetta accanto ai due colleghi. “Vedo che ti piace volare in montagna!”, mi dice, ed io “Hai bisogno di aiuto?”. Sorridendo risponde: “Anche se tu volessi rimanere non c’è proprio lo spazio per ospitarti”. Rientriamo in giornata a Gorizia con i nostri Ro 41. Alcuni giorni dopo mi giunge la notizia che a Dobbiaco un pilota del 1° Stormo è arrivato troppo veloce e “lungo” ed è finito contro l’albergo senza fortunatamente ferire nessuno.

IL NUCLEO ADDESTRAMENTO 
A marzo la 90ª Squadriglia deve restituire il Ro 41 poiché il Nucleo Addestramento cessa l’attività. Mi viene ordinato di andare a Torino assieme ai piloti più anziani della 90ª a ritirare alcuni CR 32. Torniamo il 12 marzo, dopo due giorni, con dodici CR 32 nuovi fiammanti, dei veri gioielli. Continuiamo l’allenamento dei nuovi piloti che in breve raggiungono un livello d’addestramento tale da essere “operativi” quanto i più anziani. Servono piloti per l’Aviazione Legionaria impegnata in Spagna e l’addestramento è mirato principalmente alla “finta caccia” e all’acrobazia individuale e collettiva, debbono acquisire la massima confidenza con la macchina. Alcuni piloti partono per la Spagna, mentre altri che hanno terminato l’avvicendamento rientrano ai loro Reparti. Le forze nazionaliste del generale Franco avanzano su tutti i fronti grazie al determinante supporto dell’Aviazione italiana. Anche i tedeschi danno il loro aiuto, ma meno significativo e in parte con il fine di sperimentare l’efficienza della loro Aviazione.

LA VISITA DEL CANCELLIERE TEDESCO 
A metà marzo per ordine del Ministero dell’Aeronautica quattro Stormi da caccia, il 1°, il 4°, il 3° e il 6°, debbono iniziare ad allenarsi insieme per partecipare alla manifestazione aerea e alle operazioni di “polizia aerea” previste in occasione della visita del Cancelliere del Reich, Adolf Hitler, e dell’incontro con Benito Mussolini. La grande esibizione aerea si terrà l’8 maggio a Ciampino Sud. I comandanti dei quattro Stormi decidono di organizzare per l’occasione una Super Pattuglia Acrobatica che possa strabiliare i tedeschi: un “pattuglione” di ben 28 aerei, sette CR 32 per ogni Stormo, una cosa mai tentata fino allora. Ci sono solo una cinquantina di giorni per allenarsi, si inizia a Gorizia ma per non intralciare la normale attività operativa i 28 velivoli si spostano e utilizzano il “cielo campo” dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari, distante circa 15 km. Nel frattempo continua l’addestramento dei nuovi piloti che giungono dalle Scuole. L’11 marzo debbo partire in treno per Torino insieme ad altri otto piloti per ritirare altrettanti CR 32 in sostituzione di quelli da noi inviati in treno alla FIAT, per la revisione generale.

L’INCIDENTE DURANTE LE PROVE A RONCHI DEI LEGIONARI 
Il 13 aprile tutte le Squadriglie comandate dal cap. Aldo Remondino si danno appuntamento sopra l’aeroporto di Ronchi dei Legionari per perfezionarsi nelle manovre che eseguiranno a Roma l’8 maggio. I velivoli del 1° Stormo giungono sul cielo di Ronchi in volo direttamente dalla propria base di Campoformido mentre da Gorizia arrivano il 4°, il 3° e il 6° Stormo: gli ultimi due sono rischierati per l’occasione a Gorizia. A terra c’è uno specialista per ogni Stormo che interviene per le normali operazioni di assistenza tecnica in quanto si effettuano due missioni al giorno e, tra l’una e l’altra, i velivoli vengono controllati e riforniti di liquido al radiatore. I CR 32 consumano quasi più liquido refrigerante che carburante e quest’ultimo, contenuto in capaci serbatoi, è sufficiente per due voli. La formazione di 28 velivoli inizia l’allenamento, le quattro Pattuglie sono disposte a “rombo”. La Pattuglia del 4° Stormo, comandata da Remondino, guida la formazione. Alla sua sinistra e alla sua destra, leggermente arretrate, le Pattuglie del 1° e 3° Stormo. Chiude la formazione a rombo la Pattuglia del 6° Stormo. Tutto va bene fino all’esecuzione del looping. Remondino, in testa alla formazione, sorvola il Carso da Est verso Ovest e inizia una picchiata per prendere velocità, puntando l’aeroporto di Ronchi. Passa sull’aeroporto a circa 80 metri e in fondo al campo comincia a cabrare per ripetere una manovra già provata in precedenza. Quando la formazione ha superato la posizione verticale e manca poco alla sommità della manovra, a circa 300 metri di quota, mentre sono a “testa in giù”, la Pattuglia del 1° Stormo, al comando di Brambilla, si avvicina troppo a quella di Remondino. Mascellani, gregario esterno destro della pattuglia di Brambilla, viene “spinto” conseguentemente verso destra ed è oramai a pochi metri da Chianese, il più esterno alla sinistra di Remondino. Brambilla se ne rende conto e per correggere ha uno scarto a sinistra. Bruno di Montegnacco, suo gregario di sinistra, che volava molto “stretto”, ala dentro ala, non riesce a evitare la collisione. Gran parte dei piloti non si rende conto subito di quello che sta avvenendo perché impegnata a mantenere la formazione: ognuno ha la testa girata lateralmente per seguire il proprio leader. Sono ancora tutti in volo rovescio e Remondino, che ha notato con la coda dell’occhio la collisione, istintivamente si sposta a destra ed entra in collisione con Renzi che a sua volta investe il velivolo alla sua destra. Tonello, Montanari e Chianese si trovano in mezzo al caos ed è un miracolo che non si investano l’un l’altro. La formazione si “rompe” e i velivoli schizzano via in tutte le direzioni. Brambilla si lancia con il paracadute mentre di Montegnacco ritarda il lancio per tentare di riprendere il controllo del velivolo. Gli specialisti che attendono il rientro dei velivoli sono sotto un’improvvisata baracca di legno che serve da riparo e con il loro orecchio ben allenato sentono subito dalle “smotorate” che qualcosa di grave sta accadendo e si precipitano immediatamente fuori. I due velivoli sono già a terra in fiamme. Brambilla sta per toccare terra col paracadute mentre di Montegnacco si è già schiantato, il suo paracadute non ha fatto in tempo ad aprirsi perché si è lanciato troppo tardi. Remondino atterra poco dopo con il velivolo seriamente danneggiato. Fra i primi a prestare soccorso c’e il famoso pilota collaudatore dei Cantieri aeronavali di Monfalcone, Mario Stoppani, che porta ancora i segni delle ustioni a seguito dell’incidente in Atlantico nel quale aveva perso la vita un altro famoso pilota del 4° Stormo, il cap. Mario Viola. I piloti della formazione scioltasi rientrano sconvolti agli aeroporti di Gorizia e Campoformido dove gli specialisti, vedendoli arrivare in ordine sparso, intuiscono subito il dramma. Il 1° Stormo perde uno dei suoi più validi piloti, Bruno di Montegnacco. Il 22 aprile, a una settimana dall’esibizione aerea prevista a Roma, viene organizzata a Gorizia un’altra esibizione in onore di Sua Altezza Reale, il Duca d’Aosta. Per chi assiste da terra è uno spettacolo fuori dal comune, virate, trasformazioni, looping e tonneau, con ben 54 velivoli: tutto lo Stormo! L’esibizione dura quasi un’ora e Sua Altezza Reale si congratula per l’alto livello addestrativo raggiunto.

A NAPOLI PER LA VISITA DEL CANCELLIERE DEL REICH 
La mia Squadriglia, la 91ª, riceve l’ordine di prepararsi a partire per Napoli per il servizio di “Polizia Aerea”. Dovremo garantire la sicurezza dei cieli quando Hitler e Mussolini si incontreranno e impedire che nessun aereo si avvicini alla città o sorvoli la flotta durante l’imponente rivista navale cui parteciperanno oltre un centinaio di navi. Alle 09.30 del 30 aprile, con tutta la Squadriglia, ai comandi del cap. Giuseppe D’Agostinis, lasciamo Gorizia per Rimini che raggiungiamo dopo 1 ora e 15 minuti. Gli aerei vengono subito riforniti affinché siano pronti per la tratta successiva. Pernottiamo a Rimini, da dove decolliamo il giorno successivo per raggiungere Ciampino Sud nella tarda mattinata, in 1 ora e 30 minuti. Anche a Roma ci fermiamo un giorno. Decolliamo per Napoli alle 15.30 del 2 maggio, e quando siamo in vista della città il cap. D’Agostinis dirige su Caserta dov’è l’Accademia Aeronautica. Quando ci avviciniamo al Palazzo Reale ci fa cenno di stringere la formazione, scendiamo e passiamo 50 piedi sopra la sommità dell’edificio: possiamo vedere i cadetti che guardano verso di noi e salutano. Sorvoliamo una seconda volta l’edificio, riprendiamo quota e dirigiamo sul campo di Capodichino dove effettuiamo un looping in formazione. Uscendo dal looping D’Agostinis segnala ai gregari di sinistra di sfilarsi e portarsi a destra, in fila indiana, e dopo un giro atterriamo. Rulliamo verso il nostro personale tecnico di terra che ci attende, è arrivato ieri notte in treno. Spengo il motore e salto giù, saluto il m.llo Bianchi, il capo motorista e gli altri meccanici; mi tolgo il paracadute e lo sistemo nel posto di pilotaggio, sopra il sedile, poi tutti quanti aiutiamo gli specialisti a rifornire i velivoli e a ricoverarli nell’hangar. Due avieri armati vengono piazzati davanti all’hangar, dove rimarranno fino all’indomani. Il cap. D’Agostinis ci raduna per comunicarci che i Sottufficiali piloti e gli specialisti alloggeranno nell’edificio dell’amministrazione, gli Ufficiali nella “Palazzina Ufficiali”.

IN LIBERA USCITA A NAPOLI 
Siamo liberi di lasciare la base: dobbiamo presentarci davanti all’hangar domani, 3 maggio, per un volo di ambientamento. Giunto nella camerata mi sistemo vicino alla finestra, butto il sacco sulla brandina e mi riposo qualche minuto. Il serg. Natale Fiorito, che è sistemato sulla brandina accanto alla mia, mi chiede se più tardi vado in città. Non conosce Napoli e tanto meno il Sud d’Italia. Propongo di fare una doccia, vestirci e uscire insieme, gli farò da guida. “Non si finisce mai di conoscere Napoli, sono sicuro che ti innamorerai della città e dei napoletani!”, gli dico. Indossate le uniformi ci dirigiamo verso il cancello e prendiamo il tram che porta in centro. Scendiamo a Porta Capuana, andiamo verso la Stazione Ferroviaria e imbocchiamo corso Umberto I. Saliamo su un altro tram che ci porta al Teatro dell’Opera San Carlo e passeggiamo in via Roma. Affittiammo una carrozza e dico al cocchiere di portarci a Mergellina, passando per via Caracciolo. Scendiamo in Piazza Vittoria e proseguiamo verso il Castel dell’Ovo. Chiedo a Fiorito se vuole provare un piatto tipicamente napoletano, lui annuisce e andiamo da “Zi’ Teresa”. Il ristorante è come sempre affollato, il capo cameriere ci indica un tavolo vicino al quale siede un Ufficiale della Marina con la famiglia, lo saluto e ci sediamo. Chiedo al cameriere qualcosa di speciale per il mio amico che visita Napoli per la prima volta, torna con un piatto di maccheroni e vongole. La proprietaria, la signora Teresa, viene al nostro tavolo per salutarci e ci offre un liquore, ha un debole per i piloti. Ci incamminiamo lungo il fronte del porto, a Santa Lucia, e ritorniamo in Via Roma. Entriamo nella Galleria e prendiamo il tram per l’aeroporto. Fiorito mi confida che non si immaginava che Napoli fosse così bella. Ci sdraiamo sulle brandine, al buio si vedono le luci alle falde del Vesuvio e si scorgono le cabine della funicolare andare su e giù; mi addormento con questo spettacolo negli occhi.

IL SERVIZIO DI “POLIZIA AEREA” A NAPOLI 
Il 3 maggio passiamo la mattinata preparando e controllando i velivoli e poi partecipiamo al briefing. Il pomeriggio, alle 15.30, andiamo tutti in volo per 30 minuti, dobbiamo ambientarci con la zona da pattugliare. Una volta a terra ci viene comunicato che siamo liberi anche domani. Il mattino del 5 maggio mi sveglio presto, osservo il sole che esce da dietro il Vesuvio e diventa sempre più luminoso, una sottile scia di fumo esce dal cratere e si disperde verso il mare. Alle 06.00 il cap. D’Agostinis è già in hangar e poco dopo arrivano in linea di volo anche i piloti e gli specialisti. Il Capitano ci fa il briefing: “Nessun aereo è autorizzato a volare sul porto o sulla città di Napoli, dalle 07.00 al tramonto. Mussolini e Hitler arriveranno in treno alle 09.00. Passeranno in rassegna le truppe, raggiungeranno poi il porto e saliranno a bordo di una delle navi da battaglia per passare in rassegna la flotta. Chiunque scorga un aereo non autorizzato deve segnalarlo al proprio Capopattuglia. Se il Capopattuglia non riuscisse a localizzare l’intruso, il pilota che l’ha individuato prenderà il comando della pattuglia e la guiderà verso l’aereo. Affiancatevi al velivolo intruso e segnalategli di cambiare rotta e allontanarsi. Se non obbedisce sparate una raffica di avvertimento e scortatelo fuori dalla zona del porto e fuori dal perimetro della città. Ci dovrà essere una pattuglia sempre in volo e un’altra di tre velivoli dovrà essere pronta a decollare in qualunque momento. Ho già preparato i piani di volo per tutti”. Il Capitano conclude dicendo che comanderà la prima pattuglia portando come gregari il serg. Fiorito e il giovane s.ten. Giuseppe Citterio. Al suo ritorno il ten. Domenico Camarda decollerà con altri due piloti della 90ª Squadriglia che sono con noi al posto dei tre della 91ª in licenza. Io sarò in pattuglia con il ten. Monti e il serg. Bianchi, che non è parente e non ha nulla a che fare con il m.llo capomotorista Bianchi! Siamo autorizzati ad andare a mangiare qualcosa e dobbiamo tornare nel giro di venti minuti. Prendo un sandwich con uova e un bicchiere di latte e torno all’aereo. Il cap. D’Agostinis, mentre sale sull’aereo, ricorda al ten. Camarda che dovrà andare a rilevarlo sopra Posillipo a una quota di 3000 metri, esattamente tra 1 ora e 45 minuti. Mi sdraio sull’erba, sotto l’aereo; lo specialista continua la sua ispezione mentre gli armieri aprono gli sportelli e controllano le armi. Quando è quasi ora del decollo il ten. Camarda invita i suoi gregari a salire a bordo e ad avviare i motori per decollare poco dopo. Quindici minuti più tardi il cap. D’Agostinis atterra con la sua pattuglia. Gli andiamo incontro mentre gli specialisti attorniano gli aerei, li ispezionano e li riforniscono. “In volo tutto è tranquillo, la visibilità è illimitata”, ci spiega il cap. D’Agostinis, “Tutta la flotta italiana è qui, ci sono molte navi ancorate in rada e la parata inizierà tra poco. Il ten. Camarda dovrebbe vedere il corteo scendere lungo la strada principale in direzione del porto, c’è già molta gente lungo la strada”. Aggiunge che le navi inizieranno a muoversi una volta che Mussolini e Hitler saranno a bordo della nave ammiraglia. Va a mangiare qualcosa e quando ritorna dice al ten. Monti di tenersi pronto. Salgo sul mio aereo e, quando il Tenente si è sistemato e fa un cenno al m.llo Bianchi e a me, apro la valvola dello starter e il motore si mette subito in moto. Il ten. Monti toglie i freni e rulla verso la posizione di decollo. Lo seguiamo, ci affianchiamo e decolliamo restando raso terra per alcuni secondi. Alla fine del campo il Tenente cabra virando verso Posillipo, sono le 10.50. Mentre saliamo scorgiamo l’altra pattuglia in volo e ci dirigiamo verso di loro, li incrociamo, volano in direzione opposta e vanno all’atterraggio. Saliamo a 3.500 metri e circuitiamo sulla flotta dirigendoci poi verso Capri e Ischia per pattugliare anche quella zona. Mi allontano un po’ mantenendomi in formazione larga per poter ammirare il panorama. A questa quota il cielo è azzurro e la vista di Napoli e del Vesuvio mi affascina. Mentre dirigiamo verso Capri mi sembra di vedere qualcosa in volo sotto di noi che si dirige verso Ischia: è un aereo che proviene dal mare e dirige su Napoli. Risalgo, affianco il ten. Monti, gli faccio i segnali convenuti e gli indico la posizione dell’intruso. Lui non riesce a localizzarlo e mi fa segno di dirigere sull’aereo, viro e comincio a scendere per portarmi in coda; già da lontano riconosco la sagoma tipica dello Ju 52, un aereo militare da trasporto tedesco. Non capisco come è finito qui, nonostante tutti gli avvisi emanati agli aerei militari e civili. Quando lo raggiungo sono vicino alla mia massima velocità, gli passo sotto e, superatolo, cabro bruscamente passandogli davanti al muso, effettuo un looping e mi porto in coda, riduco la velocità e mi affianco. Come previsto dalle regole internazionali di intercettazione, oscillo ripetutamente le ali e poi viro verso il Lago Patria, sul litorale nei pressi di Napoli; mi segue, aggiro la città e lo scorto su Capodichino. Sopra l’aeroporto oscillo nuovamente le ali, lo Ju 52 atterra, mentre continuo a circuitare finché non vedo i motori spegnersi, quindi atterro anch’io, sono trascorsi solo 1 ora e 10 minuti dal decollo. Vado a rapporto dal cap. D’Agostinis, c’è anche il ten. Monti che è appena atterrato e conferma la mia versione dell’accaduto. Monti si complimenta per la mia “vista d’aquila” e racconta al Capitano che lo spettacolo delle navi e dei sottomarini che sfilavano per la parata era grandioso. È ora di pranzo, andiamo a mangiare qualcosa in mensa mentre l’altra pattuglia è in volo, quando ritorniamo è il turno del cap. D’Agostinis. Tocca a noi: alle 17.55 decolliamo, oramai sembra tutto tranquillo. Le grosse navi da guerra stanno ritornando dove erano attraccate al mattino, mentre noi continuiamo il pattugliamento e atterriamo alle 18.50. Al rientro, dopo aver aiutato i meccanici a ricoverare gli aerei nell’hangar, il cap. D’Agostinis ci chiama: “Vi ringrazio per l’ottimo lavoro svolto. Domani siete liberi e potete andare dove desiderate senza bisogno del permesso. Io sono invitato al Circolo Ufficiali di Napoli, gradirei che gli Ufficiali venissero con me”, ci dice, e il ten. Monti risponde: “Certamente, ci verremo e così la difenderemo dagli attacchi delle ragazze!”. Tutti sorridono. Andiamo agli alloggi, faccio una doccia, mi vesto e prendo il tram per Napoli. Mi siedo in un bar e scrivo una lettera a mio padre e mio fratello e la imbuco alla stazione. Faccio una passeggiata e torno alla base perché mi sento stanco.

UNA VISITA AL MUSEO DELLA CERTOSA DEL CASTELLO DI SAN MARTINO 
Il mattino del 6 maggio mi sveglio presto e dopo una colazione leggera vado a Napoli. Fa caldo, prendo un altro tram per la Galleria Umberto I e mi siedo in uno dei bar, leggo i giornali che scrivono dell’incontro fra Mussolini e Hitler a Roma e della grande rivista navale a Napoli. Passeggio in via Roma, ci sono molti militari in giro, all’ora di pranzo entro in una trattoria. Il proprietario è molto gentile, mi offre un liquore e mi saluta con un invito: “Tornate presto”. Prendo la funicolare per il Vomero: è uno strano trenino, a causa della la forte pendenza dei binari le carrozze hanno all’interno dei gradini. Il percorso è perlopiù in galleria. Al Vomero prendo una carrozzella e mi faccio portare al Castello di San Martino, il museo della Certosa è molto interessante. Esco su uno dei balconi, il panorama di Napoli vista dall’alto è stupendo. Torno in via Roma, mentre passeggio incontro due colleghi della mia Squadriglia, mi dicono che il Comandante, poco dopo la mia uscita, ha comunicato agli specialisti di tenersi pronti a partire al più presto per Firenze, è arrivato l’ordine per un altro servizio di “Polizia Aerea”. Mussolini e il Cancelliere tedesco saranno in visita in quella città il 9 maggio. Incontriamo altri tre colleghi, andiamo tutti insieme a farci una pizza in un locale che si chiama “Da Ciro”. Quando usciamo ci dividiamo, alcuni vanno al cinema mentre io torno alla base, fa troppo caldo con l’uniforme addosso. Dopo una doccia mi sdraio sulla brandina e mi addormento.

LA PARTENZA PER FIRENZE 
Il giorno seguente, il 7 maggio, ripongo le mie cose in un borsone che sistemo nel vano della radio di bordo, che è vuoto perche’ non installata. Effettuo i controlli previsti e mi assicuro che i serbatoi siano riforniti, i tappi ben stretti e i nastri delle mitragliatrici estratti. Avvio il motorino a scoppio di bordo che trascina il compressore e genera la pressione dell’aria per avviare il motore e azionare i freni. Il Comandante, insieme agli altri Ufficiali, arriva nel primo pomeriggio. Verso le 14.00 ci riunisce per il briefing sul volo per Roma-Ciampino Sud e Firenze-Peretola. Decolliamo alle 15.30 e atterriamo a Ciampino Sud alle 16.30. Facciamo subito rifornimento di carburante e ci apprestiamo a partire quando il cap. D’Agostinis ci chiama: “È arrivato un contrordine. Ci fermiamo a Roma e ripartiremo per Firenze domani a mezzogiorno. Gli Ufficiali sono invitati a un gran ballo alla Casa dell’Aviatore a Roma. Gli altri sono liberi”. Prendo il mio borsone e mi avvio verso gli alloggi dove sono sistemati anche i piloti del Gruppo Acrobatico. Incontro i colleghi del 1°, 4°, 6° e 3° Stormo che domani effettueranno l’esibizione con il “Pattuglione” di 28 aerei comandato dal magg. Aldo Remondino. I piloti della Pattuglia Acrobatica del nostro Stormo sono: Montanari, Pezzè, Chianese gregari di sinistra e Renzi, Romandini, Attanasio gregari di destra. Mi raccontano che il 26 aprile, durante il trasferimento a Roma, Renzo Agonigi del 6° Stormo a causa di un’avaria al motore è stato costretto ad effettuare un atterraggio di emergenza nel greto del torrente Caprassina in provincia di Pesaro. Il velivolo ha capottato e, grazie all’intervento di alcuni pastori, l’incidente non ha avuto conseguenze gravi per il pilota. Agonigi ha proseguito il viaggio in treno fino all’aeroporto di Ciampino dove si è riunito ai compagni per partecipare alla manifestazione dell’8 maggio. La maggior parte dei colleghi si reca a Roma mentre io preferisco rimanere in aeroporto. La sera vado a cena in una piccola trattoria di fronte al campo. La proprietaria mi dice che c’è un cinema appena fuori dalla trattoria, è di sua proprietà e proiettano un film non ancora uscito nelle altre sale. L’hanno girato a Cinecittà, posso entrare gratis semplicemente facendo il nome della sig.ra Salati. Il film è La cena delle beffe, con Osvaldo Valenti, Amedeo Nazzari e Clara Calamai. Quando esco dal cinema passo a ringraziare la proprietaria della trattoria che mi offre un bicchiere di Frascati. Rientro negli alloggi, a mezzanotte tornano i colleghi che sono andati a Roma.

LA “MANIFESTAZIONE H” – 8 MAGGIO 
Domenica 8 maggio il tempo non è molto favorevole, è nuvoloso e tira un discreto vento. Andiamo alla mensa prima che arrivi la folla. Quando sto per uscire dal bar qualcuno mi chiama. Mi volto, è Mazzi, un ragazzo che era con me alla scuola di volo di Grottaglie. Sa tutto sulla mia avventura in Spagna. Quando ha sentito del mio ritorno in USA ha pensato che non mi avrebbe più rivisto. Inizia l’afflusso del pubblico e delle autorità, oltre al Re Vittorio Emanuele III, Mussolini e Hitler sono presenti le massime autorità italiane e straniere. Assistiamo alla manifestazione, i nostri mandano in visibilio autorità e spettatori, nessuno prima d’ora aveva mai fatto acrobazie con una formazione così numerosa, né tantomeno un looping con 28 aerei. Quando il “Pattuglione” termina l’esibizione e si accingono a decollare gli altri velivoli andiamo verso la mensa per mangiare un boccone, dobbiamo partire presto. La mensa è troppo affollata ed optiamo per il bar dove prendo due sandwich e una tavoletta di cioccolato che metto in tasca. Incontro nuovamente Mazzi, parliamo un po’ e poi mi lascia, deve tornare alla sua Squadriglia. Vado sul piazzale dove sono parcheggiati i nostri CR 32, alcuni specialisti stanno chiudendo i serbatoi e controllando i motori. Il Comandante arriva con gli altri Ufficiali intorno alle 11.30 e ci dice di salire a bordo. Il tempo è migliorato, ma lungo la rotta e a Firenze le previsioni meteo non sono ottimali. A un cenno del Comandante avviamo i motori, gli specialisti tolgono i tacchi e si allontanano. Rulliamo, ci allineiamo tutti in formazione e decolliamo. Sono le 11.45. Sorvoliamo gli aerei del nostro Stormo, parcheggiati sul piazzale principale, e mettiamo prua verso Nord-Ovest. Dopo un’ora siamo in prossimità del campo di Peretola. È un campo alquanto piccolo, il cap. D’Agostinis con un cenno ci indica di portarci in fila indiana, fa un giro del campo per darci l’opportunità di valutare gli ostacoli. Dobbiamo atterrare su una striscia stretta che ha da un lato una strada e dall’altro una fila di alberi ad alto fusto. Con mia sorpresa noto che un aereo è caduto subito dopo la pista, c’è del personale dell’aeroporto attorno e un’autoambulanza sta correndo sul campo dirigendo verso il luogo dell’impatto. Quando la gente vicino all’aereo incidentato realizza che stiamo atterrando si allontana e tocchiamo terra uno alla volta, tenendo una distanza di sicurezza. Giunto al parcheggio chiedo notizie del pilota coinvolto nell’incidente. “È stallato in decollo”, mi rispondono, “Ha urtato il suolo con un’ala, il carrello ha ceduto e ha capottato. Il pilota non era ferito gravemente ed è uscito da solo da sotto l’aereo. Ora è nell’infermeria dell’aeroporto”. Aggiungono che si tratta di un pilota del 2° Stormo, il serg. Lucchetta. Il cap. D’Agostinis ci chiama per comunicarci che i Sottufficiali saranno alloggiati nell’infermeria del campo, mentre gli Ufficiali andranno in città in un albergo convenzionato con l’Aeronautica Militare, visto che in aeroporto non sono previsti alloggi per loro. L’ufficiale di giornata ci accompagna nell’infermeria dove sono stati preparati alcuni letti per noi. Mi do una rinfrescata e decido di rimanere in aeroporto mentre i colleghi vanno Firenze. Chiedo a un infermiere dov’è ricoverato il pilota dell’incidente, mi indica l’altra ala dell’edificio, allo stesso piano. Mi avvio, un altro infermiere mi accompagna alla camera. Busso e vengo invitato ad entrare: il collega è a letto, circondato da amici che gli tengono compagnia. Mi presento e chiedo come sta, mi risponde che va bene. Mi domanda del mio accento e poi vuol sapere come sono gli aerei degli USA. Poco dopo entra il medico, mi dice che il pilota deve rimanere qui ancora un paio di giorni e di lasciarlo riposare.

IL SERVIZIO DI “POLIZIA AEREA” A FIRENZE 
Il 9 maggio dopo un caffè e un panino vado all’aereo. I meccanici stanno togliendo i teloni protettivi, do una mano a scaldare i motori. Effettuo i controlli e mi accerto che le mitragliatrici siano armate e con i nastri correttamente posizionati. Eseguo gli stessi controlli anche sul velivolo del Comandante, tolgo il suo paracadute dal posto di pilotaggio e lo poso sulla semiala inferiore. Quando il Comandante arriva ci informa che il 2° Stormo è qui per lo stesso servizio di pattugliamento, loro lo effettueranno a bassa quota e noi ad alta quota, a 4000 metri. Sono assegnato alla pattuglia del cap. D’Agostinis insieme a Fiorito. Decolliamo alle 13.40, la pattuglia del 2° Stormo ci segue e si ferma 1000 metri. Continuiamo a salire fino a 4000 metri e ci mettiamo a circuitare. Firenze è bella dall’alto come Napoli, ma le mancano il golfo e il Vesuvio. Rimaniamo in volo fino alle 15.00, per un’ora e venti minuti. Vedo l’altra pattuglia venire su a darci il cambio, lo segnalo al Comandante. Quando raggiungono la nostra quota iniziamo a scendere. Atterriamo e rulliamo verso il piazzale, c’è molta gente che viene dalla città a vedere i nostri aerei. Il cap. D’Agostinis ci chiama: “Il prossimo turno di pattugliamento è cancellato. Sarà effettuato dalla pattuglia del 2° Stormo. Siete liberi da ora per l’intera giornata di domani. Partiremo per Gorizia dopodomani mattina”. Questa sera a Firenze ci saranno i fuochi artificiali, ci sarà parecchia confusione. Decido di rimanere in aeroporto, assisto al decollo della Pattuglia del 2° Stormo. Dopo cena vado a trovare Lucchetta; sta giocando a carte con due ragazzi della sua Squadriglia e sta meglio. Il medico dice che tra un paio di giorni potrà tornare a Brescia, al 2° Stormo. Il mattino dopo, il 10 maggio, verso le nove prendo il bus che dall’aeroporto di Peretola porta a Firenze. Prendo una vettura dalla stazione dei bus al centro città. Mi piace Firenze, ci sono fiori dappertutto lungo le strade principali e il conducente mi porta fino al parco delle Cascine che è tutto fiorito e pieno di alberi pregiati. Torno in centro con la stessa vettura e chiedo al conducente di accompagnarmi in un ristorante dove si mangi bene. Quando esco dal locale visito la città; alla sera rientro in aeroporto a Peretola, sono stanco e vado a dormire presto.

DI RITORNO A GORIZIA 
Il mattino dell’11 maggio dopo colazione vado a trovare Lucchetta e lo saluto. Sul piazzale i motoristi hanno già approntato i velivoli, intorno alle 10.15 arriva il cap. D’Agostinis con gli altri Ufficiali; è già stato all’Ufficio Meteo e ha preso visione della situazione meteorologica e delle previsioni che sembrano favorevoli. Ci illustra la rotta e poco dopo decolliamo a gruppi di tre alla volta. Circuitiamo sul campo per attendere gli ultimi e mettiamo la prua verso casa. Durante la navigazione manteniamo una formazione larga finché non siamo in prossimità di Gorizia. Ci abbassiamo, prendiamo velocità, sorvoliamo il campo a 100 metri di quota, risaliamo con una virata a sinistra, ci portiamo sottovento e atterriamo in formazione. Quando saltiamo giù dagli aerei tutto il personale tecnico del nostro Gruppo è sul piazzale a salutarci. I motoristi spingono gli aerei nell’hangar e noi rientriamo nei nostri alloggi. Al Circolo Sottufficiali chiedo al barista se c’è posta per me, mi dice che è nella mia camera. Salgo al secondo piano, la posta è sulla brandina, mi siedo a leggere prima la lettera di mio padre e poi quella di mio fratello. Grazie a Dio entrambi stanno bene. Non trovo alcuna lettera della mia matrigna, non ne ho mai ricevute da quando sono tornato in Italia, temo che lei e mio padre si siano separati. Do anche un’occhiata all’Aero Digest che mio padre mi manda ogni mese, rimango poi in camera a rispondere alle lettere e a sentire la radio. Dopo un pasto leggero vado a dormire presto. 
Il mattino di giovedì 12 maggio incontro uno dei nuovi piloti giunti dalla scuola di volo mentre eravamo via e che mi è stato assegnato. Vado all’ufficio di volo della Squadriglia, non sono in turno di volo oggi e così mi metto ad aggiornare i registri dei velivoli e dei piloti. Mentre sono impegnato a trascrivere i dati insieme a Fiorito entra il cap. D’Agostinis. “Ragazzi”, ci dice, “ho ricevuto una comunicazione dal Ministero che prevede una lettera di licenza premio di 10 giorni per tutto il personale di volo e di terra che ha preso parte alla Manifestazione H. L’Amministrazione pagherà tutte le spese. Potete partire questa sera stessa”. “Grazie Signore”, rispondo, “Se è possibile, chiederei tre giorni per andare a Venezia e Trieste”. Mi autorizza e mi conferma che il permesso sarà pronto tra un’ora nel suo ufficio. A Venezia mi fermo due giorni e poi vado a Trieste dove trascorro il week-end. Gli altri giorni li passo visitando con la Topolino i luoghi intorno a Gorizia dove si sono svolte le tragiche “undici battaglie dell’Isonzo”, tra il 1915 e 1917. Ritorno in servizio lunedì 22 maggio. Il cap. D’Agostinis quando mi vede mi chiede perché sono tornato così presto, visto che ho ancora un paio di giorni liberi. “Sto bene in aeroporto a Gorizia e mi piace volare”, rispondo. “D’accordo, vuol dire che allenerai i nuovi allievi. Io vado in licenza, vai a parlare con il com.te di Gruppo, il magg. Dequal. Accordati con lui”, dice, e se ne va. Nel mese di giugno l’attività di volo è intensa: coppia, pattuglia, pattuglia acrobatica, formazione di Gruppo e di Stormo, tiro reale al poligono. Spesso vado in volo con Dequal, come ai bei tempi della Spagna. Si verificano purtroppo alcuni incidenti, un pilota rimane ucciso e un paio sono esonerati dal volo, almeno come piloti da caccia. I più anziani sono incaricati anche di pattugliare lungo il confine tra Italia e Jugoslavia. Il 19 Giugno partecipo alla cerimonia sul Montello in onore di Francesco Baracca; ci portiamo ad Aviano e poi da lì sorvoliamo il Montello con una formazione di 30 velivoli. Dopo la sfilata rientriamo a Gorizia.

L’INCIDENTE DEL GORIZIANO FRANCESCO COMELLI 
Il 9 maggio la Pattuglia Acrobatica del 4° Stormo rientra dalla manifestazione di Roma. All’altezza di Ancona uno dei velivoli ha dei problemi al motore e atterra a Foligno. L’aeroporto non è attrezzato per la manutenzione dei CR 32, per sostituire il motore devono arrivare ricambi e specialisti da Gorizia e passano due mesi. Quando l’aereo è rimesso in linea, viene inviato a ritirarlo l’8 luglio Comelli della 91ª, il Tenente con il quale avevo effettuato la ripresa voli al mio rientro dalla Spagna. Comelli aveva chiesto questo incarico in quanto molto amico del Comandante dell’aeroporto di Foligno, un pilota proveniente dal 4° Stormo di Gorizia. Il Comandante è felice di rivedere il vecchio compagno e di ricordare i bei tempi passati al 4° Stormo e, davanti agli altri Ufficiali e Sottufficiali, dice a Comelli “Facci vedere come si vola a Gorizia!”. Comelli sale sul CR 32 e si esibisce con alcune figure acrobatiche che gli sono consuete. Vanno poi tutti a pranzo e nel primo pomeriggio Comelli decolla da Foligno ma, per motivi che rimarranno ignoti (forse aveva il sole di fronte), urta la linea ad alta tensione che corre parallela alla ferrovia in fondo al campo. Comelli era da poco rientrato dalla Spagna dove si era guadagnato una Medaglia d’Argento e una di Bronzo al VM. La salma viene trasportata a Gorizia, le esequie officiate nella chiesa di San Giusto. Sara’ sepolto nel cimitero vicino all’aeroporto, dove un CR 32 scolpito sulla lapide lo ricorda ai suoi concittadini.

L’INCONTRO CON L’ASSO SPAGNOLO GARCIA MORATO 
Durante l’estate assisto ad alcune parate alle quali partecipano alti Ufficiali fascisti giunti in visita. In una di queste incontro Garcia Morato. Ero in pattuglia con lui in Spagna quando sono caduto e sono stato fatto prigioniero. È venuto a far visita al nostro Stormo, divenuto famoso anche all’estero per l’abilità dei suoi piloti. Mi abbraccia, è commosso nel rivedermi. Ci sono anche Dequal, Avvico, Bandini e Chianese. Morato ci dice che il Governo Spagnolo sta stilando una lista degli italiani che hanno dato un importante contributo alla causa dei franchisti. Noi siamo fra questi e ci verrà consegnato un attestato di riconoscimento del Governo Spagnolo. Gli spiego come è avvenuta la collisione con Urtubi, il 13 settembre 1936, e gli racconto della mia successiva cattura. “Il mattino stesso, dopo il tuo abbattimento, sono rientrato al campo”, mi racconta, “e insieme a Chianese e Buffali sono tornato sul luogo dello scontro per cercarti ma, dopo due ore di volo, sono rientrato. Alla sera dal fronte ci hanno riferito che tre nostri aerei erano stati abbattuti e da uno di essi il pilota si era lanciato col paracadute. Abbiamo pensato che se eri tu forse ti saresti salvato dalla fucilazione grazie al tuo passaporto americano”. Morato rimane con noi a Gorizia per quattro giorni prima di ritornare in Spagna. È divenuto un personaggio leggendario della Spagna Franchista e Capo delle Operazioni della Caccia spagnola. Morirà l’anno dopo, il 5 aprile del 1939, esibendosi in un tonneau a bassa quota durante le riprese di un film sull’Aviazione Legionaria. A Gorizia intanto l’attività va aumentando, giungono altri giovani piloti dalle scuole di volo e dobbiamo addestrarli. Il 25 agosto durante un volo di addestramento il velivolo del s.ten. Baschiera, da poco alla 90ª, ha un’avaria. Baschiera riesce a rientrare in campo e si guadagna una medaglia di bronzo. Poco dopo, il 27 agosto, il serg. Carlo Bianchi della 91ª, durante una puntata a Ronchi con un CR 32, urta il terreno e muore. Il 20 settembre, con 40 velivoli dello Stormo, partecipiamo a Treviso a una cerimonia, alla presenza del Capo del Governo. Il 22 ottobre il s.ten. Gastone Gal della 96ª entra in collisione col gregario, tenta di portare a terra il velivolo ma muore nell’impatto. 
Sono promosso Sergente Maggiore il 18 novembre, con sei mesi di indennità arretrata. Invito Aldo Ferrulli a cena per festeggiare la mia promozione. Con la “Topolino” e altri due colleghi che mi chiedono un passaggio ci rechiamo a Trieste. Andiamo a cena in un locale al castello di San Giusto frequentato dai piloti, quando stiamo finendo arriva il cap. D’Agostinis, si complimenta per la mia promozione e si siede qualche tavolo più in là in compagnia di una ragazza. 
Verso la fine di febbraio 1939 rientrano dalla prigionia in Spagna gli ultimi piloti del 4° Stormo ancora lì trattenuti: il cap. Antonio Raffi, i s.ten. Franco Lucchini, Aldo Gon, Alfonso Caracciolo, Mario Falconi e i serg. Luigi Mariotti e Francesco Panichi. Hanno trascorso alcuni mesi terribili nelle prigioni spagnole e sono rientrati attraverso i Pirenei seguendo la ritirata delle forze repubblicane, oramai prossime alla disfatta. Hanno rischiato di essere trucidati in quanto un ostacolo per i miliziani che retrocedevano verso la Francia, dove sono stati rilasciati. Due mesi prima era rientrato anche Ugo Corsi, il mio istruttore che nel marzo 1936 mi fece il passaggio sul CR 32.

LA SITUAZIONE INTERNAZIONALE 
La situazione in Europa si fa seria, la Germania è una potenza militare sempre più forte, i Governi di Inghilterra e Francia sono preoccupati ma non fanno nulla per fermare Hitler che intanto occupa la Cecoslovacchia. Hitler, non vedendo alcuna reazione da parte delle nazioni europee più potenti, diventa sempre più aggressivo. Non si sa come reagirà Mussolini, c’è qualcosa nell’aria che non so spiegare, qualcosa che non sta andando per il verso giusto. Improvvisamente l’Italia invia truppe in Albania per occuparla, non ho mai sentito che l’Albania abbia creato dei problemi all’Italia, non capisco! Il 6° Stormo Caccia con base a Rimini e Ravenna è trasferito in Albania dove rimane con le forze occupanti. Arriva l’ordine al nostro Stormo, e ad altri tre, di trasferire ciascuno una Squadriglia al 6° Stormo Caccia per sostituire quelle dislocate in Albania e ricostituire il Reparto. Dovrà essere inoltre cura dei vari Comandi di Stormo assegnare un pilota esperto per ogni Squadriglia, affinché possano essere addestrati i piloti con poca esperienza, numerosi soprattutto fra gli altri Stormi. Il 4° Stormo mette a disposizione la 90ª Squadriglia e il comando è affidato al cap. Elio Fiacchino. Mi capita di passare nell’Ufficio del Gruppo dove incontro i tre Comandanti di Squadriglia. Il cap. Fiacchino mi fa cenno di avvicinarmi, lo saluto e lui: “Patriarca, vuoi venire con me a organizzare il 6° Stormo?”. La domanda mi coglie impreparato, non so cosa rispondere. Con il cap. Fiacchino ci sono il magg. Dequal e il cap. D’Agostinis, li guardo ammutolito e dopo qualche secondo rispondo: “Amo Gorizia, qui ho molti amici e sto bene… ma se c’è bisogno di me, sono pronto”. Il magg. Dequal mi spiega che ha controllato il registro dell’organico e la 91ª Squadriglia è quella che ha un numero maggiore di piloti esperti e io sono uno dei più anziani e l’unico ad avere due “Campagne”, la scelta così è caduta su di me. “Dobbiamo essere a Rimini il 26 maggio, tra una settimana circa”, aggiunge Fiacchino, “Ti troverai bene!”.

AL 6° STORMO CACCIA TERRESTRE DI RIMINI 
Vengo assegnato così al 6° Stormo “Diavoli Rossi”, costituito a Campoformido il 15 gennaio 1935, con piloti provenienti dal 1° e dal 4°, e comprende il II e III Gruppo. Sono assegnato al II Gruppo, alla 151ª Squadriglia, comandata dal cap. Elio Fiacchino. Decollo da Gorizia il pomeriggio del 26 maggio alle 15.20 e dopo 1 ora e 15 minuti atterro a Rimini. Le altre due Squadriglie del II Gruppo, la 150ª e la 152ª, sono arrivate il giorno prima. Il Comandante del Gruppo è il magg. Giuseppe Baylon, uno dei migliori comandanti e un vero signore, anche lui proviene dal IX Gruppo del 4° Stormo di Gorizia. I piloti che incontro sono vecchie conoscenze del 1° e 4° Stormo: i s.ten. J.G. Santandrea, Salvatore Teja, Livio Ceccotti, Lorenzo Pallavicini e Angelo Riva, il m.llo Emiro Nicola, i serg. Luigi Iellici, Lorenzo Piva, Francesco Spina, Pasquale Longoni, Alessandro Gallone e Romano. Io sono il Sergente Maggiore più anziano. La 150ª Squadriglia proviene dal 1° Stormo di Campoformido, il cui organico dei piloti è rimasto il medesimo in quanto hanno tutti aderito alla proposta e hanno seguito la loro Squadriglia. Sono tutti piloti più anziani di quelli della mia Squadriglia, tra loro ci sono i m.lli Colombo e Renzo Castelletti che fanno parte della Pattuglia Acrobatica dello Stormo insieme al ten. Italo Alessandrini, un pilota anziano. Anche Castelletti proviene dal 4° Stormo di Gorizia, ci conosciamo da allora. Il 10 luglio 1935, durante un’esibizione alla presenza del gen. Francesco Pricolo, comandante della II ZAT, e di altre autorità, aveva organizzato una singolare protesta contro la disposizione che costringeva i piloti in caserma il lunedì mattina per smaltire i bagordi domenicali: volare in formazione “larga”, non il solito metro o metro e mezzo tra velivolo e velivolo bensì 5-6 metri. Il X Gruppo aderisce alla protesta mentre il IX Gruppo sfila in formazione compatta. Le autorità e il pubblico nemmeno lo notano ma il Comandante di Gruppo e i Comandanti di Squadriglia vanno su tutte le furie. Castelletti inoltre, dopo il decollo, raggiunta la formazione si stacca e rientra in aeroporto simulando un malfunzionamento del motore. Il suo Comandante di Squadriglia, il cap. Rossi, fa controllare il motore che risulta regolare, Castelletti per punizione viene trasferito al 1° Stormo. Ci vengono consegnati alcuni velivoli nuovi e dobbiamo effettuare il volo di accettazione per verificare il perfetto funzionamento del motore e degli impianti. Poco dopo iniziamo le nostre missioni e al rientro, ogni qualvolta si presenta l’occasione, Colombo e Castelletti si esibiscono in acrobazie sul campo. Effettivamente sono molto bravi, in particolare il m.llo Colombo. Un giorno dico al cap. Fiacchino che anche noi di Gorizia dobbiamo poter far vedere come voliamo e chiedo di dare una piccola dimostrazione. “Vai Patriarca e fagli vedere tu!”, mi risponde. Attendo le 14.00, quando l’attività di volo non è ancora iniziata e i piloti ritornano alla Linea di Volo dalla mensa. Decollo e mantengo il velivolo vicino a terra fino al limite del campo per prendere velocità. Faccio una virata di 360 gradi con quasi 90 gradi di inclinazione e la punta dell’ala a non più di cinque piedi da terra. Cabro e salgo a 700 metri, metto l’aereo in picchiata puntando i tre hangar, livello più basso di questi e cabro poco prima per effettuare un looping. Mentre sono al culmine del looping, quasi rovescio, spingo in avanti la cloche affinché il “cerchio” sia perfetto e lo “chiudo” puntando nuovamente gli hangar. Faccio prendere velocità all’aereo, cabro ed effettuo un Immelmann, ritorno sul campo eseguendo un tonneau. Cabro ancora e concludo con un tonneau di soli alettoni, in verticale. Atterro in scivolata d’ala e mi porto di fronte all’hangar. Insieme al cap. Fiacchino e al Comandante della 150° Squadriglia, il cap. Tullio De Prato (un “ex 4° Stormo”), c’è anche il magg. Baylon che deve esser arrivato dopo il mio decollo e ha visto tutto. Salto giù dall’aereo e mi aspetto una lavata di capo dal Maggiore. “Non è male, Patriarca”, sbotta, “Ma vediamo anche di addestrare i nuovi piloti”. Quando il Maggiore si allontana, il cap. Fiacchino mi dice: “Baylon in un primo momento pensava che in volo ci fosse Colombo. Sei stato bravo!”, e prima di allontanarsi mi dà una pacca sulla spalla. Da allora, quando si presenta l’occasione, faccio qualche breve esibizione sul campo, senza esagerare, e tra me e Colombo nasce una simpatica competizione che ha come giudici i colleghi a terra e gli specialisti. Del resto sono l’unico ad avere due campagne alle spalle e cinque aerei abbattuti. Qualche eccezione al regolamento mi deve pur esser concessa!

LA VITA AL 6° STORMO 
L’addestramento dei nuovi piloti al volo in coppia progredisce e le formazioni diventano man mano più numerose, fino a comprendere sette velivoli. Alla fine effettuiamo con loro anche alcune figure acrobatiche, in formazione compatta. La 150ª Squadriglia ha un paio di brutti incidenti, il serg. Romano perde il controllo dell’aereo, entra in vite e muore e la 152ª perde un altro pilota. Giungono al nostro Reparto a darci manforte anche i piloti reduci dalle “Operazioni Militari di Spagna”: la guerra è finita e il generale Franco ha sconfitto le forze repubblicane. Arrivano altri piloti dalle Scuole di Volo; a Roma e a Treviso vengono costituiti nuovi Stormi. Riceviamo dei CR 32 dalla FIAT, fa caldo e nel tardo pomeriggio, con l’aria più fresca, il cap. Fiacchino mi chiede se voglio provare uno dei nuovi aerei. Accetto volentieri. “Rimani sul cielo campo, non c’è nessun altro in volo. Non scendere sotto i 500 metri!”, mi raccomanda il Capitano. Volare con un CR 32 nuovo di zecca è sempre un piacere! Quando ritorno e rullo verso l’hangar noto sul piazzale alcuni Ufficiali accompagnati dal magg. Baylon. Non li riconosco subito, ma poi, quando scendo e mi avvicino, realizzo che sono Bruno e Vittorio Mussolini. Saluto militarmente e mi presento. Il magg. Baylon mi chiede cosa sto facendo, il cap. Fiacchino risponde per me: “Gli ho detto di fare un volo prova con questo nuovo CR 32”, e si informa se tutto funziona bene. Bruno Mussolini si rivolge a me: “Voi siete il pilota che ho conosciuto nel 1935 sulla nave per Asmara?”. “Sissignore, sono io!”, rispondo. Mi chiede del cap. Colacicchi, gli dico che ho perso le sue tracce e quelle della Squadriglia quando sono stato ricoverato in ospedale. Saluto militarmente e prima di congedarmi mi stringono la mano.

A GORIZIA PER IL CAMBIO COMANDO DELLA DIVISIONE “AQUILA” 
È trascorso poco più di un mese e il 4 luglio il nostro 6° Stormo si trasferisce a Gorizia per partecipare alla manifestazione prevista il 5 luglio, in occasione del passaggio di consegne fra il gen. Santoro e il gen. Velardi al comando della Divisione Aquila. Vi partecipano tre Stormi, il 4° di Gorizia, il 1° di Campoformido e il nostro, ognuno con cinque Squadriglie di sette velivoli, 105 in tutto: da circa un mese ci stiamo addestrando per questa cerimonia. Ci fermiamo a Gorizia due giorni e ho l’opportunità di incontrare Aldo Ferrulli e di trascorrere piacevolmente qualche ora insieme, gli racconto della vita al 6° Stormo. Lui è ancora sconvolto per la disgrazia che lo ha colpito: Marianna Ciochetti, la ragazza di Gorizia che ho conosciuto quando si erano appena fidanzati è improvvisamente morta a 19 anni per una broncopolmonite e gli ha lasciato un figlio. Anche il serg. Giovanni Tonello è ritornato dalla Spagna ed è nuovamente con la sua vecchia Squadriglia. Come in passato, in occasione delle manifestazioni sul campo di Gorizia vi e’ un gran traffico e grande agitazione fin dai giorni precedenti l’evento. Il giorno della cerimonia c’è la parata aerea. Decolliamo alle 08.40, il nostro Stormo sfila con la formazione della Caccia, dietro al 4° e 1° Stormo. Seguono gli aerei da Ricognizione e Bombardamento. Dopo due giri sopra Gorizia le nostre cinque Squadriglie ritornano a Rimini con il magg. Baylon che guida la formazione. Atterriamo alle 10.10.

L’INVASIONE DELLA POLONIA 
Al nostro rientro ci viene concessa una licenza di un paio di giorni ma non mi interessa, Rimini e Riccione offrono tutto quello che un giovane può desiderare: belle ragazze e sale da ballo. Intanto il neo costituito 51° Stormo, basato a Ciampino Sud, sta ricevendo i nuovi aerei da caccia, FIAT G 50. Anche l’appena costituito 54° Stormo, basato a Treviso, riceve i nuovi Macchi MC 200 e comprende tre Gruppi, il 151°, il 152° ed il 153° che portano i nomi di battaglia e gli emblemi che avevano in Spagna: “Asso di Spade, “Cucaracha” e “Asso di Bastoni”. Entrambi gli Stormi sono formati prevalentemente dai piloti reduci dalla Spagna. Alcuni di miei compagni del 4° Stormo, al loro rientro, sono assegnati a questi due Reparti per collaborare alla preparazione degli allievi. Anche a Rimini l’addestramento continua e abbiamo numerose missioni di tiro al poligono e finta caccia. Infine la 151ª Squadriglia (?) raggiunge un buon standard addestrativo e i piloti giovani possono essere affiancati e sostituire i piloti anziani. Alla sera, se la giornata non è stata pesante, raggiungo la spiaggia vicino al campo per fare una nuotata. A volte vado a ballare o mi siedo a un caffè. 
Siamo arrivati a fine agosto del 1939, l’attività di volo si riduce. La sera del 1° settembre sono seduto in un bar e ascolto musica alla radio, c’è una interruzione del programma, il presentatore annuncia che, nel giro di qualche minuto, da Roma giungerà un importante comunicato. Tutti interrompono quello che stanno facendo, poco dopo apprendiamo che la Germania ha dichiarato guerra alla Polonia e le truppe tedesche avanzano sul suo territorio, la Marina da guerra tedesca ha bombardato Danzica. “Ci siamo”, dico tra di me, “Sta succedendo proprio quello che mi auguravo non succedesse”. Hitler si sente sicuro di sé, ha compreso che Francia e Inghilterra sono timorose e non lo ostacoleranno. Mi auguro che l’Italia non si affianchi alla Germania ed entri in guerra, ne abbiamo già combattute due, in Etiopia e in Spagna, gli italiani sono stanchi. Torno in aeroporto, sono demoralizzato. Scrivo una lettera a mio padre e a mio fratello e poi mi reco al Circolo Sottufficiali, ascolto la radio e vado a dormire verso mezzanotte. Mi sveglio col mal di gola, non ci do importanza, vado in volo con due allievi e poi raggiungo la spiaggia per una nuotata. Quando esco dall’acqua mi sento male, mi rivesto e torno nella mia cameretta: ho la febbre. Chiedo a Iellici di chiamare l’Ufficiale medico, questi mi misura la febbre e constata che è alta e ho una brutta infezione alla gola, va in infermeria e quando torna mi fa un’iniezione. Devo prendere delle pillole ogni tre ore per ventiquattro ore. Il medico ritorna durante la notte a misurarmi la febbre e il mattino seguente mi fa un’altra iniezione, mi dice che guarirò presto. Rimango a letto per cinque giorni. Il cap. Fiacchino viene a trovarmi insieme al medico. È la prima volta che mi ammalo in quattro anni, da quando ho lasciato l’Africa Orientale. Infine sto meglio, mi presento in Squadriglia e il Comandante mi chiede se me la sento di riprendere subito a volare o se preferisco qualche lavoro d’ufficio. “Sono guarito e mi sento in forma. Posso riprendere a volare”, rispondo. Mi dice di prendere un aereo sul quale è stato appena sostituito il motore e fare un volo prova e una navigazione per riprendere la mano. Decollo e dirigo su Venezia, Padova, Ferrara e Ravenna, infine torno a Rimini. Tutto funziona correttamente, solo la temperatura dell’olio è un po’ alta e dopo l’atterraggio lo segnalo allo specialista. Iniziamo le esercitazioni al poligono e tutte le Squadriglie si recano ad Aviano. Durante l’inverno c’è parecchia nebbia nella valle del Po e quando siamo sulla via del ritorno per Rimini siamo costretti a ritornare ad Aviano, è impossibile proseguire a causa della scarsa visibilità. Siamo così bloccati ad Aviano per due giorni e ne approfittiamo per continuare l’addestramento al poligono.

A CIAMPINO SUD, AL 51° STORMO, 356ª SQUADRIGLIA 
Quando finalmente torniamo a Rimini ci perviene dallo Stato Maggiore la richiesta di un pilota esperto da trasferire al 51° Stormo Caccia di Ciampino Sud. Tutti i piloti vengono convocati nell’ufficio del Comandante di Gruppo, il magg. Baylon. Mi dichiaro disponibile al trasferimento, l’idea di provare questo nuovo caccia, il G 50, mi alletta. Il mio nominativo è segnalato al Ministero e poco dopo arriva un telegramma con la conferma del trasferimento. Devo presentarmi al più presto a rapporto presso il 51° Stormo Caccia. Prima di partire i colleghi di Squadriglia organizzano una semplice festicciola d’addio e mi regalano un porta sigarette d’argento con impressi il mio nome e il numero della Squadriglia. Due colleghi mi accompagnano alla stazione ferroviaria. Il 20 novembre mi presento al Comando del 51° Stormo, non c’è nessuno. Chiedo a un aviere come mai. “Abbiamo avuto due gravi incidenti questa mattina”, mi risponde, “Due aerei sono entrati in collisione durante il volo e un terzo si è schiantato mentre faceva acrobazie a bassa quota in un paese vicino a Roma. Tre piloti morti in poche ore!”. “Cominciamo bene!”, mi dico. Mi presento all’Ufficio Comando il mattino successivo, consegno i miei documenti al Comandante che gli esamina e poi esclama: “Vedo che provieni dal 6° Stormo e dai nastrini delle campagne noto che sei stato in Africa Orientale e in Spagna. Troverai molti vecchi amici qui al 51° Stormo”. Mi dice di mettermi a rapporto dal Comandante del 21° Gruppo, il magg. Ettore Foschini. Conosco il Maggiore, proviene dal 1° Stormo di Campoformido, mi stringe la mano e mi dice di essere lieto di avermi nel suo Gruppo: sarò assegnato alla 356ª Squadriglia comandata dal cap. Paolo Tito Maddalena. Lo Stormo è basato su due Gruppi, il 20° e 21° Gruppo; la 356ª Squadriglia, insieme alla 354ª e 355ª, fa parte del 21° Gruppo. Mi presento al Capitano, consegno i documenti e dopo il saluto rimango sull’attenti. Esaminati i fogli, il cap. Maddalena alza il capo e mi fissa: “Vedo che arrivi dall’America!”. “Sissignore, sono nato a New York”, rispondo. Mi ordina il riposo e poi mi parla del FIAT G 50: “Dal tuo stato di servizio risulti essere il più anziano qui. Dovrai aiutarmi ad addestrare i piloti più giovani. Al momento abbiamo solo quattro aerei ma ne arriveranno altri per completare lo Stormo. È necessario prendere bene la mano sul G 50, è un aereo che richiede ‘manico’, a volte gioca brutti tiri se cabri o viri bruscamente”, e aggiunge: “Ce ne sono tre in hangar, puoi andare a vederli. Domani, se prendi subito la mano con il Nardi 305, ti faccio decollare con il G 50”. Mi congeda freddamente, senza dire che è lieto di avermi nella sua Squadriglia e senza stringermi la mano come sono soliti fare gli altri Comandanti in queste occasioni. Nell’hangar salgo a bordo di uno degli aerei e studio gli strumenti e i comandi. Due piloti si avvicinano, salto giù e ci presentiamo, sono entrambi della 356ª Squadriglia. Mi chiedono cosa penso del Comandante, rispondo che mi è sembrato piuttosto freddo, almeno dal modo in cui mi ha ricevuto. Si mettono a ridere: “Hai fatto centro!”, mi rispondono. Mi chiedono come mi sembra il G 50. “Le ali sembrano quelle del Curtiss e la fusoliera sembra una grossa scatola con una gobba in cima”, rispondo. Si mettono a ridere e poi uno di loro si fa serio: “È un caccia molto veloce, più di qualunque altro caccia che abbiamo oggi in Italia”. Rimango sul piazzale dell’hangar a osservare i decolli dei velivoli delle altre Squadriglie. C’è anche un altro Stormo dislocato qui a Ciampino Sud, il 52° Stormo, ha in dotazione i CR 32. Trascorrono alcuni giorni e il 29 novembre incontro un mio vecchio amico con cui ero in Africa Orientale, il m.llo Mainini, capo motorista della Squadriglia. Mi intrattengo a ricordare il periodo trascorso insieme e a mezzogiorno andiamo a pranzo in mensa. L’attività di volo riprende alle 14, torniamo all’hangar e aiuto Mainini a togliere i teloni dagli aerei.

IL DECOLLO CON IL NARDI 305 
Arriva il cap. Maddalena e chiede a Mainini se il Nardi 305 è pronto per un volo. Mainini risponde che l’aereo è rifornito e che provvederà subito a scaldare il motore. Quando l’aereo è pronto il Comandante mi chiama. “Patriarca, sali sul Nardi e fatti un paio di decolli e di atterraggi”. Il Nardi 305 è un velivolo con il carrello retrattile mediante l’azionamento di una manovella; la retrazione richiede uno sforzo non da poco ed è opportuno che l’aereo abbia raggiunto una quota di sicurezza prima di iniziare la manovra. Per l’estensione lo sforzo è minore in quanto il carrello scende per caduta libera e con poche pompate viene “bloccato”. La completa retrazione ed estensione, o meglio i relativi “blocchi” di fine corsa, sono confermati da due luci verdi che si accendono. Chiamo Mainini e facciamo gli ultimi controlli insieme; poi mi ricorda le manovre per l’azionamento del carrello e per l’utilizzo del sistema di estensione d’emergenza. Ripeto tre volte quello che mi dice e lui si assicura che sia tutto corretto: è la prima volta che opero con un carrello retrattile. Avvio il motore, rullo, mi porto in pista e decollo, faccio un circuito campo senza retrarre il carrello. In avvicinamento noto subito che l’ala non deve avere un grande “coefficiente di efficienza”, cioè il velivolo non “plana” molto e necessita di parecchio motore per volare. Per sicurezza mantengo la potenza fino quasi a terra. Tocco senza problemi, rullo fino al Sergente della Linea, mi giro in direzione del vento e decollo nuovamente. Salgo a 500 metri e solo allora inizio a retrarre il carrello, se mi dovessi distrarre almeno non c’è pericolo che mi infili a terra. Come mi è stato anticipato, la retrazione “manuale” è alquanto lunga e l’ultima parte è più difficoltosa: quando si accendono le due luci verdi sono tutto sudato. Faccio un giro campo in modo che il Comandante veda che ho il carrello su. Effettivamente il velivolo è veloce ma un po’ lento nella risposta ai comandi di volo. Poco dopo abbasso l’interruttore di sicurezza sul pannello elettrico e comincio ad azionare la manovella della pompa a mano. Lo sforzo ora è decisamente minore, il carrello scende per gravità. Dopo due minuti sono nuovamente a terra. Il cap. Maddalena mi chiede cosa penso dell’aereo. “Indubbiamente è un bell’aereo anche se quando si toglie motore mette subito giù il muso”, rispondo. “Va bene, vai pure!”, mi dice, e va in volo con il Nardi. Al suo ritorno convoca i piloti della Squadriglia e ci assegna alcuni lavori d’ufficio. Il giorno dopo, il 30 novembre, mi dice di andare nuovamente in volo con il Nardi e di rimanere sul campo per fare acrobazie. Mentre lascio il piazzale e rullo verso la pista vedo arrivare il Comandante di Gruppo, il magg. Foschini, che è venuto a parlare con il cap. Maddalena. Salgo sul campo a 1200 metri, metto l’aereo in picchiata e quando raggiungo 310 km/h imposto un looping. Arrivato quasi in cima stringo leggermente, l’aereo vibra, è in “pre-stallo”, spingo in avanti la cloche e le vibrazioni cessano. Ripeto la manovra facendo più attenzione e l’inconveniente non si ripete. Quando esco dal looping e la velocità aumenta i flap vibrano leggermente e le vibrazioni si trasmettono sui comandi. Quando atterro il magg. Foschini mi chiede come è andata, gli spiego i due inconvenienti che ho riscontrato. “Il Nardi è un aereo con ottime prestazioni di velocità ma purtroppo ha questi inconvenienti. È un aereo da naso!”, mi risponde.

IL DECOLLO CON IL G 50 
Quando ha terminato, il cap. Maddalena manda in volo un altro pilota e per ultimo va lui. Mentre tutti sono impegnati sulla linea di volo, entro nell’hangar e mi siedo su uno dei FIAT G 50. Chiedo a uno specialista di spiegarmi il funzionamento dei comandi del carrello e dei flap e le relative procedure d’emergenza in caso di malfunzionamenti. Mi spiega anche come si regola l’elica Hamilton in decollo e in atterraggio e mi consegna un manuale con le istruzioni. Mi fa provare tutte le procedure normali e di emergenza finché riesco a eseguirle senza esitazioni, toccando i comandi con gli occhi chiusi e simulando il loro azionamento. Una prassi utile soprattutto quando si vola di notte o se c’è fumo nel posto di pilotaggio. Quando il cap. Maddalena rientra dal volo chiama Mainini e gli fa una lavata di testa perché l’autobotte del carburante non era sulla linea di volo al suo ritorno. Me ne vado via: non mi piace il suo carattere, è sempre nervoso e brusco con tutti, spesso senza motivo. Vado in ufficio e aggiorno i registri dei velivoli, il Capitano entra, mi vede e non mi dice nulla, me ne sto per conto mio. Quando ho finito mi chiede il registro del Nardi, l’unico efficiente che vola. Glielo porto, lo controlla, lo firma e me lo restituisce sempre senza proferire parola. Torno in hangar da dove osservo gli atterraggi dei G 50 delle altre Squadriglie. Incontro una vecchia conoscenza del 4° Stormo, Luigi Acerbi, è considerato uno dei migliori piloti. Parliamo di Gorizia e dei vecchi amici che sono ancora lì. Gli chiedo del G 50, lo conosce bene ed è stato uno dei primi a volarci sopra in Spagna, purtroppo solo le ultime tre settimane della guerra. Mi dà pochi suggerimenti semplici ma essenziali, da buon pilota ha ben presenti i punti critici del velivolo e sa consigliare come evitare di mettersi in situazioni spiacevoli. Il mattino del 7 dicembre 1939 sono nell’hangar quando arriva il cap. Maddalena, mi chiama per dirmi di tenermi pronto per andare in volo con il G 50 e ordina a Mainini di scaldare il motore di un aereo. Prendo casco e occhiali e ritorno dopo qualche minuto. Mi dice di salire a bordo e di aspettare, salta sull’ala e si mette lateralmente al posto di pilotaggio, con la testa quasi dentro. Mi chiede le procedure normali e di emergenza, i limiti di funzionamento degli impianti e, quando sembra soddisfatto, esclama “Va bene! Decolla, senza retrarre il carrello, fai un circuito e torna all’atterraggio. Ricordati di estendere i flap”. Mi allineo in pista, applico i freni, porto il motore a tre quarti della potenza massima, rilascio i freni, l’aereo inizia la corsa di decollo, spingo sulla pedaliera quasi a fondo corsa per compensare la tendenza ad imbardare. Porto la potenza al massimo e spingo leggermente avanti la cloche, la coda lentamente si alza e tengo l’aereo in quella posizione finché raggiungo la velocità di decollo, inizio a tirare indietro la cloche e l’aereo si stacca dal suolo. Salgo a 500 metri, con il carrello esteso l’aereo fatica un po’ a salire, mi porto sottovento, estendo i flap, l’aereo tende a salire, compenso questa tendenza con il trim, mi porto in finale e tocco terra sui tre punti. Sono trascorsi in tutto meno di cinque minuti. Rullo fino al punto dove il Comandante mi aspetta, a cenni mi indica di ridecollare e questa volta retrarre il carrello. Riporto il trim nella posizione neutra e ripeto le stesse manovre retraendo il carrello d’atterraggio, l’aereo ora accelera rapidamente. In sottovento mantengo una velocità di 195 km/h, estendo il carrello e abbasso i flap. Effettuo due circuiti senza atterrare, riattaccando a una decina di metri da terra. La retrazione ed estensione del carrello funziona correttamente. Mi scordo invece di ridurre il passo dell’elica in atterraggio e la corsa è più lunga. Giunto a terra rimango sul campo a osservare gli altri piloti che sono anche loro ai primi voli. I tre giorni successivi il tempo è brutto e non si vola, il quarto finalmente è una tipica giornata invernale, il cielo è limpido e c’è il ghiaccio nelle pozzanghere. Gli aerei vengono spinti sul piazzale e i motori riscaldati. Il Comandante mi dice di prendere un velivolo ed effettuare un volo di ambientamento. Questa volta vado in quota, a 2000 metri, ed effettuo alcuni stalli. Constato che, senza flap, l’aereo stalla a 145 Km/h mentre con flap e carrello estesi stalla a 125 km/h. Effettuo alcune manovre acrobatiche e una vite. Quando arrivo in hangar, insieme al magg. Foschini e al cap. Maddalena c’è il gen. Cassinelli. Il cap. Maddalena mi dice di avvicinarmi, il Generale chiede la mia impressione sul G 50. “Sono solo al secondo volo”, rispondo, “Mi sembra un aereo veloce, fa 100 km/h più del CR 32 ed è abbastanza manovrabile”. Effettuo ancora alcuni voli d’ambientamento e poi il cap. Maddalena mi assegna alcuni allievi da addestrare al volo in coppia.

LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA 
Tra poco sarà Natale e a tutti è stata data una licenza di cinque giorni. L’invasione della Polonia da parte della Germania si è conclusa tragicamente per i polacchi. I tedeschi, i francesi e gli inglesi si fronteggiano dietro le linee Siegfried e Maginot, ho qualche brutto presentimento, mi viene in mente il detto “la quiete prima della tempesta”. Ho trovato un acquirente per la mia FIAT Topolino, preferisco sbarazzarmi dell’auto prima che le cose precipitino. L’Italia sembra decisa a intervenire nel conflitto, mi auguro che ciò non succeda. Cerco di non pensarci, vado spesso a Roma e cerco di divertirmi ma la gente non è più allegra come qualche anno prima. Mentre sono al Circolo Sottufficiali entra un sergente, chiede di un collega, gli rispondo che è in licenza. Mi confida che è del 54° Stormo Caccia di Treviso. È romano e, da quando è in Aeronautica, sta tentando di ottenere il trasferimento in uno degli Stormi qui a Roma. Mi propongo per lo scambio, sempre che lui sia in grado di trovare gli “agganci” opportuni al Ministero. Gli appunto su un pezzo di carta i miei dati, mi ricorda che entrambi dobbiamo presentare una richiesta scritta e che dovremo accollarci le spese del trasferimento. Il Capo Ufficio del Personale al Ministero è un caro amico di suo padre e sicuramente farà il possibile per aiutarci. Presento richiesta scritta di trasferimento al cap. Maddalena che non la gradisce molto ma non può fare nulla contro la mia determinazione.

A TREVISO AL 54° STORMO 
Passano i mesi e non ho nessuna notizia e comincio a pensare che la nostra richiesta sia stata scartata. Il 4 Aprile 1940 invece arriva l’ordine del mio trasferimento al 54° Stormo Caccia di Treviso. Il 54° Stormo è costituito dal 151° Gruppo ex “Asso di Spade” e dal 152° Gruppo ex “Cucaracha”; sono assegnato alla 369ª Squadriglia, comandata dal cap. Jannicelli. La 369ª Squadriglia, insieme alla 370ª e alla 371ª, dipende dal 152° Gruppo, quello che portava il nome scelto da Dequal per la nostra Squadriglia in Spagna. Il mattino seguente il Comandante Maddalena mi convoca nel suo ufficio e mi consegna i documenti per il trasferimento. Non dice nulla, si vede che è contrariato, saluto e lui risponde appena. In hangar saluto i colleghi piloti e gli specialisti della mia Squadriglia. Mentre mi stringono la mano alcuni mi dicono che sono fortunato ad andarmene dalla 356ª, anche loro stanno tentando di essere trasferiti. Faccio le valigie e nel pomeriggio prendo il tram per la stazione Termini. Salgo sul treno per Venezia alle 20.30 e dopo una notte di viaggio arrivo a Treviso alle 08.30 del mattino. Alla stazione chiedo quanto sia lontano l’aeroporto, l’autista di un taxi mi dice che è a tre chilometri, gli chiedo di portarmi là. Al cancello presento i documenti all’ufficiale di servizio. Mi risponde che negli uffici non c’è nessuno, devo attendere. Chiedo cosa sia successo, mi risponde “Ieri il Comandante di Stormo e un suo Tenente, sono entrati in collisione mentre erano in volo, entrambi sono deceduti. Ora sono tutti al funerale”. È la seconda volta che mi presento e c’è un funerale! Comincio ad avere qualche dubbio… non sarò io a portare sfortuna? Mi invita nel frattempo a recarmi negli alloggi dei piloti e ritirare l’equipaggiamento. Mi indica l’edificio, quando arrivo mi rivolgo al Sottufficiale responsabile che mi accompagna in una camera con tre letti e mi dice di sistemarmi nell’unico vuoto. Disfo il bagaglio e sistemo le mie cose in uno stipetto vuoto. Il Sottufficiale torna con due paia di lenzuola e quattro coperte e mi fa firmare una ricevuta per il magazzino. Lo ringrazio e gli allungo una banconota, la rifiuta ma insisto: “Sono solo per offrirti da bere al bar dell’aeroporto!”. Quando ho finito vado al Circolo Sottufficiali, mi siedo e prendo un caffè. Non c’è nessun altro, oltre al barista. Mi metto a giocare da solo a biliardo, dopo un po’ si apre la porta della sala, mi volto: è Tamanini, eravamo insieme in Africa Orientale: “Patriarca, che ci fai qua? Come va americano?” esclama, e mi abbraccia. “Da quanto tempo sei a Treviso?”. “Sono arrivato questa mattina”, rispondo. Mi dice che è appena tornato da una licenza di dieci giorni. Ricordiamo i tempi trascorsi insieme e i comuni amici. Gli chiedo se suona ancora la fisarmonica, mi farebbe piacere risentirlo, mi dice che ce l’ha in camera. Più tardi ritornano i bus dal funerale e tutti i Sottufficiali scendono, non conosco nessuno. Continuo a conversare con Tamanini quando qualcuno sopraggiunge alle mie spalle, mi copre gli occhi con le mani e con voce alterata mi chiede: “Indovina chi è, se indovini offro io da bere, altrimenti paghi tu!”. Provo indovinare, faccio tre nomi ma non c’azzecco: è Gianni Tonello, un caro amico del 4° Stormo di Gorizia. Con lui ci sono il m.llo Sbrighi, il serg. Scuffi e altri due colleghi che mi presenta. È mezzogiorno, è l’occasione per offrire l’aperitivo al Circolo, dove abbiamo un tavolo tutto per noi. Tonello e gli amici mi fanno un sacco di domande, uno di loro dice che dall’Ufficio Comando del Gruppo ha saputo che sono qui per sostituire il serg. Fagiolo, della sua Squadriglia. Alle 14.30, quando il personale riprende servizio, vado al Comando per mettermi a rapporto. Un Ufficiale si avvicina: “Ciao, Patriarca”, esclama. Sul momento non lo riconosco, è il ten. Favini, ora è Maggiore. Mi stringe la mano: “Come stai? Che piacere rivederti. Cosa ci fai qui?”, mi chiede, “Sono venuto a sostituire un pilota della 369ª”, rispondo, e lui “Io comando il 151° Gruppo CT, il vecchio Asso di Bastoni della Spagna. Peccato che sei già stato assegnato, ti avrei voluto al mio Gruppo”. Un Tenente esce da un ufficio, mi consegna dei documenti e dice di mettermi a rapporto dal Comandante della 369ª Squadriglia, il cap. Jannicelli. Saluto il vecchio amico, Favini risponde che ora avremo occasione di vederci spesso. Il Comandante Jannicelli mi presenta agli Ufficiali, ai Sottufficiali piloti e al personale di terra della Squadriglia. Si informa sulle caratteristiche dei velivoli con i quali ho volato e in particolare del G 50. Mi chiede perché ho chiesto di venire qui a Treviso e di dove sono. “Hai vissuto negli USA? Ottimo, così potrò fare un po’ di pratica con l’inglese”, risponde.

I NUOVI COLLEGHI DELLA 369ª 
Il cap. Jannicelli mi accompagna nell’hangar della Squadriglia e mi presenta al m.llo Villa che sta mettendo a punto un motore sulla Linea di Volo. Mi mostra gli aerei della 369ª Squadriglia: sono i Macchi MC 200, mi piacciono subito, hanno una bella linea filante e dovrebbero anche essere veloci. Il motore è lo stesso del G 50 ma il muso dell’aereo è più affusolato. Chiedo quale sia la velocità massima, mi risponde “505 chilometri all’ora. Ne abbiamo solo cinque al momento, ne riceveremo altri per completare la Squadriglia nel giro di pochi giorni. Gli aerei sono pronti alla Macchi di Lonate Pozzolo e i nostri piloti sono già lì per il trasferimento”. Mi invita a ritirare l’equipaggiamento di volo nel magazzino vestiario e poi torna in ufficio. Mi consegnano una tuta nuova di zecca, guanti, occhiali e un paio di scarpe leggere. Ritorno in camera, ripongo il tutto nell’armadietto, mi sdraio sul letto per riposarmi un po’ ed accendo la radio per ascoltare le ultime notizie. Non c’è nulla di nuovo sulla guerra tra la Germania, la Francia e l’Inghilterra a parte alcuni scontri tra le due parti sulla linea Maginot e la Siegfried. Scrivo una lettera a mio fratello e a mio padre mandando loro il mio nuovo indirizzo. Mentre sto scrivendo entrano i due compagni di camera: sono i serg. Salvadori e Marini. Sirio Salvadori è una vecchia conoscenza del 4° Stormo, è noto per un singolare incidente occorsogli durante un volo di trasferimento a Roma: passando con la sua Squadriglia in vicinanza del paese della fidanzata, in Toscana, si staccò dalla formazione con il suo CR 20 per fare una “puntata” sulla casa dell’amata ma richiamò tardi e con tutto l’aereo si infilò dentro una finestra, demolendo la parete. Miracolosamente rimase illeso ma fu espulso dall’Aeronautica. Dopo alcuni mesi, essendo quotato come pilota, venne reintegrato e gli fu addebitato il costo del velivolo e dei danni causati, trattenendolo mensilmente dagli stipendi fino al termine della carriera. Salvadori e Marini fanno parte anche loro della 369ª Squadriglia. Sono rientrati appena un mese fa dalla Spagna, sapevano della mia avventura da prima della loro partenza. Dico loro che ho già incontrato il Comandante e che mi sembra una persona squisita, mi confermano che è più di un amico. Si preparano per trascorrere un paio di ore a Treviso questa sera e mi invitano ad andare con loro, ma preferisco riposare. Usciamo insieme dalla camera, loro se ne vanno in città, io alla mensa e poi al cinema della caserma. Salvadori e Marini tornano verso le 23, sono ancora sveglio ad ascoltare la radio e la spengo per non disturbare.

IL DECOLLO SUL MACCHI MC 200 
Il mattino seguente ci presentiamo tutti e tre in hangar, il cap. Jannicelli mi chiama e mi dice di salire a bordo di un Macchi sottoposto a revisione che è in hangar sui cavalletti. Desidera spiegarmi gli impianti e le procedure del velivolo, chiama anche il capo impiantista, il serg.m. Zucconi, salgono ognuno su un’ala mettendosi accanto alla cabina. Sono seduto al posto di pilotaggio e osservo gli strumenti e i comandi, sono molto simili a quelli del G 50. La cabina è più stretta, si ha l’impressione di non starci dentro, in compenso tutti i comandi sono facilmente raggiungibili. Mi spiegano la procedura di avviamento del motore e quella per l’azionamento del carrello e dei flap. Si accertano che le abbia memorizzate chiedendomi di ripeterle toccando i comandi interessati. Infine scendono dall’aereo e Zucconi mi fa cenno di avviare il motore facendo attenzione a non superare i 1200 giri al minuto perché l’aereo potrebbe cadere dai cavalletti. A un suo cenno dovrò retrarre ed estendere il carrello con la procedura normale e poi con quella d’emergenza, successivamente ripeterò la manovra con i flap. Avvio il motore ed eseguo quanto ordinatomi, quando abbasso i flap noto che gli alettoni scendono contemporaneamente di alcuni gradi. Con la cloche provo a muovere gli alettoni, si muovono ma hanno un’escursione ridotta. Quando spengo il motore e salto giù il cap. Jannicelli sta parlando con il serg.m. Zucconi. “È normale che gli alettoni si abbassino quando si estendono i flap?”, chiedo. Il Capitano non mi risponde, vuol sapere se ho fatto esattamente quello che mi è stato detto. Lo confermo e lui aggiunge: “Stanno giungendo dalla Macchi i tecnici per apportare delle modifiche a tutti i velivoli. Il Comandante di Stormo, prima di rimanere ucciso, aveva segnalato all’Ufficio Tecnico del Ministero che alcuni piloti riportavano difficoltà nel controllare il velivolo quando i flap sono abbassati. Tieniti pronto perché subito dopo gli interventi e i controlli della squadra della Macchi andrai in volo”. L’8 di aprile tutti i velivoli sono modificati ed è stata eliminata l’interconnessione tra alettoni e flap. Il Comandante mi dice di prepararmi ad andare in volo, mi assegna l’MC 200 che è sui cavalletti, gli specialisti lo tirano giù e lo mettono in linea. Vado a prendere il casco e il paracadute e mi sistemo nel posto di pilotaggio. Il cap. Jannicelli sale sull’ala, mi dice di fare attenzione in atterraggio agli alberi in fondo al campo e salta giù dall’aereo. Chiudo il tettuccio, avvio il motore, quando la temperatura dell’olio raggiunge i valori previsti faccio cenno al motorista di togliere i tacchi e mi avvio al punto di decollo che si trova vicino al Sergente di Linea. Appena in volo retraggo il carrello e i flap, riduco il motore e aumento il passo dell’elica. Ho subito la sensazione che l’aereo abbia prestazioni brillanti: è veloce e ha un buon rateo di salita, decisamente superiore al G 50. A 1000 metri livello ed effettuo delle virate strette: risponde bene e con il minimo sforzo sulla barra. Mi porto in circuito d’atterraggio e quando sono in sottovento estendo il carrello, le due luci verdi si accendono e percepisco il lieve sussulto dei semicarrelli che si bloccano. In finale porto i flap al 50% e quando sono sicuro di atterrare li porto al 100%. Rullo verso il cap. Jannicelli che sale sull’ala, mi fa qualche osservazione e mi dice di fare altri due circuiti. Quando scendo, il Comandante e i ragazzi che sono sulla linea si congratulano, sorrido e ringrazio, prometto che pagherò da bere a tutti. Prego il m.llo Villa di interessarsi lui e a mezzogiorno arriva in hangar un vassoio di pasticcini e un paio di bottiglie di spumante. Mentre chiacchieriamo sentiamo il rombo di alcuni aerei che sorvolano il campo, ci sporgiamo dall’hangar: sono i sette MC 200 che ci vengono consegnati per completare la nostra Squadriglia. Il profilo alare progettato da Castoldi è stato sottoposto a una parziale modifica dall’ing. Sergio Stefanutti, il progettista della SAI, poiché i primi esemplari avevano un’accentuata tendenza a “cadere d’ala” in prossimità dello stallo, senza alcun “preavviso”. Con il nuovo profilo a diversa sezione lungo la corda alare questo comportamento indesiderato è stato eliminato. Il mattino successivo giungono i tecnici della Casa costruttrice per verificare le modifiche effettuate sui comandi dei flap e degli alettoni.

IL TRASFERIMENTO A TORINO CASELLE, CASABIANCA 
L’addestramento si intensifica, l’attività comprende formazioni e tiri al poligono. La Squadriglia è in splendida forma, i piloti più anziani sono reduci della Spagna ed alcuni dall’Africa, i giovani che abbiamo addestrato si dimostrano all’altezza dei loro compiti. Intanto continuano a giungere notizie di combattimenti in Francia: a maggio i tedeschi hanno invaso il Belgio e aggirato “l’inconquistabile” linea Maginot e avanzano verso Parigi. Gli inglesi, che hanno subito pesanti perdite per i bombardamenti della Luftwaffe e gli attacchi delle Divisioni corazzate dei Panzer tedeschi, si stanno ritirando verso la Manica per evitare di essere accerchiati e fatti prigionieri. Il 3 giugno 1940 arriva l’ordine di trasferire aerei e personale del nostro Stormo a Caselle Torinese, il Comandante riceverà nuove istruzioni dal Comando di Zona Aerea. Dopo uno scalo a Lonate Pozzolo arriviamo a Caselle verso le 10. Mentre gli aerei vengono riforniti il Comandante dello Stormo ritira la busta con gli ordini, a ciascun Gruppo è stato assegnato un campo lungo la frontiera francese. Il 151° Gruppo viene dislocato su un campo nei pressi di Pinerolo mentre il 152° Gruppo, il mio, viene trasferito su un campo intermedio, ad Airasca, dove si insedierà il Comando di Stormo. Ci salutiamo con i piloti dell’altro Gruppo e, mentre gli ultimi aerei vengono riforniti, il Comandante di Stormo ci riunisce per un briefing sul volo e sulla procedura di atterraggio ad Airasca, un campo alquanto corto. Saliamo a bordo e quando segnaliamo al Comandante che siamo pronti ci risponde con un cenno: i motori cominciano a girare espellendo sbuffi di fumo dagli scarichi. Ogni Squadriglia decolla separatamente per riunirsi in formazione sopra l’aeroporto. Airasca è vicina e una volta sopra facciamo un giro, a terra accendono del carburante dentro un bidone per indicarci la direzione del vento, atterriamo uno alla volta. Gli aerei delle varie Squadriglie vengono decentrati e sistemati in luoghi diversi intorno al campo, accanto ad alcuni alberi per non essere facilmente identificati dall’alto. Vengono anche coperti da teloni mimetici color verde e marrone. Alloggeremo nelle tende che sono state allestite poco prima del nostro arrivo. Sul campo c’è solo un piccolo edificio ed è usato come Ufficio Comando e Centro Comunicazioni, in quest’ultimo sono installati telefoni e telescriventi. Ci raggiunge direttamente ad Airasca il nostro nuovo Comandante di Gruppo, il t.col. Colacicchi, il mio Comandante di Squadriglia in Africa. Mi saluta calorosamente, dice che è lieto di rivedermi e che ha saputo della mia cattura in Spagna. Va poi a salutare gli altri colleghi delle Squadriglie e il personale tecnico del Gruppo. Non lo vedrò molto in futuro perché sarà sempre di corsa, fra lo Stormo e il Quartier Generale della Zona Aerea.

LE OPERAZIONI SUL FRONTE FRANCESE 
I cinque giorni successivi sono frenetici, ci sono grandi preparativi, diversi convogli di truppe transitano vicino al campo in direzione del confine francese. Le Forze tedesche non trovano molta resistenza da parte dei francesi e in poco tempo la Francia è in ginocchio: le truppe tedesche sono alle porte di Parigi. Il 10 giugno 1940 ci comunicano di ascoltare la radio, ci sarà un’importante comunicazione al popolo italiano da parte del Capo del Governo, il Duce. Siamo nella tenda del Comando intorno alla radio che trasmette musica patriottica; me ne sto pensieroso in disparte, mi auguro che non sia una dichiarazione di guerra perché la Francia è quasi alla fine, ma ho un brutto presentimento. La musica si interrompe all’improvviso e l’annunciatore dice che sta per parlare il Duce. Nella tenda cala il silenzio, si sentono solo gli uccelli cantare sugli alberi, la radio resta muta ancora alcuni secondi e poi una voce annuncia: “Il Duce”. Segue uno scoppio di grida e applausi della folla: “Viva il Duce!”. Tutto si cheta nuovamente, non si sente volare una mosca. Il Duce inizia a parlare. Le sue prima parole sono “Combattenti di terra, di mare, dell’aria, l’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria…” Poi una breve pausa e annuncia che l’Italia ha dichiarato guerra alla Francia e all’Inghilterra e… insieme al Terzo Reich marcerà verso la vittoria. Aggiunge qualcos’altro ma non ascolto, esco dalla tenda. Vado a sedermi sotto l’ala del mio aereo con i miei pensieri. Sono contrario a questa guerra ma non posso dare tutte la colpe a Mussolini per essersi alleato con la Germania. L’Inghilterra e la Francia hanno sempre avversato l’Italia, durante la guerra d’Etiopia e della Spagna. Hanno fatto sì che la Lega delle Nazioni imponesse sanzioni all’Italia e con questo loro comportamento hanno spinto Mussolini nelle braccia di Hitler. Ora mi auguro soltanto che gli Stati Uniti non intervengano nel conflitto e che non facciano come nel 1917. I serg. Vanini e Pesavento, entrambi della mia Squadriglia, si avvicinano, mi chiedono cosa penso. “La Francia, secondo me, farà una magra figura contro i tedeschi, ma gli inglesi, orgogliosi come sono del loro Paese, saranno un osso duro”, rispondo. Pesavento dice che la guerra finirà prima di Natale. “Me lo auguro, ma se dura più di un anno o due anni l’Italia finirà come la Francia. L’Italia non ha risorse naturali ed esaurite le scorte non potrà resistere a lungo”, ribatto. Lui è ottimista ed è seccato per il mio modo di vedere le cose. Veniamo chiamati nella tenda Comando dove il cap. Jannicelli ha fatto preparare un tavolo con due bottiglie di Vermouth e brindiamo all’Italia e alle sue Forze Armate. Vado a infine a mangiare alla mensa da campo e poi a dormire sotto la tenda. Non prendo subito sonno, penso a mio padre e a mio fratello e alle possibili conseguenze se gli Stati Uniti dovessero entrare in guerra. Improvvisamente vengo scosso dal m.llo Villa, si sente il motore di un aereo sopra di noi, ci alziamo e usciamo dalla tenda. L’aereo si dirige verso Torino e poco dopo sentiamo due esplosioni. Villa impreca, lui è di Torino e la sua famiglia vive lì. L’aereo, dopo aver sganciato, ripassa sulle nostre teste e torniamo a letto. Il giorno dopo veniamo a sapere che Torino è stata bombardata, ma fortunatamente non ci sono state vittime.

PATTUGLIAMENTO LUNGO IL CONFINE 
Andiamo alla tenda Comando, il cap. Jannicelli ha già preparato il programma di volo: una Squadriglia a turno deve stare in volo, un’altra deve essere di allarme, con i piloti dentro la cabina di pilotaggio pronti a decollare in tre minuti e un’altra ancora in stand-by, pronta a partire con un breve preavviso per intervenire in appoggio a quella in volo. La 371ª è la prima a decollare per il pattugliamento mentre la 369ª, la mia Squadriglia, al comando del cap. Jannicelli, rimane d’allarme. La 371ª non incontra alcun aereo francese e rientra dopo un’ora e mezza. Quando finisce il mio turno, vado a cercare l’armiere, gli chiedo se può aiutarmi, vorrei preparare a modo mio un nastro per le mitragliatrici. Mi accompagna nella tenda degli armieri dove su un tavolo ci sono i nastri. Per ogni serie di 11 cartucce inseriamo tre incendiarie, tre esplosive, tre traccianti e due perforanti. Quando i nastri sono pronti, li portiamo al mio aereo e li installiamo al posto di quelli standard, infine l’armiere controlla che tutto sia a posto e olia le mitragliatrici. Sto riposando vicino al mio aereo quando si avvicina Villa. Ha un fiasco di vino sottobraccio, ci offre da bere e alza il bicchiere verso di me: “Vincenzo, ti auguro tutta la fortuna del mondo!”. Alzo anch’io il bicchiere e ringrazio. Tra me e me penso che il nostro futuro non sarà tanto facile e tra poco si inizierà a combattere. Resto sotto l’ala del mio aereo e le ore trascorrono tranquille. Poco prima di pranzo ci comunicano che alle 20.00 ci sarà il briefing nella tenda Comando. Alla sera, quando la Squadriglia è al completo, il Capitano ci informa che domani l’intero Gruppo dovrà scortare i nostri bombardieri che hanno il compito di colpire un nodo ferroviario vicino Lione. Dovremo proteggerli da eventuali attacchi, la 369ª sarà di scorta ravvicinata mentre la 370ª rimarrà in quota, seguita dalla 371ª di rinforzo, sempre in quota. Terminato il briefing c’è ancora il tempo per giocare a carte, poi mi apparto per non sentire la radio che non fa che trasmettere queste dannate notizie sulla guerra. Il mattino del 13 giugno mi alzo presto e vado a fare colazione con Villa, gli altri ci raggiungono più tardi. Gli Ufficiali arrivano insieme al cap. Jannicelli che ci ragguaglia sugli ultimi dettagli. Il Capitano guarda il suo orologio e ordina a tutti i piloti di andare a bordo e tenersi pronti al decollo fra quindici minuti. Raggiungo il mio aereo, indosso il paracadute e mi sistemo a bordo. Dopo i controlli sono pronto a mettere in moto. Preciso al secondo, l’Ufficiale addetto alle operazioni spara un razzo verde: apro la valvola dell’aria, l’elica gira, inserisco i magneti e, con una breve fumata grigia, il motore si avvia. Aumento di poco i giri e seguo il Capitano che sta rullando verso la fine del campo, vedo dietro di me gli altri aerei in fila che ci seguono. Il Capitano si allinea controvento, lo affianco e decolliamo insieme, sono le 07.20. Facciamo un giro sul campo per permettere agli altri di portarsi in formazione e ci dirigiamo verso il confine dove incontriamo i bombardieri e li scortiamo in territorio francese. Sono i bimotori FIAT BR 20 di base a Torino. Manteniamo una certa distanza e li teniamo d’occhio nel caso venissero attaccati. Sganciano le bombe su un nodo ferroviario e sugli aeroporti di Fayence e Hyeres. La Caccia francese non si vede! Una volta al di qua delle Alpi ci separiamo e rientriamo alle nostre rispettive basi. Siamo rimasti in volo 1 ora e 15 minuti. Andiamo tutti a stendere il nostro rapporto nella tenda Comando, lo consegniamo al Comandante che a sua volta redige il rapporto della Squadriglia. Consegnato il rapporto ci ristoriamo con un caffè caldo. Ci viene ordinato di tenere sempre una pattuglia in volo sopra il campo durante il giorno. Devo rimpiazzare un ufficiale che non sta bene e così vado in pattuglia col serg. Anselmo Andraghetti, un giovane pilota, e col serg. Vanini. Decolliamo alle 12.50, senza aver mangiato nulla. Ci dirigiamo verso il confine francese guardandoci bene intorno per non avere sorprese. Tengo d’occhio il giovane Andraghetti mentre con Vanini sto più tranquillo, ha combattuto in Spagna. Nei pressi del Cervino avvisto tre aerei, dopo qualche secondo li riconosco, sono degli MC 200 di un altro Gruppo ma non riesco a leggere i loro numeri di Squadriglia dipinti sulla fusoliera. Continuiamo a volare intorno al Cervino senza incontrare altri aerei; siamo in volo da circa un’ora e mezzo, controllo il carburante e decido di rientrare alla nostra base. Giunti sopra al campo vedo la pattuglia successiva che sta rullando per decollare, circuito sopra l’aeroporto finché non sono tutti in volo. Faccio cenno a Vanini di portarsi in coda ad Andraghetti e atterriamo uno alla volta alle 14.00. Alla tenda Comando stendiamo il nostro rapporto: annoto NN. Si va poi a mangiare e nella tenda a riposare. Con Vanini diveniamo buoni amici, ho avuto occasione di conoscere sua madre e sua sorella quando sono venute a trovarci da Milano. Poco dopo arriva Villa, dice che i piloti dovranno presentarsi alla tenda Comando alle 16.00. Una pattuglia composta dal cap. Jannicelli, due Ufficiali e noi due dovrà decollare alle 18.30 e rimanere tra il campo e le montagne. Decolliamo alle 19.00 e pattugliamo per più di 40 minuti senza individuare alcun aereo. Al nostro rientro, alle 20.05, fa quasi buio. Rulliamo fino al parcheggio, aiuto il motorista a rifornire il mio velivolo e coprire con un telo il motore e il posto di pilotaggio per proteggerli dall’umidità notturna.

A TORINO CASELLE 
Il 20 giugno riceviamo l’ordine di smontare tutto, caricare i camion e mandarli all’aeroporto di Caselle. Finiamo di lavorare a notte fonda. Il mattino del 21 giugno decolliamo alle 07.30 e atterriamo a Caselle dopo 20 minuti di volo. Rulliamo fino agli hangar e parcheggiamo gli aerei. Sto parlando con Vanini quando qualcuno arriva da dietro e mi dà una pacca sul collo. Mi giro e con mia sorpresa riconosco Fausto Mascia, il mio vecchio compagno del 21° Stormo della Ricognizione Aerea di Gorizia: ora è al 2° Stormo con i FIAT CR 32. Ci abbracciamo e lo presento a Vanini. L’ultima volta che l’avevo visto era con i Bombardieri, gli chiedo come ha fatto a passare dai bombardieri alla Caccia. “Facevo un po’ di acrobazia, con i bombardieri”, racconta, “Non grandi cose, solo qualche virata sfogata e qualche tonneau. Quelli che volavano con me erano terrorizzati, dopo un po’ non c’era più nessuno che volesse venire in volo con me e così mi hanno trasferito alla Caccia!”. Dobbiamo effettuare subito una missione di “crociera di protezione bombardieri”. Riforniti gli aerei decolliamo alle 09.35. Non incontriamo alcun velivolo ostile e rientriamo alle 10.30. Rimaniamo a Caselle per circa una settimana. Le cose vanno male per la Francia, ha i giorni contati. Mussolini ha la pretesa che l’Italia sieda al tavolo delle trattative tra Germania e Francia sebbene il nostro intervento sia stato praticamente ininfluente. C’è poca attività e un paio dei nostri piloti vengono trasferiti presso altre Squadriglie. Il 24 giugno il mio Gruppo riceve l’ordine di scortare l’indomani mattina un gruppo di bombardieri sulla Francia, la loro missione prevede di attaccare un aeroporto. Un armiere viene a svegliare me e Vanini, mangiamo qualcosa e andiamo agli aerei. Sono stati preparati ieri e dobbiamo solo effettuare i controlli finali. Ci rechiamo tutti nell’ufficio Comando, dentro l’hangar, il cap. Jannicelli ci dà gli ultimi aggiornamenti sulla missione da compiere. Opereranno tutte e tre le Squadriglie, io e Vanini voleremo col Capitano. Alle 10.20 decolliamo e poco dopo scorgiamo i bombardieri mentre sono in rotta verso le Alpi, più in basso c’è una Squadriglia di FIAT CR 42 di scorta, sono del 3° Stormo, 18° Gruppo. Appena entrati in territorio francese sorvoliamo un aeroporto, i CR 42 eseguono larghe virate mentre i bombardieri sganciano le loro bombe e poi invertono la rotta e lasciano l’area. I CR 42 si abbassano e mitragliano il campo. La Caccia francese era allertata e ci sta aspettando, tentano di attaccare i bombardieri ma noi glielo impediamo inseguendoli. I Dewoitine D 520 si accorgono che il loro campo è attaccato dai CR 42 e si buttano su di loro. Il Dewoitine è un monoplano ad ala bassa e motore in linea, più veloce del CR 42 ma meno manovrabile. Non possiamo inseguirli perché gli ordini sono di proteggere i bombardieri. Quando rientriamo apprendiamo che uno dei CR 42 è stato abbattuto, il pilota ha effettuato un atterraggio fuori campo in prossimità dell’aeroporto francese ed è stato fatto prigioniero. Questa sarà l’unica nostra missione contro la Francia. In seguito viene firmato l’armistizio tra Francia, Germania e Italia. Continuo ad avere l’impressione che la nostra parte in questo conflitto sia stata irrisoria. Nei giorni successivi effettuo solamente due voli “officina”. Rimaniamo a Caselle fino al 8 luglio, poi la Squadriglia riceve l’ordine di rientrare alla nostra base. Molti di noi sono lieti di questa notizia: hanno la famiglia a Treviso.

DI NUOVO A TREVISO 
Si ricomincia la vita normale d’aeroporto, Villa mi invita a casa sua a un paio di volte e conosco la sua famiglia, anche Voussi organizza una festicciola da lui. L’attività è intensa, c’è da addestrare i nuovi piloti e ci sono esercitazioni al poligono. Vengono introdotte alcune modifiche sull’MC 200, dietro il sedile del pilota vengono installati un serbatoio supplementare e una piastra corazzata antiproiettile (almeno si spera lo sia!) ma ciò appesantisce l’aereo. Il serbatoio ausiliario garantisce un’ulteriore autonomia di 20 minuti di volo ma il suo peso, sommato a quello della corazzatura del sedile, penalizza la manovrabilità del velivolo. Si riprende la normale attività di Reparto: allenamenti, acrobazia e tiri al poligono di Maniago.

LA 369ª SQUADRIGLIA PASSA 52° STORMO – NAPOLI CAPODICHINO 
Il 152° Gruppo diventerà “autonomo” e sarà ufficialmente disciolto in dicembre, le sue Squadriglie passeranno ad altre dipendenze operative. In novembre arriva l’ordine di trasferimento nel Sud d’Italia, al 52° Stormo che ha il Comando a Ciampino Sud. La mia Squadriglia, la 369ª, è assegnata al 21° Gruppo a Napoli Capodichino, la 370ª a Foggia e la 371ª a Grottaglie. Il Capitano ci riunisce per il briefing: “Faremo scalo a Iesi dove effettueremo il rifornimento. A Iesi la pista è in cemento ed è lunga 700 metri e larga 16. Ricordatevi di controllare che il ruotino posteriore sia bloccato altrimenti rischiate di imbardare e uscire di pista. Partiremo il 3 novembre”. Il 4 novembre il campo è ancora immerso in una fitta nebbia, attendiamo una schiarita che da queste parti a volte arriva dopo settimane. Una leggera brezza si alza dopo mezzogiorno, ci dicono di tenerci pronti. La nebbia si apre nel pomeriggio e ci viene ordinato di salire a bordo. Siamo pronti ad avviare i motori. Il t.col. Colacicchi, viene a stringermi la mano: non parte con noi, è stato trasferito a Roma per un nuovo incarico. Quando metto in moto mi saluta, leggo il movimento delle sue labbra: “Tanti auguri, americano!”. Decolliamo alle 16.30 in formazione larga a causa delle nubi basse e della visibilità ridotta. Troviamo un grosso buco nelle nuvole, ci infiliamo e stringiamo la formazione, mettiamo la prua verso Iesi. Le nubi svaniscono, possiamo seguire i riferimenti al suolo e arriviamo in vista della città in una mezzora. Sorvoliamo il campo, rompiamo la formazione per portarci in fila indiana e atterriamo uno dopo l’altro. Sono secondo all’atterraggio, rullo fino all’hangar seguendo il Capitano e contemporaneamente osservo gli altri mentre atterrano. Sette sono già atterrati e anche loro stanno rullando dietro di noi quando l’ottavo, che ha fatto un avvicinamento perfetto, tocca la pista, mette giù il ruotino, imbarda ed esce di pista finendo sul prato. Il terreno è molle e l’aereo sprofonda provocando il cedimento del carrello. Il pilota incolume salta fuori e rimane sconsolato accanto all’aereo in attesa dei mezzi di soccorso: è il serg. Pesavento. Pernottiamo a Iesi, dobbiamo essere pronti al decollo il giorno dopo nel primo pomeriggio. Lasciamo l’aeroporto e andiamo in città in un ristorante carino dove si mangia bene. Anche il vino è buono, torniamo al campo alquanto allegri e non faccio fatica ad addormentarmi.

L’INCONTRO CON LE ALTRE SQUADRIGLIE DELL’EX 152° GRUPPO A CIAMPINO 
Il giorno dopo si va in hangar. Assistiti dai motoristi avviamo i motori e li riscaldiamo. Arriva il Capitano con gli altri Ufficiali e inizia il briefing: formeremo due formazioni, una Pattuglia di sette velivoli e una di quattro. Io sono l’ultimo in ala destra della formazione principale e quindi l’ultimo a decollare, seguiranno i velivoli della formazione minore. Alle 14.30 ci stacchiamo da terra e quando siamo tutti riuniti ci mettiamo in rotta per Roma. Il cielo è quasi sereno, ci sono alcuni stratocumuli vicino alle montagne, saliamo a 4000 metri, passiamo al traverso del Gran Sasso che è ricoperto di neve. Dopo una quarantina di minuti siamo in vista di Roma. Ciampino Sud è alla nostra sinistra, il Capitano batte le ali, stringiamo la formazione e cominciamo a scendere, dietro a noi c’è la Squadriglia del ten. Radini. Facciamo un passaggio sul campo, entriamo in circuito e atterriamo in formazione. Rulliamo fino alla fine del campo, ci dirigiamo a sinistra fino agli hangar. Una squadra di specialisti inizia subito a rifornire i velivoli. Le altre Squadriglie dello Stormo arrivano con venti minuti di ritardo, due aerei hanno avuto problemi al motore. Li attendiamo e andiamo insieme in mensa, la sala è tutta per noi, non c’è più molto personale perché le Squadriglie che stazionavano a Ciampino sono state trasferite altrove. Al pomeriggio tutto il 152° Gruppo è al completo, tutti i Comandanti di Squadriglia sono a rapporto dal Comandante di Gruppo. Vengono assegnate le nuove sedi operative: per noi sarà Capodichino. Ci fermiamo a Roma per una decina di giorni, non e’ prevista alcuna attivita’ di volo ed abbiamo il tempo per recarci spesso in citta’.

IL RITORNO A CAPODICHINO E L’INCONTRO CON LA 356ª Sq. 
Il 20 novembre si parte per Napoli, il tempo in rotta è bello, non fa per niente freddo. A terra i nostri specialisti ci attendono e affidiamo loro gli aerei. Davanti all’hangar vedo il cap. Maddalena e il magg. Foschini, sono qui da giugno per rinforzare con la 356ª Squadriglia il 21° Gruppo, comandato dal magg. Giovanni Buffa. E io che mi ero illuso di non incontrare più il cap. Maddalena! Mentre tolgo il paracadute sento qualcuno che mi chiama, mi giro e da dietro al mio aereo escono i serg. Sandrin e Arbacchi, si stavano nascondendo per farmi una sorpresa. Ci stringiamo le mani calorosamente, chiedo se il cap. Maddalena è sempre lo stesso. “Non è cambiato affatto!”, mi rispondono scuotendo la testa, “È sempre la stessa storia!”. Vanini si avvicina, conosce Sandrin perché sono dello stesso corso della Scuola di Volo. Incontro anche il ten. Vincenzo Sant’Andrea, ci salutiamo e poi vado dal magg. Foschini che sta parlando con un Sottufficiale della mia Squadriglia e lo saluto. È lieto di rivedermi: “Com’è questo Macchi? È meglio del G 50? Ho sentito che ha qualche problema”, mi chiede. “È una macchina veloce”, rispondo, “Più del G 50. Aveva dei problemi ma dopo la modifica al profilo alare va bene!”. Torno al mio aereo a prendere il bagaglio dal compartimento radio e andiamo tutti a rapporto nell’ufficio del cap. Jannicelli, è presente anche il magg. Foschini. Da domani lavoreremo insieme con la 356ª Squadriglia. Dovremo effettuare pattugliamenti e addestrare i giovani piloti ai tiri ed all’attacco delle formazioni aeree nemiche che sempre piu’ frequentemente effettuano incursioni notturne sul cielo di Napoli per colpire il porto e la ferrovia, provocando vittime tra la popolazione. Dopo alcuni voli d’ambientamento, il 4 dicembre, vengo inviato Castiglion del Lago (Passignano sul Trasimeno), a ritirare tre nuovi MC 200 insieme al ten. Giovanni Bond ed al serg.m. Marino Vanini.

IL VOLO NOTTURNO E LA PARTENZA SU ALLARME 
Qualche giorno dopo, il Capitano mi chiama. “Abbiamo ricevuto l’ordine di addestrare al volo notturno una Squadriglia. Hai mai fatto dei voli notturni?”, mi chiede. “Poca roba, solo alcune ore quand’ero ancora a Gorizia”, rispondo. “È quanto basta per cominciare! Per l’addestramento ci verranno consegnati un Caproni 164 ed un CR 30 doppio comando e dovremo formare una Squadriglia Notturna su CR 42. Utilizzeremo il campo di Capua ed inizieremo appena sara’ possibile”, conclude. Il 21° Gruppo dispone di cinque FIAT G 50, di diciassette Mc 200 e di due CR 32. Si continua nel frattempo con il servizio di allarme e le esercitazioni di tiro presso Castel Volturno. Il 7 dicembre, alle 15.10, viene segnalata un’incursione aerea, le sirene danno l’allarme e cinque velivoli della 356^ Sq. decollano ma non avvistano gli attaccanti ed atterrarono poco dopo. Il 14 dicembre, intorno alle 21.00 altra incursione di bombardieri nemici, viene colpita Bagnoli ed il porto. Il bombardamento dura una quarantina di minuti ed e’ seguito da altri due di pari intensita’. Alla sera, intorno alle 21.00, ci trasferiamo con il Caproni Ca 164 a Capua per l’addestramento al volo di notturno. Per l’addestramento vengono utilizzati inizialmente alcuni Ca 464, CR 30 e CR 32 per passare infine al velivolo operativo, il CR 42. La pista e’ attrezzata con un sistema di illuminazione che ne consente l’identificazione mentre altre luci, disposte a formare una T rovesciata nei pressi del punto di toccata, consentono al pilota di valutare l’angolo di planata. I velivoli sono dotati di un faro posto sull’ala ed utilizzato al momento della toccata. Il 16 dicembre un Mc 200, con ai comandi  il Serg.m. Vittorio Iannilli, ha un’avaria al motore ed e’ costretto a un atterraggio di emergenza nei pressi di Casoria. Il velivolo subisce danni irreparabili ed il pilota riporta ferite lievi. Un nuovo pilota giunge alla 389^ Sq., il serg.m. Guido Tagliatatela e poco dopo vengono assegnati tre CR 32 alla Caccia Notturna. Il ten. Lucio Lay e il serg.m. Afro Sandrin con due Mc 200 vanno a rinforzare la 356^ Sq. Mancano tre giorni a Natale, la 356ª Squadriglia è in servizio di allarme, dopo tocca alla nostra, la 369ª, non c’è nulla da fare in aeroporto: mi prendo qualche ora per andare e vedere Napoli durante le feste natalizie. Il 24 dicembre, vigilia di Natale, sono di allarme con Vanini e Pesavento, è una giornata monotona, c’è una pioggerella fine e fa piuttosto freddo, le nuvole toccano quasi il suolo. Mentre siamo nella baracca, riscaldata da una piccola stufa a legna, sentiamo il rumore di un aereo sopra il campo e pochi istanti dopo suona il telefono. Alzo la cornetta, è il Comando che ci ordina di decollare immediatamente e di intercettare l’aereo che sta bombardando il porto pieno di navi. Poso la cornetta, comunico gli ordini a Vanini e Pesavento, si sentono in lontananza i boati delle esplosioni e il fuoco della contraerea. Con questa visibilità, non supera i 300-400 metri, non capisco proprio a cosa sparino, è assolutamente impossibile vedere qualcosa. I meccanici hanno già tolto i teli protettivi dagli MC 200, Pesavento decolla per primo e io subito dietro, sono le 12.00. Appena in volo, a poco più di 50 metri di quota, sono dentro le nubi e perdo ogni riferimento col suolo. Non mi ero mai trovato in condizioni reali di volo strumentale, se non per pochi secondi e in quota. Ora è molto diverso, ogni piccolo errore vuol dire la “fine”. Non ho altra scelta che continuare a salire ma so anche che non uscirò dalle nubi perché sono molto alte e ho molte probabilità di fare ghiaccio sulle ali e al carburatore. Mi concentro sugli strumenti, non ho un orizzonte giroscopico come i bombardieri ma solamente un virosbandometro, detto anche “pallina e paletta” che indica la direzione del “peso apparente” e il “rateo di rotazione angolare”. Debbo fare la massima attenzione anche ad altimetro, variometro, anemometro e bussola. È un movimento continuo degli occhi sugli strumenti e della cloche per mantenerli nei valori corretti. Se perdessi il controllo, e ciò è molto facile, entrerei in “spirale” o in “vite” e in pochi secondi mi spiaccicherei a terra. Ho azzerato l’altimetro prima del decollo e, poiché l’elevazione dell’aeroporto è poco meno di 100 metri, salgo a 700 metri, un’altitudine che mi garantisca di stare sopra gli ostacoli più vicini, intorno a Napoli. Viro lentamente a sinistra e metto una prua di 270-280 gradi, in modo da seguire una rotta che mi porti sopra il mare, evitando le montagne a Est e la collina del Vomero a Ovest. Terminata la virata cerco di tenere l’aereo con le ali livellate. Senza esperienze di volo strumentale, devo sforzarmi di non seguire le sensazioni istintive che mi farebbero perdere il controllo del velivolo in pochi secondi. Continuo a ripetere tra me e me “Stai calmo, tieni centrate la pallina e la paletta, attento alla quota, tieni la rotta, guarda il variometro. Stai calmo!”. Sono in volo da 15 minuti e mi sembrano ore. Oramai dovrei trovarmi sul mare, comincio a scendere con un variometro di 5 metri al secondo. Quando l’altimetro segna zero dovrei essere a 100 metri sul mare. Riduco il rateo di discesa a 3 metri al secondo e subito dopo sono fuori dalle nubi. L’altimetro segna -50 metri di altitudine, tiro un sospiro di sollievo ma non è ancora finita. Non c’è una grande visibilità ma comunque molto meglio che sull’aeroporto. In lontananza riconosco alla mia sinistra Ischia, con il monte Epomeo avvolto dalle nubi. Viro e mi dirigo verso Napoli, sfiorando le onde per avere una visibilità migliore. Ora distinguo chiaramente Napoli e il Vomero, la parte alta della città che è quasi tutta fuori dalle nuvole. Se il Vomero è libero dalle nubi, penso, posso tentare di “scavalcarlo” e raggiungere l’aeroporto che è subito dietro. Quando mi avvicino alla città l’antiaerea di Capo Posillipo apre il fuoco, non mi preoccupo molto perché non hanno mai colpito nessuno, mi auguro non abbiano fatto progressi proprio ora che sparano a un aereo “amico”! Mi tengo basso e ben sotto allo strapiombo di Posillipo, la contraerea non dovrebbe riuscire a sparare in deflessione! Vedo qualche spruzzo davanti a me ma continuo dritto verso Napoli sperando che non facciano in tempo ad aprire il fuoco quando sorvolo il porto dove la contraerea è più forte. Avvicinandomi alla diga foranea vedo venirmi incontro delle scie verdi e rosse, sono traccianti! Viro bruscamente e torno verso Posillipo. Il fuoco cessa, devono aver visto la croce bianca sul timone del mio aereo. Vorrei fare un altro tentativo per arrivare all’aeroporto ma da questa posizione mi rendo conto che le nubi sono troppo basse. Torno sul mare e faccio dei larghi giri per valutare il da farsi; decido di seguire la costa fino alla foce del Volturno e seguire il letto del fiume sino all’aeroporto di Capua. Arrivato alla foce, scopro che li la situazione meteorologica è ancora peggiore di quella di Napoli. Torno nuovamente verso il mare e volo parallelo alla costa fino a Bagnoli dove le nubi sono più alte grazie al calore rilasciato dagli altiforni delle acciaierie. Non mi fido a tornare su Napoli e inizio a circuitare nella speranza che le nubi si alzino.

L’ATTERRAGGIO FUORI CAMPO 
Controllo il carburante: mi sono rimasti meno di 15 minuti di volo, debbo prendere una decisione. Comincio a considerare la possibilità di un atterraggio d’emergenza, fuori campo. Scruto intorno per individuare una striscia di terreno adatto. Vedo un campo sotto lo strapiombo di Posillipo, mi abbasso e faccio un paio di giri intorno per studiare il terreno, ai suoi lati corre un sentiero sul quale si esercitano i cavalli dell’artiglieria campale. Atterrare in diagonale mi sembra la soluzione migliore, ma devo stare attento a un ostacolo a forma di piramide, all’esterno del campo. Sorvolo i fabbricati delle Acciaierie e incontro una severa turbolenza dovuta all’aria calda degli altoforni. Mi avvicino alla velocità minima con flap e carrello completamente estesi. Appena sorvolo i limiti del campo di fortuna escludo i magneti, richiamo e tocco subito. Come appoggio il carrello e inizia la corsa d’atterraggio, la ruota sinistra sprofonda nel terreno molle e perdo il controllo dell’aereo, sento un rumore sordo: il carrello cede, l’estremità alare sinistra urta il suolo, il velivolo ruota a sinistra, imbarda, si inclina a destra e tocca con l’altra ala il campo. Entrambe le ali si strappano alla radice sollevandosi verso l’alto, sopra la fusoliera, come se l’aereo avesse alzato le braccia, e colpiscono il posto di pilotaggio, il tettuccio cede e sento una forte botta alla spalla. Quello che resta dell’aereo continua a scivolare sul campo arando il terreno circostante, sollevando sassi e polvere. Quando la corsa finisce il frastuono cessa di colpo, sono ancora vivo, mi guardo attorno, sono completamente imbevuto di benzina fuoriuscita dai serbatoi alari, slaccio le cinture di sicurezza e mi arrampico sopra i rottami per abbandonare in fretta il velivolo e allontanarmi prima che prenda fuoco. Mi gira la testa per il dolore alla spalla, sto per svenire e cadere, mi siedo a terra. Un minuto dopo arrivano di corsa due operai dell’acciaieria. Comincio a occuparmi delle ferite che mi sono procurato: ho una spalla dolorante, le mani sono insanguinate, la tuta è strappata all’altezza delle gambe, scosto i lembi, la pelle è lacerata in profondità. Camminando su una gamba e appoggiandomi ai due operai raggiungo l’infermeria della fabbrica dove in attesa del medico, mi prestano i primi soccorsi. Il medico arriva subito, mi fascia gambe e mani dicendomi di riposare. Chiedo un telefono per avvisare la mia Squadriglia che sto bene e che ho distrutto uno dei nostri nuovi aerei. Il medico mi dice che ha chiamato anche lui l’aeroporto e che un ufficiale verrà a prendermi. Resto steso su un lettino dell’infermeria e dopo un’ora il Capitano e Vanini vengono a prendermi. Sulla strada dell’aeroporto racconto tutto al Capitano che mi dice che se fosse stato in hangar non ci avrebbe lasciato decollare con questo tempo. Vanini e Pesavento dopo il decollo sono rimasti a pochi metri da terra, fuori dalle nubi, e sono rientrati subito. Alla base vengo accompagnato all’infermeria, l’ufficiale medico mi visita e mi dice di stare a letto due giorni per rimettermi in sesto. Domani è Natale, non ho intenzione di trascorrere a letto una festività così importante. Dopo qualche ora il medico viene nella mia cameretta a vedere come sto, appena esce indosso la mia uniforme e assieme a Vanini e Andraghetti andiamo a Napoli. Il dolore alla gamba e alla spalla non sono ancora andati via ma sono sopportabili, zoppico e mi reggo ai due colleghi. Scendiamo davanti al teatro San Carlo e ci sediamo in un caffè della galleria Umberto. Qualcuno mi chiama per nome, mi giro, è Avvico. Sta frequentando il corso all’Accademia Aeronautica di Caserta per passare al grado di Ufficiale. È in compagnia della moglie, l’avevo conosciuta a Trieste qualche tempo prima, è venuta a Napoli per passare il Natale insieme a lui. Ricordiamo i bei tempi a Gorizia, al 4° Stormo, la partenza per la Spagna, l’avventura a Portoalegre con Dequal. Presento loro Vanini e Andraghetti. Vedendo le fasciature alle mie mani, Avvico chiede cosa mi sia successo. Si complimenta per come l’ho scampata, la moglie mi augura buona fortuna e ci salutano: vogliono stare insieme, lui deve rientrare presto in Accademia. Prima di lasciarci Avvico mi dice che avrà un permesso per San Silvestro e spera di incontrarmi. Il 29 dicembre, poco dopo le 20.30, una formazione di bombardieri provenienti dalla Sicilia sorvola Napoli, la contraerea apre il fuoco. La nostra Caccia Notturna non non decolla a causa della eccessiva oscurità e l’effetto delle bombe e’ devastante e causa molte vittime e danni.

UN ABBATTIMENTO NON RICONOSCIUTO 
I primi giorni del nuovo anno trascorrono senza incursioni aeree. Il mattino del 6 gennaio, decollano su allarme cinque MC 200 al comando del cap. Paolo Maddalena, i suoi gregari sono il cap. Giancarlo Cervelin, il ten. Luigi Locatelli, il serg.m. Balilla Mazzei, il serg.m. Afro Sandrin; rientrano senza aver preso contatto con il nemico. Dieci giorni dopo l’incidente risulto idoneo alla visita medica di controllo straordinario presso l’Istituto Medico Legale e torno al mio Reparto; riprendo a volare il 7 gennaio 1941. Il 10 gennaio, intorno a mezzogiorno, il serg.m. Giordano Migliavacca intercetta un bombardiere nemico e lo abbatte. Il 13 gennaio, alle 12.10, decolliamo su allarme per intercettare un aereo che sta avvicinandosi a Napoli, è stato segnalato tra Lago Patria ed Ischia. Raggiungo i 4500 metri e incrocio fra questi due punti. Continuo a guardare intorno ma non scorgo nulla, c’è parecchia foschia e in queste condizioni un’intercettazione non è facile. Sono in volo da una quarantina di minuti, controllo il carburante, ho ancora circa trenta minuti di autonomia. Improvvisamente un puntino in movimento che si confonde con lo sfondo, attira la mia attenzione: è un bimotore che sta volando tra le isole di Ischia e Procida. Percorre una rotta che lo porta verso il mare aperto, lo prendo per un Caproni 311 ma appena mi avvicino comincia a picchiare. Ho un vantaggio di quota che trasformo in velocità, lo seguo e quando gli sono vicino riconosco le coccarde inglesi. Accendo il collimatore, armo le mitragliatrici, tolgo la sicura e sono pronto a far fuoco. Mi ha scorto e sta volando alla massima velocità, ci vuole un certo tempo per portarmi in coda. Quando sono a 50 metri lascio partire una raffica con entrambe le mitragliatrici, l’aereo cabra violentemente e poco dopo stalla, si inclina a sinistra ed entra in una larga spirale che si conclude con uno schianto in mare. Rientrato alla base redigo il mio rapporto e indico la posizione dell’abbattimento tra Ischia e l’isoletta di Ventotene. Consegno il rapporto al Maggiore ma l’abbattimento non mi verrà mai riconosciuto perché non ci sono testimoni e non sono stati ritrovati rottami dell’aereo. Nessuna nave o aereo sono stati mandati per la ricerca di eventuali superstiti, gli addetti alla contraerea di Ischia hanno sentito gli spari delle mitragliatrici ma non hanno visto nulla a causa della foschia. Nel pomeriggio due aerei vengono fatti partire su allarme e tornano senza aver intercettato alcuno. I bombardamenti notturni si susseguono e cosi’ pure le partenze su allarme. Il 27 gennaio, viene bombardato l’aeroporto di Capodichino, i danni sono notevoli e si sviluppano diversi incendi. A febbraio viene assegnata al XXI Gruppo una nuova Squadriglia, la 382^, che si affianca alla 356^ e la 386^.

LA PARTENZA PER L’ALBANIA 
Nell’ottobre dello scorso anno l’Italia ha dichiarato guerra alla Grecia e ora cominciamo a pagarne le conseguenze, le nostre truppe sono in difficoltà. Non capisco cosa passi per la testa del Duce, sta mettendo troppa carne al fuoco. È già impegnativo per noi fronteggiare l’Inghilterra. Cosa vuole dalla Grecia? Molti colleghi si illudevano che la Grecia sarebbe stata una “passeggiata” per i nostri soldati. L’ottimismo dei primi giorni è passato subito, i Greci ci hanno lasciato avanzare e poi, quando il terreno e la situazione sono stati loro favorevoli, ci hanno attaccati infliggendoci gravi perdite. L’Esercito deve inviare truppe di rinforzo e altrettanto deve fare l’Aviazione. Riceviamo così l’ordine di recarci a Roma dove tutte le Squadriglie del nostro Gruppo, il 21°, debbono riunirsi per raggiungere l’Albania. Quando atterriamo a Ciampino Sud le altre due Squadriglie sono già arrivate. Ci vengono incontro per salutarci alcuni vecchi amici, Scuffi, Zedda, Stoppani, Baccara, Romagnoli, Lui e Bragadine con due Ufficiali della loro Squadriglia. Passiamo la serata tutti insieme, piloti e specialisti, in un ristorante di Roma. Il giorno dopo siamo in aeroporto per gli ultimi preparativi della partenza. I MC 200 delle altre Squadriglie montano il nuovo dispositivo elettrico per il passo dell’elica. I colleghi mi dicono che preferivano il precedente controllo manuale Hamilton, ritenuto più affidabile. Il 7 marzo il cap. Gustavo Garretto assume il comando “ad interim” del 21° Gruppo ed al ten. Trento Carotti viene invece assegnato il comando della 386^ Squadriglia che ad aprile passera’ al cap. Bruno Mondini. Il cap. Maddalena sarà promosso Maggiore, nell’ottobre 1941 assumerà il Comando del X Gruppo del 4° Stormo e perirà in Nord Africa il 3 luglio 1942 a El Ruweisat, nelle vicinanze di El Alamein, durante uno scontro tra la 84ª e 90ª Squadriglia con i P 40 alleati. Con il cambio di Comando al 21° Gruppo, arriva l’ordine di partenza per l’Albania. E’ previsto uno scalo a Grottaglie per rifornirci di carburante prima di attraversare l’Adriatico. Alle 11.30 ogni Squadriglia decolla autonomamente per poi congiungersi in un’unica formazione di Gruppo. Su Grottaglie, dopo un largo giro atterriamo; bisogna fare attenzione a un bombardiere bloccato in pista con un pneumatico scoppiato. Rulliamo fino all’hangar centrale dove gli aerei vengono riforniti, gli ordini sono di decollare per Tirana al più presto. Il Comandante di Gruppo ci riunisce per il briefing, ognuno di noi riceve un giubbotto salvagente, per il quale ci viene richiesto di firmare una ricevuta; veniamo istruiti come usarlo in caso di ammaraggio. Decolliamo alle 15.00 in sezioni di due e circuitiamo sull’aeroporto fino a quando la formazione è completa. Saliamo a 5000 metri e raggiungiamo Otranto che dista da Valona, in Albania, circa 90 Km. Da questa quota si vedono le montagne dell’Albania ma non la costa che sembra coperta da nubi basse e foschia. Quando siamo circa a metà Adriatico, il Capitano riduce potenza e inizia la discesa, dopo pochi minuti si intravedono la linea della costa e l’isola di Corfù, in lontananza alla nostra destra. Raggiungiamo la costa e la seguiamo con prua Nord fino a raggiungere, dopo altri 80 km, Durazzo e da lì in pochi minuti siamo a Tirana. Quando sorvoliamo l’aeroporto tutto il personale è fuori, è difficile che l’arrivo di un intero Gruppo passi inosservato. Atterriamo alle 15.40, rulliamo fino al piazzale e, quando tutte le operazioni di parcheggio sono terminate, ci invitano ad andare a cena. Ci vengono assegnati alcuni alloggi in un piccolo centro abitato fuori dall’aeroporto. Insieme a Vanini e Andraghetti vengo sistemato in uno stanzone di una vecchia casa. Poniamo gli effetti personali negli armadi a muro e poco dopo andiamo a letto, non c’è luce in quanto manca l’elettricità nell’edificio.

A TIRANA 
Domani è prevista una missione di scorta ad alcuni bombardieri. Ho un aereo con il passo variabile dell’elica elettrico. Eseguo i controlli esterni e assisto l’armiere durante le operazioni di caricamento dei nastri. Insieme controlliamo le mitragliatrici. Uno specialista mi spiega il funzionamento del meccanismo elettrico di regolazione del passo variabile dell’elica. Anche lui è convinto che il sistema Hamilton sia più affidabile. Alle 16.30 abbiamo il briefing con l’ufficiale addetto alle Operazioni che ci ragguaglia sulla missione. Studiamo la carta aeronautica appesa alla parete della sala briefing, annoto i punti di riferimento sulla mia carta geografica personale che porto sempre a bordo. Dobbiamo effettuare una “crociera di protezione” ai bombardieri e pattugliare il fronte per prevenire attacchi da parte di aerei greci o inglesi che hanno alcune basi all’interno. Germania ed Italia stanno ottenendo successi sul fronte nord africano ma qui gli italiani sono “impantanati”. Il giorno dopo, il 9 marzo, alle 12.30, la mia Squadriglia, la 369ª, con la 371ª che opera da Valona, decolla per l’obiettivo assegnato, una montagna chiamata Trebescines. Mentre siamo in rotta incontriamo e ci uniamo all’altra Squadriglia, la 370ª, che è ora comandata dal magg. Valente e opera partendo da Foggia. In lontananza vediamo i nostri bombardieri, quando arriviamo sulle linee greche iniziamo a pattugliare per garantire loro la copertura da eventuali attacchi. Vedo del fumo alzarsi a terra, sono le bombe che hanno sganciato. I bombardieri virano per tornare alle loro basi. Non c’è stato alcun contatto col nemico e rientriamo. Superata Devoli, la 370ª Squadriglia si stacca e dirige verso la propria base. Atterriamo alle 14.30: dopo quasi due ore a 7500 metri, con un sistema di riscaldamento poco efficiente e la temperatura esterna tra i 35 ed i 40 gradi sotto zero, sono completamente gelato. Le punte dei piedi sono doloranti e sono tutto irrigidito. Arrivati a terra uno specialista distribuisce una tazza di cioccolata calda a ciascuno di noi. Non riesco a toccarla per quanto scotta, sembra di mettere le mani nell’acqua bollente. Andiamo a rapporto nell’ufficio della Squadriglia, il cap. Jannicelli fa alcune osservazioni sul volo, conclude che la missione si è svolta in modo soddisfacente e ci ringrazia. Il giorno dopo con la 369ª sono di allarme. Alla 371ª è assegnata una missione di pattugliamento sulle linee nemiche insieme alla 370ª. Al loro rientro apprendiamo che il magg. Valente è stato abbattuto e considerato disperso in azione. Anche un pilota della Squadriglia di CR 42, dislocata sul lato opposto dell’aeroporto, non è rientrato; due Hurricane sono stati abbattuti. Durante la notte il campo viene bombardato, nessun aereo riporta danni né alcun militare viene ferito. Un bombardiere nemico viene abbattuto dal serg. Penna, un membro dell’equipaggio si salva e viene fatto prigioniero: è un personaggio famoso, uno dei migliori calciatori inglesi. Vado a trovarlo in ospedale ma non mi viene permesso di incontrarlo. Siamo di nuovo di allarme ma non accade nulla. La notte successiva un forte rovescio si abbatte sull’aeroporto, non riesco a chiudere occhio e, come se non bastasse, non mi sento bene; non voglio però farlo sapere a nessuno. Sento Vanini rigirarsi nel letto, sembra agitato, lo chiamo sottovoce per vedere se è sveglio, anche lui non riesce a dormire. Accendo una sigaretta per me e una per lui e gliela porgo. Restiamo ad ascoltare il rumore della pioggia, mi aggiusto le coperte, ho freddo e sono assalito dai brividi.

LA PERDITA DI VANINI 
All’alba del 11 marzo ci giunge il rumore dei motori che i nostri motoristi stanno riscaldando. Mi alzo, indosso la tuta di volo invernale e sveglio Vanini e Andraghetti. Chiedo a Vanini come si sente, mi dice che ha dormito solo un paio di ore e che gli basta. Andiamo alla mensa per la colazione, lungo la strada prendiamo in giro Andraghetti che si crede un Casanova e ci racconta delle sue “conquiste” in Italia. Dopo due tazze di caffè ci avviamo verso la sala briefing. La 369ª Squadriglia e la 371ª sono al completo, la 370ª è sempre dislocata su un altro campo e si unirà a noi in volo. La missione prevede per la mia Squadriglia una scorta in quota, sarà formata da tre Sezioni di quattro aerei ciascuna. Sono assegnato alla prima Sezione col cap. Jannicelli, il ten. Benedetti e Vanini. Alla seconda Sezione sono assegnati il ten. Cervellini, il m.llo Laferla, Andraghetti e Pesavento, alla terza i ten. Radini e Bond, il serg. Salvadori e un pilota della 371°. Terminato il briefing vado sulla linea di volo, al mio aereo. Ho un leggero mal di testa, indosso la maschera e inalo un po’ di ossigeno puro: mi sento subito meglio. Quando arrivano gli altri piloti scendo e indosso il paracadute, risalgo a bordo e mi imbrago. Il Capitano avvia il motore, lo seguiamo nel rullaggio, decolliamo a coppie alle 08.50 e circuitiamo sul campo; quando la formazione è completa dirigiamo verso il fronte. Su Devoli ci raggiunge la 370ª Squadriglia, hanno una formazione diversa dalla nostra e si trasformano subito come la nostra. In rotta incontriamo puntuali un gruppo di Stukas che scortiamo a Trebescines. La 369ª si mantiene in quota, al di sopra di tutti, la 371ª in scorta diretta e la 370ª in mezzo. La mia Squadriglia è a 7200 metri, c’è una buona visibilità, solo sull’obiettivo ci sono alcune nubi. Gli Stukas circuitano sulla zona, poi il loro Comandante si porta in posizione quasi rovescia e inizia un’accentuata discesa, quasi in verticale, verso l’obiettivo. È seguito in sequenza da tutti gli altri, in una lunga fila indiana. Ora le nubi si sono spostate e la visuale sull’obiettivo è buona, vedo le esplosioni al suolo mentre gli aerei stanno risalendo. I “picchiatelli”, così vengono chiamati gli Stukas dagli italiani, fanno ancora qualche giro sull’obiettivo e poi si dirigono verso la loro base in Italia. Noi circuitiamo ancora alcuni minuti sull’obiettivo, non compare nessun aereo nemico. Improvvisamente vedo Vanini rovesciarsi e buttarsi in una picchiata quasi verticale. Il Capitano non se n’è accorto perché sta più avanti, sparo qualche colpo per attirare la sua attenzione e con il braccio indico Vanini. Comprende e mi fa segno di seguirlo. Mi butto giù in candela e non lo perdo di vista, davanti a lui scorgo due aerei ma non riesco a identificarli, potrebbero essere degli Hurricane. Loro ci debbono aver avvistati perché stanno puntando verso una grossa nuvola. Vanini è già a distanza utile di tiro quando spariscono dentro. Vanini finisce anche lui dentro le nubi, non ha fatto in tempo a evitarle. Io invece rimango fuori nel tentativo di individuare i due Hurricane quando sbucano dalle nuvole. Giro attorno per una decina di minuti senza avvistare alcuno, poi salgo e raggiungo la mia Squadriglia: sarà l’ultima volta che vedo Vanini. Alle 10.50, al nostro rientro a Tirana mancano due aerei, quello di Vanini e quello del m.llo Laferla che ha dovuto fare un atterraggio di emergenza per problemi insorti al motore. Ci mettiamo in contatto con gli osservatori dell’Esercito al fronte e chiediamo se hanno riporti di aerei abbattuti: la risposta è negativa e pertanto il cap. Jannicelli dichiara Vanini disperso in azione. Tocca a me il triste compito di raccogliere gli oggetti personali, porli in uno scatolone e portarli alla Squadriglia per farli spedire a sua madre. Il giorno dopo non mi sento per niente bene, resto a letto anche perché il tempo è pessimo ed è previsto che resterà così per almeno una settimana. Quando le condizioni meteo finalmente migliorano le forze greche si stanno ritirando, i tedeschi che hanno occupato la Jugoslavia in aprile ora stanno avanzando verso la Grecia. Il cielo è sereno e la temperatura è ben al di sotto dello zero; penso ai nostri poveri soldati in montagna, non attrezzati per operare con tale clima. Mi chiedo se Mussolini sia al corrente delle condizioni in cui operano le sue truppe in Albania. Tra i soldati molti si lamentano che la stampa italiana non riporta la dura realtà delle operazioni su questo fronte. Rimango nell’officina dell’hangar accanto a una piccola stufa a legna e la sera, prima di andare a letto, chiedo all’aviere addetto al bar di scaldarmi una bottiglia con mezzo litro di brandy e preparare qualcosa da mangiare che mi porto nella mia cameretta. Riempio un grosso bicchiere di brandy; sotto l’effetto dell’alcool mi sento meglio e prendo sonno.

LA CATTURA DI ANDRAGHETTI 
L’indomani i sintomi influenzali non sono del tutto scomparsi, partecipo al briefing con tutta la mia Squadriglia. Siamo di nuovo in allarme, corre voce che gli inglesi vogliano bombardare il porto di Durazzo. Vado al mio aereo e controllo che tutto sia in ordine. Sono ancora un po’ febbricitante, poco alla volta finisco il brandy rimasto nella bottiglia. Dopo il pranzo siamo nuovamente convocati al briefing per la missione di domani. Il 19 marzo, alle 09.45, decolliamo e saliamo a 8000 metri. Tutta la formazione dirige verso il lago di Ocrida, sul confine greco-jugoslavo. Incrociamo i bombardieri e li scortiamo oltre i laghi, in Grecia. Sulla via del ritorno voliamo in formazione stretta con i bombardieri, a Valona ci separiamo e loro proseguono per la base di provenienza, in Italia. Il cap. Jannicelli mi chiede a cenni quanto carburante mi rimane, alzo l’indice e poi indico l’orologio, ne ho per almeno un’ora; Andraghetti, sull’altro lato della formazione, risponde altrettanto. Il Capitano vira a sinistra e mette la prua verso la Grecia. Nei pressi di Salonicco avvistiamo cinque aerei che sbucano da dietro una grossa nube, dirigiamo verso di loro per intercettarli, si accorgono e si ributtano subito dentro, li seguiamo ma sbuchiamo pochi secondi dopo, mi giro per vedere se Andraghetti è ancora al suo posto ma non lo vedo. Con il Capitano facciamo ancora qualche giro intorno alla nube per individuare Andraghetti, poi dobbiamo rientrare, siamo a corto di carburante. Atterriamo alle 11.45, aspettiamo il tramonto prima di stendere il rapporto nell’Ufficio Comando. Dopo tre giorni sapremo che Andraghetti entrando nelle nuvole ha perso l’orientamento ed è finito sui monti all’interno della Grecia dove, a corto di carburante, non ha avuto altra scelta che lanciarsi col paracadute. Catturato dai greci, verrà liberato dai paracadutisti tedeschi a Creta, dove erano internati i prigionieri di guerra. Per la seconda volta debbo raccogliere gli effetti personali di un collega non più rientrato, ma questa volta fortunatamente non ha perso la vita. Il serg. Salvadori, appena tornato dalla licenza, prende il posto di Vanini in Squadriglia e anche il suo letto nella mia cameretta. Il giorno dopo fa molto freddo, preferirei rimanere a letto ma, per non far sapere che non sto troppo bene, mi alzo e partecipo al briefing. Oggi la mia Squadriglia sarà di allarme mentre per domani è pianificata una missione con decollo alle 11.30, dovremo essere pronti ad avviare i motori alle 11.15. Ci vengono impartite disposizioni precise sulle modalità di avvistamento dei velivoli nemici, abbiamo l’ordine di restare in formazione e di avvisare il comandante. Indosseremo le tute di volo pesanti perché voleremo alla massima altitudine prevista per i nostri velivoli. Terminato il briefing i piloti controllano i propri aerei, assistiti dai colleghi che rimangono a terra.

L’AVARIA AL REGOLATORE DEL PASSO DELL’ELICA 
Il 21 marzo fa meno freddo, mi sento abbastanza bene ma ho ancora saltuariamente dei brividi. Alle 11.30, quando vediamo il razzo verde salire in cielo, tutta la Squadriglia avvia i motori. Salvadori ed io facciamo parte della Pattuglia guidata dal Capitano. Quando la formazione si congiunge, iniziamo a far quota dirigendo a Sud, verso la Grecia. Il cielo è limpido, si vede tutto il Peloponneso e anche il profilo della costa italiana dall’altra parte dell’Adriatico. Voliamo a 8000 metri e sto guardando verso il basso nei pressi di Gianina quando improvvisamente sento un forte rumore proveniente dal motore e sono sottoposto a una forte decelerazione, come una frenata che mi spinge in avanti, contro il parabrezza. Sul momento penso a una collisione con l’aereo del Capitano che mi sta davanti, non faccio in tempo a capire cosa è successo che mi trovo in vite. Porto la manetta al minimo, l’aereo continua a girare su se stesso scendendo in verticale. Sono talmente alto che la perdita di quota non mi preoccupa: anzi, preferisco ritardare l’uscita dalla vite dove l’aria è più densa e i comandi sono più efficienti. L’altimetro gira e segna 7000 metri, chiudo il flusso d’aria al radiatore dell’olio affinché il motore non si raffreddi eccessivamente. A 4500 metri eseguo la manovra per l’uscita dalla vite: piede contrario al senso di rotazione e cloche leggermente in avanti: la rotazione si interrompe ed esco dalla vite. Ora che il velivolo si è stabilizzato la velocità aumenta rapidamente, tengo ancora qualche secondo il muso basso, richiamo dolcemente e livello. Controllo gli strumenti, tutto sembra regolare a esclusione dei giri dell’elica: quando aumento la potenza, salgono bruscamente a 3000 giri al minuto, ben oltre il regime normale, indice di un malfunzionamento del regolatore del passo dell’elica, probabilmente bloccato al minimo. Cerco di riportarmi a 6000 metri nella speranza di raggiungere la Squadriglia ma sono solo, non vedo alcun aereo sull’orizzonte. Metto in prua 350 gradi che dovrebbe portarmi sulla giusta rotta per il nostro aeroporto. Nelle vicinanze di Berat scorgo tre aerei convergenti alla mia rotta e molto più bassi, a circa 3000 metri: sembrano Hurricane. Attaccandoli corro un grande rischio a causa del problema al passo dell’elica che mi impedisce di raggiungere una velocita’ adeguata ma, con il vantaggio della sorpresa e con la mia quota superiore potrei farcela: male che vada posso buttarmi dentro una nube. Tolgo la sicura, armo le mitragliatrici, accendo il collimatore e inizio una ripida discesa per portarmi verso di loro. Quando la distanza si è ridotta appoggio l’occhio sul collimatore e lo distolgo solo un attimo per accertarmi che nel frattempo qualcuno non si sia messo nella mia coda. Quando ritorno sul collimatore la sagoma dei velivoli mi appare familiare… sono tre FIAT G 50. A circa 400 metri di distanza, cabro violentemente, i tre G 50, colti di sorpresa, istintivamente hanno uno scarto sui comandi, per un attimo si separano e subito dopo si ricompongono: mi hanno riconosciuto come “amico”, faccio ancora un giro intorno a loro e poi continuo per Tirana. Quando arrivo sul campo tutta la Squadriglia è atterrata. Ho il passo dell’elica bloccato al minimo e per farlo capire a terra do una “smotorata” e il motore va in “fuorigiri”, a 3000 giri/minuto. Sorvolata la pista mi porto sottovento e poi all’atterraggio. Appena salto fuori dal mio aereo il cap. Jannicelli mi fa chiamare a rapporto nel suo ufficio: “Che ti è successo? Ti abbiamo visto andare improvvisamente in vite. Abbiamo pensato ad un cedimento strutturale del tuo velivolo”. “Ho sentito un gran rumore e poco dopo mi sono trovato in vite. Quando sono uscito ho realizzato che il passo dell’elica era bloccato al minimo”, rispondo. Il Comandante vuol vedere l’aereo e insieme ci avviamo verso la linea di volo dov’è parcheggiato. Un motorista e uno specialista delle eliche hanno già aperto i pannelli del motore e stanno armeggiando. Arriva anche il Comandante dell’aeroporto che ha sentito un rumore insolito, vuol sapere cos’è accaduto. Attendiamo intorno all’aereo, lo specialista ha aperto la scatola dei relè e ha trovato un solenoide surriscaldato; è tutto nero e incrostato, probabilmente è in corto circuito, deve aver fatto mancare l’alimentazione elettrica e l’elica si è portata al passo minimo. Lo specialista si pulisce le mani sulla tuta e indica il guasto al cap. Jannicelli “Comandante, qualcosa ha provocato il corto circuito”, spiega, “L’elica di conseguenza è andata al passo minimo, ciò ha causato l’improvvisa decelerazione dell’aereo!”. Il Capitano non dice nulla e mentre ci allontaniamo commenta: “Ti è andata bene. Non vorrei che fosse accaduta la stessa cosa a Vanini!”.

LA POLMONITE 
Alcuni giorni dopo, a mezzogiorno, siamo tutti in infermeria per la profilassi contro la febbre tifoide che si è manifestata con un paio di casi in aeroporto. Le iniezioni si fanno sul petto, stiamo tutti in riga aspettando il proprio turno. Alcuni avieri fanno gli spiritosi e scherzano, ma quando tocca a loro fanno cinque passi e svengono! È il mio turno, tolgo la maglia e ho freddo, ho i brividi. Il medico mi tocca la fronte, chiede un termometro all’infermiere dicendogli di misurarmi la temperatura. Dopo tre minuti il medico guarda il termometro, mi fa aprire la bocca e mi esamina la gola. Mi ordina di andare in camera e di mettermi a letto, mi visiterà dopo pranzo. Non mi viene somministrato l’antitifoideo e prima di coricarmi mi sforzo di mangiare qualcosa. Al pomeriggio l’ufficiale viene a vedermi, sono sotto le coperte perché ho ancora i brividi di freddo, mi fa un esame medico completo e mi chiede da quando ho i brividi. “Da una settimana”, rispondo. “Sei stato un incosciente”, mi dice, “Hai la polmonite! Dovevi venire da me ai primi sintomi. Dovrai stare a letto per un po’, anche la gola è in cattive condizioni. Vedremo di rimetterti in sesto al più presto”. Mi fa una iniezione per il dolore alla gola e mi raccomanda di stare al caldo, assicurandomi che ritornerà questa sera. Viene a trovarmi Salvadori, lo ragguaglio sulla diagnosi del medico: “Mi dispiace, dovrai cambiare camera”, gli dico. “Per me non è un problema rimanere qui, anzi, posso esserti d’aiuto!”, risponde. Viene a trovarmi anche il cap. Jannicelli che mi rimprovera di non essermi occupato della mia salute peggiorando la situazione, e aggiunge: “Devi guarire completamente e in fretta, quindi niente missioni prima di due settimane”. Il medico ritorna durante la notte, mi misura la temperatura che è ancora alta, mi fa un’altra iniezione raccomandandomi di non scendere dal letto. Resto coricato per una decina di giorni, non ce la faccio più, chiedo al medico il permesso di alzarmi, me lo concede ma non posso uscire dalla camera nemmeno per i pasti. Quando sto un po’ meglio il medico mi chiede a quando risale il mio ultimo controllo all’Istituto Medico Legale. “Circa un anno e mezzo fa”, rispondo. Decide che è il caso di farmi ritornare in Italia per ripeterlo e redige il suo rapporto.

IL RIENTRO IN ITALIA PER CONTROLLI MEDICI 
Il 5 aprile vengo imbarcato su un SM 82 diretto a Bari che trasporta i soldati feriti dal fronte. Il volo dura 45 minuti, in aeroporto trovo un passaggio fino alla stazione ferroviaria; arrivo a Napoli la sera tardi. Prendo una camera d’albergo vicino alla stazione e vado a letto presto, voglio rimettermi in forma al più presto e superare i controlli medici. Desidero tornare presto alla mia Squadriglia. Al mattino presto del 6 aprile, prima dell’esame medico, vado a rilassarmi con un bagno caldo ai “Bagni Pubblici” e quando esco faccio colazione in uno dei tanti caffè della città. Il clima di Napoli è mite anche alla fine dell’inverno. Prendo il filobus per Posillipo ed entro nell’Istituto Medico Legale dell’Aeronautica proprio quando iniziano le visite. Consegno i miei documenti al piantone che riempie alcuni fogli, pone il tutto in una cartella con su il mio nome e mi dice di attendere insieme agli altri. Dopo mezz’ora, un maresciallo con un grembiule nero viene nella sala d’aspetto con le nostre cartelle sotto il braccio, legge ad alta voce i nomi, ci invita a seguirlo nelle varie stanze dove ci attendono i medici specialisti e posa le cartelle sulle loro scrivanie. Quando la visita è terminata passa a raccogliere le cartelle con le osservazioni apposte dai medici e ci accompagna in un’altra sala. Il tutto dura quattro ore. Attendiamo nella sala d’aspetto l’esito delle visite, degli esami e delle analisi cliniche. Tutte le cartelle confluiscono nell’ufficio del direttore dell’Istituto. Alle 13.30 un maresciallo ci chiama ad alta voce, uno alla volta, e ci accompagna nell’ufficio del Colonnello medico, il direttore dell’Istituto. Quando tocca a me, saluto e resto sull’attenti accanto alla porta. Il Colonnello mi fa avvicinare alla scrivania, sfoglia la cartella: “Lei ha superato la broncopolmonite”, mi dice alzando gli occhi, “ma è ancora molto debilitato, ha perso oltre 10 kg di peso e ora corre il rischio di una ricaduta. Le assegno due mesi di licenza per convalescenza e al termine dovrà tornare qui per un ulteriore controllo”. Mi chiede dove abito. “Signor Colonnello, non ho nessuno, sono solo, se fosse possibile preferirei una convalescenza minima, vorrei ritornare al più presto in Squadriglia”, rispondo. Il Colonnello mi dice di ritornare dopo pranzo. Quando entro nell’ufficio mi porge la cartella: “Ecco i suoi documenti”, mi dice, “Le ho assegnato un mese di convalescenza, veda di rimettersi in sesto presto. In bocca al lupo!”. Rimango a Napoli per tutto il periodo prescritto, tranne due giorni durante i quali mi reco a Roma, al Ministero dell’Aeronautica, per chiedere di essere riassegnato alla mia Squadriglia una volta superato l’esame medico. Mi dicono che debbo attendere l’esito dell’esame, poi si vedrà. Il 16 maggio, trascorso il mese, ritorno all’Istituto Medico Legale e vengo sottoposto solo alle visite mediche specifiche per verificare la mia completa guarigione; questa volta finisco prima. Quando il Colonnello mi convoca nell’ufficio mi dice che è andato tutto bene, ho superato l’esame medico e debbo ritirare i documenti e consegnarli a Roma, all’Ufficio del Personale.

A CAPODICHINO AL 52° STORMO 
A Roma mi assegnano alla 386ª Squadriglia, comandata dal cap. Bruno Mondini. Lo conosco da tempo, è un amico! Mi presento a Capodichino e mi accoglie calorosamente: “Caro Vincenzo”, mi dice, “Ho saputo che eri disponibile e ho fatto richiesta di averti qui con me. Mi serve un pilota esperto per addestrare i ragazzi che giungono alla Squadriglia dalle Scuole di Volo. La nostra Squadriglia sarà rischierata in Nord Africa appena i piloti avranno completato l’addestramento”. Riprendo a volare l’8 giugno, e il 14 vengo incaricato, insieme ad altri due piloti esperti della Squadriglia, di ritirare tre nuovi MC 200 a Castiglione del Lago. Dobbiamo effettuare anche il volo di accettazione prima di rientrare a Napoli. A Castiglione del Lago incontro una vecchia conoscenza di quand’ero in Africa Orientale, in Etiopia: il pilota collaudatore della SAI Ambrosini, il s.ten. Faccioli. Gli dico che sono venuto a ritirare gli aerei e gli presento i due colleghi che mi accompagnano. Ci rechiamo agli hangar dove sono ricoverati i velivoli appena usciti dalla catena di montaggio. Il s.ten. Faccioli chiama il capo officina, Bibbi, e gli dice di far controllare dai tecnici i tre aerei che dovremo ritirare. Ci spiega che gli aerei della Macchi sono costruiti su licenza dalla SAI Ambrosini di Passignano. In un altro hangar ci mostra il nuovo caccia leggero, il SAI 207: ha una bella linea, monta il motore Isotta Fraschini da 750 CV ma è costruito tutto in legno. I tre MC 200 vengono portati in linea di volo, i tecnici della ditta effettuano i controlli e li mettono in moto. Prendo posto nell’abitacolo e verifico il funzionamento di strumenti, comandi di volo e impianti. Dopo il decollo salgo a 2500 metri e inizio i controlli previsti per l’accettazione. Eseguo alcune manovre, l’aereo risponde bene ma i comandi sono leggermente duri. Salgo a 4000 metri per effettuare un’affondata e raggiungere la velocità massima. Poco dopo aver iniziato la discesa vedo comparire improvvisamente tante “ragnatele” sul parabrezza, si è fessurata la lastra esterna. Abbasso istintivamente la testa sotto la carlinga per proteggermi dall’eventuale cedimento del secondo strato di vetro che per fortuna tiene. Metto il motore al minimo, livello e riduco la velocità. Torno all’atterraggio, quando parcheggio il velivolo il capo officina ed i tecnici notano subito l’inconveniente e salgono sull’ala per controllare il parabrezza. Mentre i tecnici stanno armeggiando si avvicinano i miei colleghi per sapere anche loro cosa è accaduto, spiego tutto e li consiglio di non portarsi alla velocità massima finché non è chiarita la causa dell’inconveniente. I due decollano uno alla volta e quando rientrano riportano che tutti i test sono soddisfacenti. Intanto i tecnici portano sulla linea di volo un altro velivolo. Vado in volo con questo e trovo tutto in ordine, firmo i documenti di accettazione e chiedo al signor Bibbi di rifornire gli aerei e controllarli affinché siano pronti per la nostra partenza. Prima di tornare a Napoli Faccioli ci invita a cena, trascorriamo insieme un paio di piacevoli ore ricordando i tempi trascorsi in Africa. Il giorno dopo ci accompagna agli aerei e rimane sul piazzale a guardarci partire, alle 12.40 decolliamo. È l’ultima volta che lo vedo, rimarrà ucciso un paio di settimane dopo: durante un volo di collaudo del SAI 207, in fase di atterraggio scoppia un tubo dell’olio che lo investe, Faccioli perde il controllo del velivolo e va a urtare la linea elettrica della ferrovia che corre accanto all’aeroporto. Alle 14.05 atterriamo a Capodichino, i nostri meccanici prendono in consegna gli aerei ed eseguono un’ulteriore ispezione; anche per loro tutto risulta in ordine. Il 26 giugno vado a Ciampino a ritirare un altro MC 200 e sono di ritorno a mezzogiorno.

A CASTIGLIONE DEL LAGO CON LA 371ª SQUADRIGLIA 
Arriva al Comando un telegramma dal Ministero: è un ordine per il mio trasferimento a Castiglione del Lago, sono assegnato alla 371ª Squadriglia, 22° Gruppo, 52° Stormo. Debbo presentarmi al nuovo Comandante e partire con la Squadriglia per il fronte russo. Il Cap. Mondini è infuriato perché gli sono di grande aiuto e soprattutto perché non è stato consultato prima di prendere una simile decisione. Tenta in tutti i modi di annullare l’ordine ma non vi riesce. La notte stessa lascio la Squadriglia e il giorno dopo mi presento a Castiglione. Il comandante di Squadriglia è il cap. Enrico Meille, un pilota del 4° Stormo di Gorizia. I Sottufficiali sono tutti vecchi amici: Scuffi, Zedda, Bacarra, Lui, Romagnoli e Vacara. Bisogna effettuare l’accettazione dei nuovi velivoli che formeranno la Squadriglia, sono incaricato di controllare due MC 200, uno dei due mi verrà assegnato. Il cap. Meille firma i documenti di consegna dei velivoli e il pomeriggio del 30 giugno, alle 16.30, partiamo per Ciampino Sud dove arriviamo dopo 50 minuti. Vi rimaniamo tre giorni, in attesa di ricevere dal Ministero l’ordine di trasferimento per Tirana, dove ci riuniremo con il resto del 22° Gruppo formato dalla 359ª, dalla 362ª, dalla 369ª e dalla nostra 371ª, comandate rispettivamente dai cap. Minguzzi, La Ferla, Jannicelli e Meille. Da Tirana proseguiremo in volo direttamente per la Russia, dove le truppe tedesche continuano ad avanzare senza trovare resistenza. L’Italia sta inviando truppe in Unione Sovietica e noi assicureremo loro il supporto aereo.

NUOVAMENTE A TIRANA 
Il 10 luglio, alle 10.05, lasciamo Ciampino, facciamo scalo a Foggia dove arriviamo alle 11.15, ci riforniamo di carburante e, dopo aver pranzato, alle 16.45 decolliamo alla volta di Tirana. Attraversiamo l’Adriatico, in rotta incontriamo alcune formazioni temporalesche e le evitiamo senza problemi. A Tirana scendiamo dagli aerei alle 18.15 e siamo circondati dai piloti e dagli specialisti che ci danno il benvenuto. Quando scoprono che tra i nuovi arrivati ci sono anch’io sono tutti sorpresi. Incontro il cap. Jannicelli, gli racconto come sono finito alla 371ª Squadriglia e gli confido che mi farebbe piacere tornare con la mia vecchia Squadriglia, la 369ª. Mi risponde che piacerebbe pure a lui ma sembrerebbe uno sgarbo nei confronti del cap. Meille, mio Comandante di Squadriglia e suo grande amico. Dobbiamo rimanere per alcuni giorni a Tirana con tutto il Gruppo, in attesa degli ordini da Roma. Il 18 luglio effettuo un volo di 55 minuti a 7600 metri per verificare se il meccanismo elettrico del passo dell’elica funziona correttamente anche alle basse temperature. Ripeto la stessa prova il giorno dopo anche su un velivolo con il controllo manuale e non riscontro alcuna irregolarità nel funzionamento di entrambi i sistemi. Nell’hangar vengono aperti e controllati i meccanismi di controllo elettrico del passo dell’elica ma non vengono riscontrati presenza di umidità né sintomi di surriscaldamento dei solenoidi dei relè o del motorino elettrico di azionamento del passo.

LA PARTENZA PER LA RUSSIA, PRIMO SCALO A BELGRADO 
Durante l’attesa della partenza per la Russia sto nuovamente male, non ho la febbre ma non sono quello di prima. L’8 agosto arriva l’ordine di trasferimento, è previsto uno scalo a Belgrado per rifornirci di carburante, proseguiremo poi per Bucarest dove riceveremo ulteriori disposizioni dal Comando italiano e tedesco. Collaboriamo con gli specialisti all’allestimento degli aerei, prima di ritirarci per la notte abbiamo il briefing con il Comandante di Gruppo: il decollo è previsto domani mattina alle 09.00. Ogni Squadriglia assegna ai propri piloti la posizione nella formazione, io sarò il gregario di destra del cap. Meille. Il giorno dopo siamo in linea di volo prima che arrivino gli Ufficiali. Gli specialisti tolgono i teloni dagli aerei e iniziano i loro controlli. Dopo il riscaldamento e la prova del motore faccio rabboccare il serbatoio del carburante del mio velivolo. Quando arrivano gli Ufficiali saliamo a bordo e attendiamo il razzo verde per mettere in moto. Il bollettino meteorologico e le previsioni a 12 ore danno bel tempo lungo tutta la rotta. Il razzo verde attira la nostra attenzione, le eliche girano tutte insieme, sbuffi di fumo escono dagli scarichi dei motori e si dissolvono dopo alcuni secondi. Alle 08.50 ci muoviamo tutti insieme verso il punto di decollo. La mia Squadriglia è l’ultima a decollare e seguiamo a breve distanza le altre due. Atterriamo a Belgrado dopo un’ora e mezzo di volo, gli specialisti tedeschi hanno già predisposto tutto per il rifornimento. Li assisto, mi rivolgo a loro in tedesco; sembrano sorpresi, non è comune sentire un italiano parlare la loro lingua. Scherzando chiedo come sono le ragazze a Belgrado, mi dicono carine ma sono intimoriti dal loro carattere alquanto duro.

SCALO A BUCAREST 
Mangiamo qualcosa e quando gli aerei sono riforniti e controllati ci riuniamo per il briefing della tratta per Bucarest: il Comandante, con l’ausilio di una carta aeronautica, ci illustra la rotta. Si riparte alle 15.45, ricomponendo la formazione come sulla tratta precedente. Arriviamo sull’aeroporto di Bucarest dopo 1 ora e 40 minuti, rompiamo la formazione ed atterriamo. Da terra osservano sorpresi questo improvviso carosello di aerei distanti pochi metri l’uno dall’altro. Sul piazzale di uno degli hangar c’è un gruppo di persone che ci sta attendendo, rulliamo in quella direzione. Spenti i motori, l’Addetto Militare dell’Aeronautica italiana si avvicina all’aereo del Comandante per dargli il benvenuto. Scendiamo dai nostri velivoli e ci raccogliamo intorno all’Addetto e gli Ufficiali tedeschi sopraggiunti; ci stringono la mano e accolgono calorosamente. Alcuni giornalisti scattano foto e fanno domande ai nostri Ufficiali. Mi intrattengo con alcuni piloti tedeschi, uno di loro è un veterano della guerra civile di Spagna. È un pilota di una Squadriglia di trasporto che era dislocata a Capodichino e ora è trasferito anche lui in Russia. Devo lasciarlo perché due bus militari tedeschi ci attendono per accompagnarci in città a Bucarest. Siamo alloggiati al Calos Hotel, confortevole ed elegante. Rimaniamo tre giorni a Bucarest, alcuni colleghi si ambientano subito, conoscono delle ragazze carine e fanno subito amicizia. Non ho voglia di uscire, non mi sento molto bene e rimango in albergo, lascio la mia camera solo per i pasti e solamente l’ultima serata esco con gli amici. Il 12 agosto, il giorno della partenza, mi sento meglio. Saliamo sui mezzi militari che ci portano in aeroporto dove i nostri specialisti, arrivati ieri con un Savoia Marchetti, sono già al lavoro, hanno controllato e scaldato i motori. Il briefing si svolge in un edificio accanto all’hangar. La prossima tappa sarà Tudora, una piccola cittadina appena a sud di Jassy, in Transilvania. Il briefing sulla situazione meteorologica viene fatto da un ufficiale tedesco: le condizioni lungo la rotta dovrebbero essere abbastanza buone, è prevista una discreta visibilità e la base delle nubi non molto alta ma comunque non critica. Andiamo tutti ai nostri aerei e aspettiamo l’ordine di messa in moto. Si parte alle 10.00 e poco dopo siamo in rotta, aggiriamo alcuni temporali e arriviamo a Tudora in una ora e mezzo di volo.

IL VIAGGIO VERSO LA RUSSIA: TUDORA – BALTA – KRIVOJ-ROG 
Di tutti i campi di volo che ho visto questo mi sembra il più miserabile. Le infrastrutture sono pessime, c’è una sola fontanella per i Sottufficiali, i bagni sono lontani dalle baracche e la cucina è disgustosa, i cuochi non sanno cucinare. Non mi sento bene e non lo dico a nessuno, Scuffi se ne accorge, gli chiedo di ignorarmi. Finalmente, dopo due settimane, arriva l’ordine di trasferimento a Krivoj-Rog, in Russia; è previsto uno scalo intermedio a Balta. Sono contento, perché ovunque andremo non potremo stare peggio di qui. Il 26 agosto prima della partenza veniamo passati in rivista dal nostro Comandante di Gruppo e da alcuni Ufficiali tedeschi. Andiamo ai nostri aerei, tutto sembra in ordine e siamo pronti. Il cielo è sereno e fa caldo. Decolliamo alle 08.50, il volo fino a Balta è breve, 1 ora di volo, riforniamo i velivoli e ripartiamo dopo 1 ora e 20 minuti. La tratta per Krivoj-Rog è la tratta più lunga, sono previste due ore di volo. Il paesaggio russo che sorvoliamo è bello, ci sono molte colline e la terra ha il colore dell’oro. Di tanto in tanto scorgiamo i segni lasciati dai combattimenti dopo l’avanzata tedesca, veicoli e carri armati bruciati, qualche trincea costellata di crateri neri dei colpi di artiglieria. Avvicinandoci a Krivoj-Rog scorgo una grande acciaieria, sembra inattiva, dalle ciminiere non si vede uscire il fumo ma vi è un gran movimento all’interno della stessa. L’aeroporto è vicino alla città, atterriamo alle 13.10 e ogni aereo viene ricoverato in una piazzola munita di paraschegge a protezione di eventuali bombardamenti o mitragliamenti russi. Raccolta la borsa con i pochi effetti personali che siamo riusciti a stivar nel vano radio dell’aereo, saliamo su un automezzo tedesco che ci porta in quello che sarà il nostro nuovo alloggio, un piccolo teatro dall’altra parte di Krivoj-Rog. Non ci sono brande ma dei materassi di paglia stesi per terra. Qualcuno si lamenta col Capitano, ci risponde che bisogna avere pazienza, ha già fatto richiesta e le brandine devono arrivare da un deposito tedesco. Scuffi e io sistemiamo le nostre poche cose vicine e usciamo a cercare da mangiare qualcosa in un paesino a circa un miglio dal nostro alloggio.

LA PRIMA MISSIONE OPERATIVA 
Nei giorni successivi continuo a non star bene, al mattino va meglio ma verso mezzogiorno la mia temperatura corporea inizia a salire e alla sera la febbre è decisamente alta. Il terzo giorno tutto il Gruppo è riunito alla mensa Ufficiali per il briefing che è tenuto da un ufficiale tedesco e uno italiano. Domani, 2 settembre, avremo la nostra prima missione: tutte le Squadriglie, la 359ª, 362ª, 369ª e 371ª, opereranno individualmente e in sequenza. Sarò come di consueto il gregario destro del cap. Meille, mentre Scuffi è alla sua sinistra. La missione si svolgerà nei dintorni di Dnepropetrovsk, lungo il fiume. Dobbiamo fornire supporto alle truppe di terra, facendo attenzione a non colpire i nostri soldati. Alcune postazioni di mitragliatrici nemiche stanno mettendo in seria difficoltà i nostri e dall’alto dobbiamo individuarle e distruggerle. Vado al mio aereo, verifico che sia tutto a posto, rifornito e armato. Decolliamo alle 08.35, quando sono a metà strada dall’obiettivo mi assalgono i brividi, ho la febbre alta e mi gira la testa. Mi allontano dalla formazione per non correre il rischio di investire qualche collega se dovessi perdere i sensi. Metto la testa fuori dal parabrezza per vedere se le vertigini cessano, dopo alcuni secondi sto meglio, mi guardo intorno ma non vedo più la mia Squadriglia. Senza rendermi conto, forse semisvenuto, ho perso molta quota e sono vicino al suolo. Faccio ritorno alla base, sono intontito, in atterraggio rischio di dimenticare di estendere il carrello e lo faccio all’ultimo momento. Rullo verso il parcheggio, quando scendo sono trascorsi solo 25 minuti dal decollo, il Comandante di Gruppo, il magg. Giovanni Borzoni, mi viene incontro: “Cos’è successo, perché sei rientrato, hai problemi al motore?”, chiede, e io: “Comandante, l’aereo va bene, sono io che non vado bene. Sono quasi svenuto, mi sono allontanato dalla mia Squadriglia e poi li ho persi di vista”. Mi fa salire sull’auto del campo e mi porta in infermeria, dall’ufficiale medico per farmi visitare. Appena il medico mi vede esclama “Cosa ci fai tu qui in Russia!”. È lo stesso medico che mi aveva mandato in Italia quando ero in Albania. Mi visita accuratamente e mi misura la temperatura: è molto alta, gli spiego come si manifesta durante tutto il giorno. Dopo avermi visitato il medico chiama il Comandante di Gruppo e gli dice che deve rimandarmi in Italia perché non è in grado di curarmi qui. Mi fa mettere in una stanzetta utilizzata come corsia, dopo avermi praticato un’iniezione mi dà delle pillole e mi ordina di rimanere a letto. Gli chiedo che cosa ho, mi risponde che la mia gola è in pessime condizioni e che non era il caso che riprendessi servizio così presto dopo essere stato mandato in Italia per curarmi. Gli spiego che “Mi è stata prescritta una convalescenza di due mesi ma, non avendo una famiglia, ho chiesto di tornare al più presto in servizio, assegnato possibilmente a una Squadriglia in Italia dove avrei potuto riprendermi e tornare infine al mio Reparto in Albania. Così è stato, ma poi è arrivato l’improvviso ordine di partenza per la Russia”. Il medico sbotta: “Voi piloti siete tutti uguali, pensate solo a volare e non capite quando è il caso di fermarsi e così mettete nei guai voi e noi medici!”. Resto solo per tutto il pomeriggio, un infermiere mi porta la cena ma non riesco a mangiare nulla. I colleghi mi informano che al rientro della 369ª purtroppo manca un aereo, risulta disperso, la 371ª invece è rientrata con due aerei gravemente danneggiati, hanno però abbattuto tre aerei russi. Intorno alle 20 il medico viene a misurarmi di nuovo la temperatura, che è salita ancora. Mi comunica che domani mattina partirò in aereo alla volta dell’Italia.

IL RIENTRO IN ITALIA 
Il medico chiede a Scuffi di raccogliere tutte le mie cose e sistemarle nel suo ufficio. Verso le 22 viene portato in infermeria il serg. Lui, della mia Squadriglia, che ha un forte mal di stomaco. Il medico lo esamina e gli trova il fegato molto ingrossato, anche lui deve ritornare in Italia. La Squadriglia perde così in un giorno due piloti. Il Comandante di Gruppo e’ in difficolta’ poiche’ sa che non otterra’ facilmente rimpiazzi ed insiste per farci curare entrambi qui, l’Ufficiale medico risponde che non ha i mezzi per farlo: essendo responsabile dei malati non ha altra scelta. Il Maggiore è piuttosto contrariato ma il medico non sembra preoccuparsene e continua a visitare alcuni bambini russi portati nell’infermeria dai loro genitori. Non riesco a riposare perché il serg. Lui soffre molto e continua a torcersi dai dolori nel letto, il medico torna verso mezzanotte e gli fa una iniezione di morfina che gli permette di riposare un po’. Fa giorno e guardo fuori: c’è nebbia, è il 14 settembre, dubito che stasera saremo a Roma come aveva detto il medico. Un attendente ci porta la colazione a base di latte caldo e pane e ci invita a indossare le uniformi ed infilarci le tute di volo invernali. Più tardi arriva il medico e mi chiede come mi sento. “Come al solito!”, rispondo. Mi misura la febbre, mi fa un iniezione che dovrebbe tirarmi su per l’intera giornata e mi dà delle aspirine da prendere ogni tre ore. Per il serg. Lui non può fare nulla, si raccomanda che stia il più possibile al caldo. Scuffi e Baccara vengono a trovarmi e mi consegnano delle lettere da spedire una volta giunto in Italia. Poco prima di imbarcarci viene a trovarci anche il cap. Meille insieme a due Ufficiali, ci augurano buona fortuna. L’ambulanza ci porta sotto l’aereo che stanno rifornendo, gli inservienti caricano i nostri bagagli e quando il rifornimento è completato imbarcano anche noi. Conosco il copilota, era a Grottaglie con me nel 1933, si chiama Pengo: l’ultima volta che lo vidi era nei bombardieri, adesso vola per i SAS Servizi Aerei Speciali. Quando mi vede viene a salutarmi, ci indica i nostri posti e dice che verrà più tardi a trovarci. Il Comandante dell’aereo, appena a bordo, viene anche lui a controllare che ci abbiano sistemati bene. Vengono imbarcati anche sei Ufficiali di fanteria. Poco dopo i motori cominciano a girare e l’aereo rulla fino al centro e poi verso il bordo estremo del campo. Inizia una lunga corsa di decollo, non appena le ruote si staccano da terra ci troviamo subito nelle nuvole e non ne usciamo fino a Bucarest dove si diradano un po’ e ci permettono di individuare il campo d’atterraggio. L’aereo viene rifornito e imbarchiamo altri otto alpini che tornano in Italia perché molto malati. Pengo, dopo aver controllato il rifornimento, sale a bordo e mi informa che le previsioni meteorologiche non sono migliori di quello che abbiamo incontrato, almeno fino alla costa adriatica. Va a sedere al suo posto di pilotaggio e poco dopo decolliamo. Entriamo nelle nubi già a poche centinaia di piedi di quota, continuiamo a salire fino a 5000 metri, rimaniamo “dentro” tutto il tempo e incontriamo anche una discreta turbolenza che spaventa a morte un alpino. Sul bordo d’attacco dell’ala si forma uno strato di ghiaccio che si stacca quando viene attivato il dispositivo antighiaccio e sbatte sulla fusoliera producendo un rumore come se qualcuno ci tirasse dei sassi. Continuiamo a “ballare” e i bagliori dei fulmini illuminano le nubi. Da dove sono seduto vedo Pengo e il Comandante impegnati a tenere l’aereo livellato nonostante gli incessanti scossoni provocati dalla turbolenza. Guardando dai finestrini laterali vedo spuntare le cime delle montagne attraverso uno squarcio tra le nuvole. La turbolenza sparisce improvvisamente e possiamo riposarci un po’. Pengo viene a dirci che, a causa dei fulmini, le due radio dell’aereo sono in avaria. Guardo l’orologio, siamo in volo da circa 4 ore e calcolo che dovremmo essere sull’Adriatico. Quando usciamo dalle nubi siamo a circa 1000 metri sul mare. Il Comandante dell’aereo si dirige verso Nord e, seguendo la costa, passiamo accanto a due cacciatorpediniere che battono bandiera italiana. Quando siamo verso Durazzo ci inoltriamo sulla terra ferma, in direzione di Tirana, dove atterriamo. L’aereo viene rifornito, ci riparano le radio e decolliamo con destinazione Ciampino Nord. Continuiamo a salire sull’Adriatico fino a 6000 metri. Riesco a dormire un po’ e quando mi sveglio sono trascorse due ore, il cielo è libero dalle nubi, sotto di noi scorgo il palazzo reale di Caserta, siamo di nuovo in Italia. Invece di atterrare a Ciampino Nord atterriamo a Guidonia, la base di armamento della SAS. Quando si spengono i motori aiuto gli alpini a sbarcare i loro bagagli: loro, poveracci, stanno peggio di me! Saluto l’amico Pengo e il Comandante, raccolgo il mio bagaglio e mi reco all’Ufficio Personale in Transito dove presento i miei documenti. Mi dicono di attendere, debbono preparare la documentazione e la lettera di presentazione per l’Istituto Medico Legale di Roma. Il serg. Lui non sta per niente bene e i dolori gli sono aumentati, arriva l’Ufficiale medico che ordina il suo ricovero in infermeria. Rimango a fargli compagnia e ad assisterlo per un po’ e poi debbo lasciarlo, il treno per Roma parte alle 18.15. Giunto a Roma fisso una stanza all’Hotel Nuova Roma, esco per cenare e poi vado a letto presto, sono stanco per il viaggio e debbo essere all’Istituto Medico domani alle 08.30.

LA VISITA ALL’ISTITUTO MEDICO LEGALE 
Il mattino del 15 settembre sono davanti all’Istituto all’ora prevista, consegno i documenti e mi siedo nella sala d’attesa; un Maresciallo, con un pacco di cartelle personali sotto al braccio, chiama per nome chi deve essere visitato e lo accompagna lungo il corridoio in uno dei tanti saloni attrezzati ad ambulatorio per le visite specialistiche. I medici sono rigorosi e hanno a disposizione moderne apparecchiature per i controlli e le analisi. Non c’è alcuna differenza tra le visite ordinarie e quelle del primo esame medico di ammissione alle Scuole di Volo, ciò nonostante la “non idoneità al volo”, temporanea o definitiva, viene emessa a fronte di una situazione sanitaria inconfutabile. Dopo essere stato sottoposto ai vari controlli attendo il responso che mi sarà comunicato dal Colonnello Direttore dell’Istituto. Quando le visite e gli esami sono completati, tutte le cartelle vengono raccolte dentro una sala, su un lungo tavolo. Una commissione medica esamina il responso dei singoli medici e i risultati delle analisi cliniche. Se lo ritiene necessario richiede controlli supplementari e infine emette il verdetto “idoneo” o “non idoneo”. Il Direttore mi convoca e comunica che mi sono stati assegnati 45 giorni di convalescenza; mi consiglia di trascorrere questo periodo possibilmente in montagna. Ritiro la lettera con l’esito della visita all’Ufficio Accettazione dell’Istituto e poi mi reco al Comando della Zona Aerea, la consegno e ritiro la busta con i documenti relativi alla licenza di convalescenza.

IN LICENZA DI CONVALESCENZA A CASTIGLIONE DEL LAGO 
Mi fermo a Roma altri due giorni, debbo ritirare un anticipo dello stipendio, non ho molti soldi. Intascato il denaro decido di andare a Castiglione del Lago: è un bel posto, anche se non è proprio in montagna, lo conosco perché vicino c’è l’aeroporto G. Eleuteri, dove ho ancora diversi amici. Il proprietario di un albergo del paese, il signor Biondo, mi tratterà sicuramente bene. In un paio d’ore di treno sono a Castiglione del Lago, alla stazione prendo una carrozza che mi porta all’albergo. Mi accoglie il proprietario, che è lieto di rivedermi e mi assegna una stanza con vista sul lago, gli spiego il motivo di questo mio soggiorno e lui garantisce che mi metterà in condizione di tornare in forma presto. Alla sera gli amici mi vengono a trovare, giochiamo a biliardo e di giorno faccio lunghe passeggiate. Il signor Biondo mi fa trovare ogni mattina un bicchiere di Marsala e due uova fresche insieme a un’abbondante colazione. Vado spesso anche in aeroporto a veder volare gli allievi e rimango a pranzo con gli istruttori. I giorni passano e sento la mancanza del volo. Tre giorni prima del termine della licenza torno a Roma e, quando previsto, mi presento all’Istituto Medico Legale per la visita “straordinaria”. Sono sottoposto solo agli esami attinenti alla causa della mia malattia e così la visita è un po’ più veloce. Quando il Colonnello Direttore dell’Istituto mi convoca mi chiede come mi sento. “Sono tornato in forma”, rispondo, “E sono pronto a riprendere il volo”, e il Colonnello commenta “Bene! Anche gli esami sono a posto. I documenti con l’esito della visita li potete ritirare all’Ufficio Ricezione e con quelli vi presentate all’Ufficio Personale del Ministero, qui accanto. Vi verrà comunicata la nuova assegnazione”. Ritiro i documenti e vado al Ministero dell’Aeronautica che si trova sull’altro lato della strada, salgo all’ufficio Personale e consegno la busta. Un Tenente mi dice di tornare l’indomani, il generale Eraldo Ilari oggi è assente. Il giorno dopo vengo subito introdotto nell’ufficio del Generale, ha sul tavolo la mia cartella personale, mi chiede subito se ho esperienza di volo notturno “Una mezza dozzina di voli, poco più di un’ora”, rispondo. Immagino che mi assegni alla mia Squadriglia in Russia. Non è cosi! Debbo andare a Napoli e, terminata la licenza, inizierò l’addestramento al volo notturno dei piloti assegnati alla 303ª Squadriglia, una Squadriglia autonoma in via di costituzione. Il Generale chiama un Colonnello dandogli disposizione di preparare i documenti per il magg. Ettore Foschini, Comandante del 21° Gruppo, comprendente la 356ª, 382ª e 386ª Squadriglia, da cui dipende anche la 303ª, con sede a Capodichino. Vengo fatto accomodare nella sala d’attesa, dove dopo una mezz’ora ricevo la documentazione per il trasferimento.

ALLA 303ª SQUADRIGLIA “CACCIA NOTTURNA” DI CAPODICHINO 
Il 30 ottobre sono a rapporto dal magg. Foschini, il quale legge le carte che gli porgo e alza il capo: “Caro Patriarca, in alto hanno deciso di assegnarti alla 303ª Squadriglia Caccia Notturna”, dice, “Peccato, ti avrei voluto nella 356ª Squadriglia”. Gli chiedo dove sia la mia Squadriglia e lui si mette a ridere. “La tua Squadriglia?”, risponde, “È solo sulla carta! Ci sono un CR 30 a doppio comando e un Caproni Ca 164, entrambi fermi da oltre un mese, e al momento nessun CR 42. Non credo che la 303ª opererà in tempi brevissimi, ti sarei grato se tu accettassi nel frattempo di dare una mano alla 356ª. Abbiamo molti piloti da addestrare, sono assegnati al fronte russo”. Naturalmente accetto di buon grado la sua proposta. Il Maggiore dà ordine agli specialisti di iniziare subito la revisione del CR 30: quando sarà in linea effettuerò il volo di controllo. Faccio due voli di ambientamento con il MC 200 e un volo in coppia con un allievo. Un pomeriggio di alcuni giorni dopo il CR 30 è pronto, lo comunico al Maggiore ed effettuo un volo “officina”. Il 2 novembre riceviamo i primi quattro CR 42 assegnati alla Squadriglia della Caccia Notturna. In assenza di un Capitano con l’incarico di Comandante della 303ª Squadriglia, il magg. Foschini firma i documenti di accettazione e li invia al Comando di Gruppo a Ciampino Sud. Il cap. Osvaldo Cavagna, Comandante della 356ª, è il facente funzioni per tutte le altre incombenze relative alla 303ª. Sebbene gli aerei siano nuovi è prassi che vengano ispezionati dagli specialisti. Gli armieri preparano i nastri con le munizioni di tre tipi: traccianti, esplosive e incendiarie. Ogni aereo ha due mitragliatrici di calibro 12.7 mm. Le armi di bordo vengono tarate su un’apposita piazzola davanti a una montagnola “parapalle”, in modo da far convergere i proiettili a una distanza di 220 metri. Effettuo il volo di prova e tutto risulta regolare. Durante il giorno collaboro all’addestramento dei piloti della 356ª e di notte sono di allarme. C’è una incursione notturna ma il Maggiore non autorizza il decollo, le condizioni meteo non sono idonee. L’allarme dura un paio d’ore e i bombardieri passano distanti da Napoli. Inizio l’addestramento di due tenenti e due sergenti piloti al volo notturno. Nelle notti chiare, con luna piena o quasi, non si fanno voli d’addestramento perché è necessario poter decollare immediatamente in caso di allarme. L’allarme viene comunicato direttamente dal Centro di Avvistamento Aereo dislocato a Cefalù, nella Sicilia settentrionale.

PARTENZA SU ALLARME NOTTURNO E ATTERRAGGIO A CAPUA 
Alle 22.30 del 6 novembre, mentre stiamo giocando a carte, suonano le sirene di Napoli. Il personale si avvia, come previsto, verso i rifugi antiaerei. Io corro al più vicino aereo, tolgo i teli di protezione, salgo, metto in moto e attendo. Il magg. Foschini arriva di corsa e si avvicina all’abitacolo: “Hanno avvistato un aereo nemico sopra Sorrento”, grida, “Rimani sul Golfo e tieniti fuori dalla zona del porto, potrebbero scambiarti per un nemico. Vai!”, mi batte la spalla e salta giu’ dall’ala. Sebbene non abbia avuto il tempo per riscaldare il motore come previsto, decollo. Aggiro il Vesuvio e dirigo sul Golfo iniziando a pattugliare tra la zona portuale di Napoli e Sorrento, a una quota di 4000 metri. La notte è buia ma il cielo è limpido e non ci sono nubi, il Vesuvio è riconoscibile anche da lontano con la sagoma scura e il cratere illuminato dalla lava incandescente. Sto pattugliando da un bel po’ senza successo quando decido di rientrare ma invece di tornare a Capodichino preferisco atterrare a Capua. Dirigo a Nord, passando a Ovest del Vesuvio, mi porto vicino alla costa e arrivo in prossimità dell’aeroporto in una quindicina di minuti. Estraggo dalla sua custodia la pistola Very e sparo due razzi verdi, è il segnale convenzionale per farmi riconoscere. Inizio a scendere, in lontananza scorgo le montagne e sotto di me c’è il Volturno, improvvisamente si accendono le luci del perimetro aeroportuale. Scendo ancora circuitando sull’aeroporto, quando sono a cento metri di quota si accendono le luci di pista, continuo a scendere, sempre in virata, riduco la manetta mi porto in finale e tocco prima della metà campo. L’aereo non si è ancora arrestato che le luci vengono prontamente spente: a terra temono un attacco aereo nemico. Vedo alcune luci rosse che qualcuno agita per indicarmi di procedere in quella direzione. Quando sono vicino intravedo nel buio un gruppo di persone, ufficiali e personale di terra, che mi attendono davanti all’hangar. Escludo i magneti e l’elica si ferma: sono le 00.10, sono stato in volo 1 ora e 30 minuti. Scendo, l’Ufficiale di servizio si avvicina e mi aiuta: “Com’è andata?”, mi chiede, “Avete intercettato qualche velivolo nemico? Capodichino ci ha chiamati e ci ha avvisati di un vostro probabile atterraggio da noi”. “Niente, non ho visto nessuno”, rispondo, e lui “Pazienza, sarà per la prossima volta!”. Chiedo di poter telefonare al magg. Foschini, mi dice di seguirlo al centralino, ordina all’operatore di chiamare Capodichino e chiedere del Maggiore. Quando è in linea mi passa il telefono. Spiego come sono andate le cose e ricevo l’ordine di restare a Capua e di ritornare l’indomani mattina. L’Ufficiale medico, che è stato sempre in silenzio accanto all’Ufficiale di servizio, dice che può provvedere lui a sistemarmi nell’infermeria del campo. Al mattino un infermiere mi sveglia e posa sul tavolo un vassoio con del caffè e qualche biscotto. Ringrazio e lui risponde “Offre la Casa!”. Gli chiedo di dov’è. “Vengo dalla bella vecchia Trieste”, dice. “Conosco bene la tua città e lì ho lasciato una parte del mio cuore!”, rispondo. Mentre mi vesto scambiamo ancora qualche parola e poi vado al mio aereo che i motoristi hanno già rifornito e controllato. Visto che tutto è pronto qualche minuto dopo decollo, sono le 10.45. Tengo volutamente l’aereo vicino a terra per fargli prendere velocità, poi tiro su quasi in verticale, ruoto lateralmente il muso con il piede fino a portarmi in candela, punto verso l’hangar dove l’Ufficiale di Servizio e gli specialisti mi stanno guardando, li sorvolo a tutta velocità, cabro quasi in verticale, inclino e metto prua verso casa. È un saluto e un ringraziamento per la loro ospitalità e cortesia! Atterro a Capodichino 15 minuti dopo, il maggiore Foschini è in linea di volo che mi attende, ha sentito arrivare il mio aereo. Lo saluto mentre scendo dall’aereo, mi dice di passare subito nel suo ufficio per stendere il rapporto sul volo. Gli consegno il foglio con il rapporto. “Cosa pensi di queste missioni notturne?”, mi chiede. “Sono possibili solamente in condizioni di bel tempo, e con la luna”, rispondo, “Altrimenti diventa quasi impossibile intercettare aerei nemici. Ho sentito che inglesi e tedeschi stanno sperimentando sistemi di localizzazione ad altissima frequenza. Sarebbe inoltre utile disporre di una radio di bordo, l’avevo già quando volavo nella Ricognizione. I nostri ‘moderni’ caccia invece non ce l’hanno, e se l’hanno non funziona!”. Il Maggiore non dice nulla, scuote la testa e dopo aver controllato il rapporto mi chiede se posso andare alla 356ª per portare in volo un paio di piloti.

LA COLLABORAZIONE CON LA 356ª SQUADRIGLIA 
Nell’hangar della 356ª incontro un giovane pilota istruttore, il ten. Weiss, e gli comunico le disposizioni che ho avuto dal Maggiore. Il ten. Weiss mi presenta gli allievi, non conosco nessuno di loro: i ragazzi che avevo addestrato in passato sono partiti per il fronte russo. Conosco così i s.ten. Ricci, Mainini e Greco e i serg. Purgotti, Monti, Paolini, Genghini e Taglialatela. Il ten. Weiss mi dice che sarebbe opportuno portare in volo i s.ten. Mainini e Ricci per addestrarli un po’ al volo in pattuglia con il Macchi MC 200, hanno già volato con questa macchina, ma della 1ª serie. Mainini e Ricci vanno a prendere i paracadute, ci sediamo intorno a un tavolo all’interno dell’hangar e faccio loro il briefing sulle manovre che eseguiremo. In particolare raccomando di non stare troppo “sotto” fino a quando non avranno acquisito una certa esperienza. Saliamo sugli aerei, mettiamo in moto, gli specialisti tolgono i tacchi e rullo verso il centro del campo seguito dai due allievi. Decolliamo alle 16.00, saliamo a 1500 metri e inizio una serie di virate a destra e a sinistra sempre più accentuate; li sento “smotorare” per stare in formazione ma complessivamente si arrangiano abbastanza bene per essere ai primi voli. Terminata la lezione rientriamo al campo e atterriamo in formazione larga. Il ten. Weiss mi viene incontro, mi chiede come sono andati gli allievi, rispondo che sono bravi e sono soddisfatto. Il Tenente va in volo con Paolini e Genghini mentre io eseguo un programma acrobatico sul campo col ten. Greco. Fa sempre più caldo, le giornate si allungano, il numero giornaliero delle missioni aumenta e l’addestramento degli allievi progredisce. Chiedo al magg. Foschini di portare in volo una formazione di sette velivoli per vedere come lavorano tutti insieme. Mi autorizza, facciamo qualche virata e un paio di passaggi bassi sul campo. Il Maggiore è soddisfatto e il giorno successivo decolla con una formazione di due Squadriglie, una comandata da lui e l’altra dal ten. Weiss. Nel frattempo le mie condizioni vanno migliorando, faccio un altro esame medico e anche i dottori confermano il mio stato di salute. Arrivano tre nuovi CR 42 per la Squadriglia di Caccia Notturna e si aggiungono agli altri due già in dotazione. Il magg. Foschini mi chiede di addestrare al volo notturno alcuni piloti della sua Squadriglia, gli dico che i più adatti mi sembrano i s.ten. Mainini e Ricci e il serg. Purgotti; con loro vado in volo per alcune notti con il CR 30 “doppio comando”. Il serg. Taglialatela viene trasferito alla Caccia Notturna grazie a una “pressione” giunta da Roma; non voleva andare in Russia e così ha escogitato questa soluzione. Le incursioni aeree sono aumentate di frequenza, Mainini, Ricci e Purgotti hanno raggiunto un buon livello addestrativo e facciamo il servizio di allarme notturno insieme. Una notte Purgotti decolla su allarme ma deve rientrare a causa delle nuvole che interessano tutta la zona, non riesce ad orientarsi e quando è a corto di carburante è costretto ad abbandonare l’aereo e lanciarsi col paracadute. Due giorni dopo ci vengono installate le radio ma la Squadriglia rimane con soli quattro CR 42. Siamo arrivati alla fine di novembre 1941, il tempo sta cambiando, le giornate sono più fredde. Abbiamo qualche incursione aerea e parto su allarme quando giunge da Cefalù l’ordine via telefono. Per alcuni giorni la visibilità è così bassa che anche i bombardieri nemici sono costretti a terra nella loro base di Malta. Il Comando di Gruppo, che ha la sua sede a Roma, manda il cap. Caruso per osservare come siamo organizzati, è giunta la voce che stiamo dando buoni risultati. Il magg. Foschini gli spiega l’impiego dei velivoli e l’impostazione dell’addestramento al volo notturno dei piloti della 356ª e 386ª Squadriglia. Gli consegna una lista del materiale necessario alla Squadriglia e un’altra con i nominativi dei piloti che sono pronti per partire per il fronte russo, in sostituzione di quelli che rientrano per l’avvicendamento. Il Capitano si ferma una settimana a Capodichino per seguire da vicino le operazioni della Squadriglia durante le partenze notturne su allarme. Arrivano altri piloti nella Squadriglia del ten. Weiss e di giorno vado a dargli una mano con l’addestramento.

L’INCONTRO CON I COMPAGNI DEL X GRUPPO DI GORIZIA 
Il 4 dicembre atterra a Napoli il mio vecchio X Gruppo di Gorizia, la 84ª, 90ª e 91ª Squadriglia del 4° Stormo. Per rifornirsi di carburante e riposarsi qualche ora durante il volo di trasferimento dalla Sicilia a Gorizia hanno scelto Capodichino come scalo tecnico. È stato deciso il loro avvicendamento dopo quasi un anno di logorante impiego al fronte. Hanno subito diverse perdite tra le file dei piloti e degli specialisti e molti aerei sono andati distrutti. Sono emozionato, vado accanto agli aerei, i motori appena spenti scricchiolano come fossero esseri viventi che si lamentano, i tettucci si aprono, i miei vecchi compagni mi salutano ma non li riconosco finché non si tolgono il caschetto e gli occhiali. Quando scendono li abbraccio uno a uno e li saluto con una pacca sulla spalla, ho le lacrime agli occhi. Rivedo anche il mio vecchio amico Aldo Ferrulli, è molto dimagrito. Chiedo di quelli che mancano, a ogni nome è una fitta al cuore. Della 91ª, la mia vecchia Squadriglia, sono deceduti Caporali, Grifoni, Romagnoli, Carraro, Ruffato, Scozzoli. Della 73ª, Renzi, Battaglia, Valle, Passaglia, Bussolin, Pluda, Bonfatti. Della 84ª, Corsi. Della 90ª, Crociati, Maggini, Sclavo, Botti, Fiorito, Contarini. Della 96ª, Viotti, Agnelli, Leotta, Taroni. Della 97ª, Putzu. Sono stati fatti prigionieri, della 91ª,  Piragino e Dalla Pasqua. Della 84ª, Lanfranco e Crestani. Della 73ª, Biffani. Della 90ª, De Benedetti. Un’ecatombe! Aldo mi chiede come mai sono a Napoli: “Non hai nostalgia di Gorizia?”. “Certamente, ma ogni volta che ho chiesto di tornare hanno trovato mille scuse”, rispondo, e lui: “Perché non chiedi aiuto al gen. Bonola che è diventato Comandante dell’Accademia Aeronautica?”. Rispondo che lo farò. Aldo mi dice che una volta rientrato a Gorizia farà richiesta di una licenza per andare a Brindisi dai suoi; dopo la scomparsa della sua giovanissima moglie ha portato il figlio dai genitori. Andiamo tutti alla mensa: la partenza dello Stormo è prevista per il primo pomeriggio, faranno uno scalo anche a Rimini. Resto con Aldo nella mia camera per un’ora, mi racconta della dura vita in Africa Settentrionale e in Sicilia, poi andiamo sulla linea di volo, accanto agli aerei: ho preso la macchina fotografica e scatto qualche foto con Aldo e Migliorato. I colleghi di Aldo cominciano a indossare il paracadute, è giunto il momento di salutarci. Aldo insiste: “Vincenzo, datti da fare per farti trasferire al 4°, staremo insieme come ai bei tempi!”. Mi abbraccia forte, è una sofferenza veder partire tanti cari amici e sapere che probabilmente non rivedrò più molti di loro. Sarà infatti l’ultima volta per Aldo, e il ricordo di quegli ultimi minuti trascorsi insieme, di lui che sale sul suo aereo, che si sistema nel posto di pilotaggio e che mi saluta, mi rimarrà impresso per sempre. Sentirò parlare di Aldo Ferrulli ancora per tanti anni finita la guerra; è stato uno dei più grandi assi, il terzo della nostra Aviazione: 22 abbattimenti individuali, uno collettivo e uno probabile. Cadrà in Sicilia il 5 luglio 1943, abbattuto da uno Spitfire, in una missione a difesa dell’isola durante la quale aveva conseguito la sua ultima vittoria.

L’ABBATTIMENTO DI UN WELLINGTON INGLESE 
Il 5 dicembre 1941 sono di turno d’allarme notturno nella nostra baracca. Giochiamo a carte, ufficiali contro sottufficiali. Squilla il telefono da campo, mi alzo per rispondere: sono stati avvistati bombardieri nemici dalla stazione di osservazione di Cefalù, si stanno dirigendo su Napoli. Il magg. Foschini ordina al s.ten. Mainini, al serg. Purgotti e a me di decollare e pattugliare tre differenti settori. A me è assegnato il settore tra il Vesuvio e i Camaldoli, a Mainini dai Camaldoli al lago Patria e a Purgotti dal Vesuvio a Sorrento. Il Maggiore ci ricorda di tenerci lontano dalla città perché i tedeschi hanno installato batterie contraeree da 88 mm, molto precise e con grande potenza di fuoco. La notte è limpida con un quarto di luna, il Vesuvio è in eruzione e una colata di lava ne illumina un lato. Corro al mio aereo, lascio decollare per primi gli altri due CR 42 perché devono pattugliare settori più distanti del mio, sono le 21.35. Abbiamo le radio a bordo e sono in contatto col magg. Foschini, dopo il decollo lo chiamo per dirgli che sto raggiungendo la quota di 3000 metri. Sono preoccupato dal chiarore delle fiamme che escono dagli scarichi del motore, non sono stati installati i “parafiamma” e nonostante l’aereo sia dipinto di nero sono ben visibile da lontano. Giro attorno al Vesuvio e dirigo sui Camaldoli, guardo in basso verso la città, vedo i lampi delle bombe che esplodono nell’area portuale. Il bombardiere o i bombardieri che hanno sganciato non debbono essere lontani, guardo in alto e dopo qualche secondo intravedo la sagoma scura di un aereo. Salgo per raggiungerlo, dopo circa un minuto la sagoma mi è più chiara, dalla forma dei piani di coda lo riconosco: è un bombardiere Wellington. Comunico l’avvenuta intercettazione al Maggiore senza dare ulteriori dettagli, non ne ho il tempo. Tolgo la sicura e armo le mitragliatrici e mi avvicino ulteriormente al bombardiere, stiamo volando sulla città e la contraerea apre il fuoco verso di noi, vedo i lampi delle granate con la spoletta a tempo esplodere attorno, esattamente alla nostra quota. Quando siamo tra la città e il Vesuvio vira a sinistra permettendomi di avvicinarmi ancora di più. Mi sto chiedendo come mai il mitragliere di coda non mi stia sparando, le fiamme degli scarichi mi rendono pericolosamente visibile. Sono oramai a poco più di una trentina di metri, collimo la torretta posteriore, sono sicuro di non mancarla da questa distanza, faccio partire una raffica con entrambe le mitragliatrici, vedo i proiettili entrare nella torretta e poi colpire l’ala sinistra. Qualcosa si stacca dall’aereo, sembra un pezzo dei piani di coda, altri colpi esplodono appena dietro al motore sinistro. Il bombardiere decelera e vira violentemente a sinistra. Lo perdo di vista, cabro e circuito per individuarlo nel buio della notte, un minuto più tardi scorgo un incendio al suolo che prima non c’era. Mi abbasso e guardando le fiamme capisco che si tratta di carburante che brucia, vedo anche lo scoppio delle munizioni e ho la certezza che è il bombardiere abbattuto. Con la radio comunico l’abbattimento e do la posizione approssimativa dell’impatto. Il Maggiore mi ordina di dirottare su Capua, Napoli è ancora sotto bombardamento, si congratula per il mio abbattimento e mi informa che l’aereo di riserva sta decollando per sostituirmi nel mio settore. Atterro alle 23.15, i due CR 42 del s.ten. Mainini e del serg. Purgotti atterrano più tardi mentre il CR 42 di riserva rimane a pattugliare fino al limite dell’autonomia; tutti atterrano a Capua. Dormiamo nell’infermeria dell’aeroporto e al mattino l’ufficiale medico che viene a svegliarci mi annuncia la conferma dell’abbattimento. Andiamo agli aerei, aiutiamo gli specialisti a rifornirli, ci presentiamo poi dal Comandante dell’Aeroporto per l’autorizzazione a partire e ringraziare dell’ospitalità. Ci saluta e si congratula per il buon lavoro svolto. Poiché sono il pilota più anziano il s.ten. Mainini mi autorizza a condurre la formazione. Esprimo il desiderio di andare a vedere il luogo dell’abbattimento prima di atterrare a Capodichino e il s.ten. Mainini acconsente. Decolliamo e dopo una quindicina di minuti siamo sul luogo dove grosso modo immaginavo potesse essere caduto l’aereo ieri notte. Individuo una macchia nera al suolo, rottami sparsi e qualcosa che poteva essere una fusoliera. Mi stacco dalla formazione, scendo e faccio un passaggio basso sopra i resti dell’aereo, sono soddisfatto per aver allungato la lista degli abbattimenti al mio attivo ma subito dopo mi assale un rimorso per la sorte dell’equipaggio, spero abbia avuto il tempo per lanciarsi. Risalgo e mi riporto in formazione e dirigiamo su Capodichino. Sentendo il rumore dei nostri motori i piloti e gli specialisti escono sul piazzale, ci vengono incontro e quando spegniamo i motori circondano gli aerei, vogliono congratularsi. Tra loro c’è il magg. Foschini e il cap. Caruso: mi chiamano vicino e mi stringono la mano, il Maggiore dice che intende propormi per una medaglia di bronzo. Mi reco nell’Ufficio del Maggiore e redigo il rapporto, quando ho finito chiedo notizie dell’equipaggio del bombardiere “Il Comandante e il copilota sono entrambi all’ospedale di Nola”, mi risponde, “Gli altri quattro membri dell’equipaggio sono morti, due sono rimasti nell’aeroplano, un altro, probabilmente il radiotelegrafista, è stato trovato vicino all’aereo, senza bruciature sul corpo o sui vestiti ma con le gambe tranciate dalle lamiere, morto dissanguato. Il mitragliere di coda è stato trovato a un chilometro dall’aereo, probabilmente si è lanciato ma il paracadute non si è aperto ed è caduto su un muro di pietra”. Tra di me penso che sarebbe stata una vittoria migliore se tutto l’equipaggio si fosse salvato. Chiedo al Maggiore “Mi farebbe piacere andare a visitare i piloti in ospedale. È possibile?”, e lui “Te lo faccio sapere domani verso le 11. Ora vai a riposarti!”. Lo ringrazio, saluto ed esco dall’ufficio, vado nella mia camera, faccio la doccia, mi rado e attendo che arrivi l’ora di pranzo. Alla mensa i piloti e gli specialisti si alzano per congratularsi e mi applaudono, mi sento un po’ a disagio, ringrazio e vado al mio posto. Verso la fine del pranzo il m.llo Presidente dei Sottufficiali fa portare alcune bottiglie di spumante, sono offerte da una ditta di vini napoletana per festeggiare l’avvenimento. Mentre sono al bar del Circolo l’Ufficiale di giornata viene a chiamarmi, debbo recarmi al Circolo Ufficiali: alcuni gerarchi fascisti vogliono conoscermi. Sono accolto dal magg. Foschini e dal Comandante dell’aeroporto, il col. Lubelli, che mi presenta alle autorità. Il Prefetto di Napoli si congratula, mi porge un cronometro e mentre mi stringe la mano aggiunge “Una testimonianza della riconoscenza dei cittadini per la vostra opera di difesa dei cieli di Napoli”. Lo ringrazio, chiede poi dove sono nato. “Negli Stati Uniti”, rispondo, e lui “Un americano?… Ah, si, si!”, e sorride incredulo. Chiede poi di visitare gli aerei e il col. Lubelli lo accompagna mentre io torno nella mia cameretta. Mi cambio e lascio l’aeroporto, vado al cinema e ritorno presto, sono di servizio notturno. Indosso la tuta di volo invernale, mangio qualcosa al bar e vado alla baracca riservata agli equipaggi in turno d’allarme. Abbiamo appena iniziato a giocare a bridge che scatta l’allarme. Il Maggiore mi ordina di rimanere di riserva a terra e assegna agli altri piloti i rispettivi settori: il mio, quello della notte precedente, va al cap. Caruso. Decollano e dopo un’ora e mezza l’allarme cessa e viene dato l’ordine di rientrare a Capodichino. Il magg. Foschini manda a riposare i piloti appena rientrati mentre il ten. Ricci e io rimaniamo ancora di allarme; ci autorizza a dormire con le tute addosso. Il resto della notte trascorre tranquillo e all’alba ci ritiriamo nelle nostre stanze. Il capitano Caruso rimane con noi ancora un paio di giorni, poi torna a Roma e presenta il suo rapporto al Comandante di Gruppo, il magg. Ricci.

LA VISITA ALL’EQUIPAGGIO DEL WELLINGTON ABBATTUTO 
Il mattino seguente il tenente Weiss mi assegna due voli con dei piloti appena giunti dalla Scuola di Volo. Verso mezzogiorno uno degli avieri addetto alla mensa Ufficiali mi informa che il magg. Foschini ha chiesto che lo raggiunga dopo il pranzo, al bar del Circolo Ufficiali. Indosso l’uniforme con il trench, mi sembra che stia per piovere. Al bar il Maggiore mi sta attendendo e mi invita a salire sull’autovettura di servizio del Comando. Un’ora dopo siamo all’ospedale civile di Nola, ora “militarizzato”, e chiediamo di essere ricevuti dall’Ufficiale medico, Direttore dell’ospedale. L’Ufficiale comprende subito il motivo della visita e chiede chi di noi ha abbattuto il bombardiere. Il Maggiore mi indica e poi chiede se è possibile incontrare i due dell’equipaggio. Il Direttore ci informa che uno è piuttosto grave, ha ustioni di terzo grado al viso e alle mani ma dovrebbe cavarsela, l’altro ha soltanto una leggera ferita sulla testa ed è in grado di muoversi. Ci accompagna verso una camera piantonata da un carabiniere. Entriamo, mi rivolgo ai due in inglese e mi presento; chiedo loro come stanno e se sono al corrente della sorte del resto dell’equipaggio: gli è stato detto che sono tutti deceduti. Rispondo che sono spiacente e che se desiderano qualcosa di dirmelo, lo riferirò all’Ufficiale medico. Mi dicono che sono curati e trattati bene, fanno due semplici richieste che traduco al Direttore. Chiedo i loro nomi e se desiderano scrivere una lettera alle famiglie; col permesso del Maggiore, le inoltrerò per il tramite della Croce Rossa Internazionale. Il Comandante del bombardiere è Donald Frederick, di Londra, Middlesex, il copilota è John Miller originario della Malesia, gli altri componenti dell’equipaggio deceduti sono il serg. motorista Arthur Pyle, i serg. William Poole e Asenua, entrambi mitraglieri, e il radiotelegrafista Abbott. Uno dei due mi mostra il telegramma che ha ricevuto dalla sua futura moglie prima della missione, doveva essere il suo ultimo volo e sarebbe rientrato in patria per sposarsi. Il Comandante inglese mi chiede se sono stato io ad abbatterli e con quale tipo di velivolo. È sorpreso, dice che la Royal Air Force considera il CR 42 obsoleto, rispondo che lo pensiamo anche noi e che avremmo dovuto avere i Re 2000 o i Macchi MC 202. Chiedo come mai il mitragliere di coda non mi ha individuato mentre mi avvicinavo, avrebbe dovuto notare le fiamme dei miei scarichi sprovvisti di “coprifiamma”. Risponde il Comandante: “Il mitragliere non si aspettava attacchi notturni e deve essere stato distratto dall’eruzione del Vesuvio che lanciava lapilli incandescenti. Improvvisamente dentro la fusoliera c’è stata una pioggia di proiettili che hanno colpito il mitragliere e l’operatore radio. Contemporaneamente ho perso il controllo dell’aereo, i comandi erano parzialmente bloccati, era stato danneggiato l’equilibratore di coda. Il motore sinistro, colpito dai proiettili, si è fermato e il carburante fuoriuscito dall’ala ha preso fuoco. Ho dato l’ordine di abbandonare l’aereo ma l’aereo ha cominciato a inclinarsi e nel buio totale, in mezzo al fumo, trovare le uscite era impossibile. Ho cercato allora di controllare l’aereo che continuava a perdere quota e virava a sinistra. Fortunatamente siamo finiti in una zona priva di ostacoli, ho cercato di attenuare l’impatto con il suolo ma comunque l’aereo si è disintegrato. Il copilota e io siamo stati catapultati fuori dai rottami. L’operatore radio è riuscito ad abbandonare l’aereo in fiamme ma poco dopo è morto dissanguato. Il mitragliere è rimasto tra i rottami. Degli altri non ho notizie precise, ma comunque mi hanno detto che sono tutti morti”. Traduco tutto al Maggiore facendogli notare che la versione del Comandante differisce da quella che risulta a noi, cosa del resto comprensibile. Mi informo se hanno sigarette, mi rispondono che le hanno terminate. Chiamo l’infermiere e gli chiedo se qualcuno può andare ad acquistare alcuni pacchetti allo spaccio, si offre di andare lui stesso e gli do i soldi. Nel frattempo chiedo ai due di scrivere su un foglio un messaggio da far pervenire alle famiglie che, come promesso, consegneremo alla Croce Rossa. Guardo il Maggiore che approva e aggiunge che ovviamente non vi debbono essere informazioni di carattere militare. Quando arriva l’infermiere con le sigarette li salutiamo e lasciamo l’ospedale.

L’ATTACCO A PEARL HARBOUR 
Torniamo a Capodichino sotto un forte rovescio, nella mia cameretta scrivo a mio fratello e a mio padre. Non ci sono incursioni su Napoli per il resto della settimana. L’11 dicembre 1941, sono di allarme e sto giocando a carte nella baracca dei sottufficiali, la radio interrompe la trasmissione, l’annunciatore chiede l’attenzione di tutti e con una eccitazione crescente annuncia l’attacco giapponese a Pearl Harbour, il bombardamento degli aeroporti di Honolulu e i devastanti danni causati alla flotta americana. Dopo una pausa aggiunge che l’Italia, la Germania e il Giappone hanno dichiarato guerra agli Stati Uniti. Sono scioccato, non riesco a dire nulla, lascio cadere le carte e mi alzo per ritirarmi nella mia cameretta. I colleghi capiscono il mio imbarazzo e restano in silenzio fissandomi. Il maresciallo Papi si alza anche lui e mi segue fuori dalla baracca, cerca di tranquillizzarmi: “Mussolini sta commettendo un grosso errore nel dichiarare guerra agli Stati Uniti”, dice, “Moltissimi italiani sono emigrati in America e l’America si è dimostrata in molte occasioni sincera amica dell’Italia. Non capisco proprio!”. Il m.llo Papi è un caro amico e mi è affezionato, pochi giorni dopo morirà per un improvviso attacco cardiaco mentre giochiamo a carte. In Nord Africa, dopo il successo iniziale, le cose si mettono male per le truppe dell’Asse; il 25 dicembre l’8ª Armata britannica entra a Bengasi, i Reparti italiani sono tagliati fuori a Sollum e Bardia.

IL 1942, L’INCONTRO CON MARIA 
Con l’inizio del 1942 la 303ª Squadriglia Autonoma Caccia Notturna, la mia Squadriglia, è trasferita a Capua mentre il magg. Foschini parte per il fronte russo. Sembra che il mio vecchio Gruppo, il 22°, sarà avvicendato dal 21° Gruppo e si trasferirà a Capodichino dove gli verranno assegnati i RE 2001 “Falco”. Il nuovo Comandante del 22° Gruppo è il magg. Vittorio Minguzzi. In Africa Orientale Italiana, nella primavera dello scorso anno, l’Etiopia è caduta in mano inglese nonostante la strenua resistenza delle nostre truppe. Sua Altezza Reale il Duca d’Aosta ha ricevuto l’onore delle armi passando in rivista le truppe britanniche ed è stato internato in un campo di prigionia in Kenya, insieme ai suoi soldati. Improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, giunge la notizia che il Duca è morto il 3 marzo per tubercolosi. Nelle sue ultime volontà ha chiesto di essere sepolto insieme ai suoi soldati, vicino a Nairobi. In luglio mi giunge l’ordine di frequentare il corso di Volo Strumentale alla “Scuola di Volo senza Visibilità” al Centro Addestramento dell’aeroporto di Latina. Il corso inizia il 7 luglio e termina il 4 agosto, oltre alle lezioni teoriche ci sono diverse missioni di volo strumentale con il Saiman e con l’FN 305, per un totale di 18 ore. Ho come istruttori di volo il ten. Baracchini e il ten. Di Gaetano e come esaminatori il magg. Ottaviani e il magg. Donno. Il Comandante del Reparto è il magg. G. B. Vassallo. Al mio ritorno ho due giorni di licenza, ne approfitto per andare alla spiaggia a Napoli insieme ad un paio di colleghi della mia vecchia Squadriglia. Sto prendendo il sole sulla battigia quando sento una ragazza chiedere aiuto. È in acqua a pochi metri dalla spiaggia, mi butto e dopo poche bracciate le sono a fianco e l’aiuto a ritornare a riva. Si siede sulla sabbia, mi ringrazia, aveva un crampo alla gamba e non riusciva a muoverla, gliela massaggio e le dico di riposarsi. Mi complimento con la ragazza per non aver perso la calma nonostante i forti dolori. Arrivano alcuni suoi amici, chiedono cosa sia successo, la ragazza continua a massaggiarsi la gamba e risponde che ha avuto un crampo e io l’ho aiutata a uscire dal mare. È molto carina, ha dei bei lineamenti e gli occhi scuri. Sua sorella la chiama per nome e le porge un asciugamano per asciugarsi i capelli. “Allora si chiama Maria?”, chiedo sorridendo, e lei annuisce. Mi presento e mi siedo sulla sabbia accanto a lei e ai suoi amici. Mi chiedono che cosa sto facendo a Napoli, spiego che sono Sottufficiale pilota della Regia Aeronautica di base a Capua nella Squadriglia della Caccia Notturna. Maria mi ascolta attentamente mentre spiego che il nostro compito è difendere Napoli dagli attacchi aerei nemici. Conversiamo ancora un po’ e poi Maria e la sorella si alzano, è ora di tornare a casa, dicono. Saluto tutti e poi mi rivolgo a Maria: “Se non sono indiscreto, sarebbe possibile rivederla ancora? Vengo a Napoli ogni terzo giorno, quando non sono in servizio”, e lei sorridendo risponde “Certamente!”. Tutti i giorni liberi vado alla spiaggia ma non incontro mai Maria. Siamo oramai a metà agosto e la stagione balneare sta per chiudersi, il tempo sta cambiando. Sono convinto che non avrò più l’occasione di rivedere la ragazza carina che ho conosciuto e invece, mentre sto passeggiando sulla battigia, la vedo insieme a un’altra giovane. È sorpresa di incontrarmi e mi presenta la sua compagna, è sua cugina e le assomiglia molto. Ci sediamo sulla sabbia e conversiamo, poi io faccio un bagno e quando ritorno Maria mi porge il suo asciugamano. Invito entrambe al bar, prendiamo qualcosa da bere e chiacchieriamo del più e del meno. La cugina si alza e va a fare un bagno, forse vuole lasciarci soli. Chiedo a Maria se ha un ragazzo. “Diversi”, mi risponde, “Ma nessuno mi interessa veramente”. “Capisco il motivo!”, rispondo, e lei “Perché?”. “Perché una ragazza carina come lei non può che avere tanti pretendenti e ha solo il problema di chi scegliere!”, aggiungo, lei sorride arrossendo. “Se non chiedo troppo”, continuo, “Vorrei conoscerla meglio e uscire insieme. Sono un ragazzo serio e se lo desidera posso presentarmi ai suoi genitori”. “I miei genitori sono all’antica, semplici e sinceri, lo vedrà lei stesso se deciderà di venire a conoscerli”, dice. Mi racconta che ha un fratello, Pasquale, che dovrebbe rientrare a giorni dal Nord Africa e due sorelle, una l’avevo già conosciuta precedentemente. La più giovane ha quattro anni meno di lei e si chiama Rita. Sua cugina esce dall’acqua e riprendiamo a conversare di Napoli e del mio lavoro. Prima di lasciarci confermo a Maria che veramente intendo conoscere i suoi genitori, fra tre giorni sarò libero e potrei venire a Napoli. Rimane qualche secondo in silenzio. “Se proprio lo desidera”, mi dice guardandomi seria, “Forse è meglio che ne parli prima con mio padre, non vorrei che la buttasse fuori di casa! Mia cugina Rosa la attenderà tra tre giorni a piazza Vittoria alle 14.30, se mio padre acconsentirà la accompagnerà a casa mia”.

A CASA DI MARIA, L’INCONTRO CON I GENITORI 
Tre giorni dopo scendo dal tram in piazza Vittoria, Rosa mi viene incontro sorridendo, tiro un sospiro di sollievo e ci avviamo verso la casa di Maria. Davanti all’ingresso incontro il Colonnello, Direttore dell’Istituto Medico Legale di Napoli, lo saluto, lui mi riconosce. “Cosa ci fate voi da queste parti?”, mi chiede, “Sono venuto a fare visita ad una famiglia che abita qui”, e lui “Che famiglia?”. “La famiglia Palumbo”, risponde per me Rosa. “Brava gente!”, aggiunge il Colonnello, mi batte affettuosamente sulla spalla e si allontana. Rosa suona il campanello, quando si apre la porta vedo una signora di mezza età, di bell’aspetto, che immagino sia la madre di Maria per la loro somiglianza; mi presento, si chiama Carolina Petirro. Veniamo invitati a entrare, mi presento e andiamo in salotto dove c’è Antonietta, la sorella che ho incontrato al mare: mi strizza l’occhio e mi saluta con un sorriso. Ci accomodiamo e dopo esserci scambiati qualche parola la madre mi chiede se gradisco un caffè e dice ad Antonietta di chiamare Maria che lo sta preparando in cucina: quando entra è un po’ imbarazzata, indossa i vestiti da casa e quando mi porge la tazzina del caffè mi dice che era convinta che non mi presentassi. Da un’altra stanza entra suo padre assieme alla sorella più giovane. Mi alzo e mi presento, il sig. Giovanni Palumbo è un uomo di bell’aspetto, si siede davanti a noi e mi chiede di dove sono, mi risponde che gli USA sono un Paese meraviglioso, se non amasse tanto Napoli da giovane anche lui ci sarebbe andato. Non so come iniziare a parlare di Maria e me, lui scioglie il ghiaccio dicendo di sapere che desidero fidanzarmi, ne hanno parlato tutti insieme questa mattina, la sorella gli aveva raccontato che ci siamo conosciuti per aver tirato fuori dall’acqua sua figlia. Spiego che, sebbene possa sembrare una follia dopo averla vista solo due volte, mi sono innamorato di lei. Le mie intenzioni sono sincere e se i suoi sentimenti nei miei confronti lo sono altrettanto sono sicuro che staremo bene insieme. I genitori sono rassicurati dalle mie parole e sorridono. Pasquale, il fratello che è da poco rientrato dall’Africa per una licenza, mi spiega che la loro situazione economica non è brillante, la guerra ha causato molti problemi. Il padre aggiunge che sono una famiglia modesta e la loro unica ricchezza è l’onestà, e che Maria è una brava ragazza. Si è fatto tardi, devo tornare a Capua. Saluto tutta la famiglia, Maria mi accompagna alla porta e mi saluta con uno smagliante sorriso. Fuori piove, per fortuna ho il mio trench, mi avvio verso la fermata del tram e ritorno alla base. Con Maria ci vediamo ogni tre giorni, racconto del mio amore di Trieste, per una ragazza bella ma malata che ha tenuto per sé il suo male senza mai dirmelo, della sua morte per leucemia prima del mio ritorno dalla Spagna. Mi ascolta in silenzio, quando finisco esclama “Povera ragazza!”. Non colgo nessun segno di gelosia in lei.

IL CAPRONI  FABRIZI F5 ED F6 
I mesi successivi passano veloci, continua l’addestramento dei piloti che debbono essere inviati al fronte. In settembre effettuo una mezza dozzina di voli di addestramento notturno con l’ausilio delle fotoelettriche di terra. Ci sono anche un paio di partenze su allarme durante le ore notturne per intercettare i bombardieri che effettuano le incursioni su Napoli. Non si consegue alcun risultato a causa delle sfavorevoli condizioni meteorologiche. La nostra Squadriglia ha ricevuto già da maggio i Caproni Vizzola F5 e anche un F6, impiegati per la Caccia Notturna in sostituzione dei CR 42; quest’ultimi saranno utilizzati come bombardieri in picchiata con scarsi risultati. L’F5 è un aereo con motore stellare, più veloce dell’MC 200, mentre l’F6, con il motore in linea Daimler-Benz DB601, è molto più veloce ma più pesante e quindi meno manovrabile. Entrambi hanno l’ala con i nuovi profili “variabili”. Il 26 ottobre effettuo il mio primo volo con un F5 ma non lo trovo adatto alla Caccia Notturna. Provo anche l’F6, è più veloce ma le armi si inceppano dopo pochi colpi. È un difetto di progettazione al quale non si può rimediare, il nastro si inceppa tra il serbatoio delle munizioni e la mitragliatrice, non c’è sufficiente spazio tra la radice dell’ala e la fusoliera e il percorso dei proiettili è troppo angolato. 
La città è circondata da batterie antiaeree e da fotoelettriche, per lo più germaniche e, sempre in ottobre, mi viene chiesto di effettuare alcuni voli notturni per permettere agli addetti alle fotoelettriche di esercitarsi. Sono ben addestrati, riescono a localizzarmi subito e non mi mollano fin quando non mi nascondo dietro al Vesuvio. Per indirizzare le fotoelettriche utilizzano unità mobili con apparati radioelettrici ad altissima frequenza che localizzano gli aerei in avvicinamento. Questi voli con le fotoelettriche mi fanno tornare alla mente quando ero ragazzino e City Island; l’Aviazione americana si esercitava allo stesso modo. Andavo in un angolo buio della spiaggia e mi godevo lo spettacolo: le fotoelettriche erano piazzate a Fort Solcum vicino a New Rochelle, Port Washington e Fort Totten. Sono passati solo dieci anni e ora al posto di quei piloti che mi stupivano e che ammiravo ci sono io, chi l’avrebbe mai immaginato? Siamo in novembre. Il tempo è pessimo, ci sono continui rovesci, il campo è allagato, l’attività di volo è ridotta al minimo. Effettuo in tutto sei partenze su allarme notturno e una “crociera di vigilanza” sul campo, con l’F5 e l’F6. Maria e io abbiamo comunicato ai suoi genitori l’intenzione di sposarci il 31 gennaio del 1943, loro hanno accolto felici la nostra decisione. In dicembre l’attività è ridotta, non volo e, aiutando gli specialisti a spostare una cassa, mi procuro un infortunio che mi costringe ad andare in infermeria. Sono immobilizzato per alcuni giorni, il 7 dicembre debbo presentarmi all’IML di Napoli per una visita straordinaria e mi fanno “non idoneo al volo” per 30 giorni. Posso comunque continuare il servizio per attività “non di volo”. Il 12 dicembre il cap. Cavagna mi informa che il Colonnello vuole vedermi dopo pranzo, penso che si tratti della mia richiesta di matrimonio. Quando entro nell’ufficio mi fa sedere, mi chiede degli anni trascorsi negli USA e dei miei familiari. Gli racconto di mio padre che vive a New York e di mio fratello, arruolato nei Marines, che si trova nella base americana delle Bermude. Ha sulla scrivania la mia cartella, la sfoglia e poi alza gli occhi: “Una lettera che hai spedito a tuo fratello è stata sottoposta a censura e inviata al Ministero dell’Aeronautica. Si è ufficializzata la tua anomala posizione quale originario statunitense in servizio nell’Aeronautica. Il Ministero ha ordinato il tuo trasferimento al Centro di Addestramento Caccia Notturna di Treviso e l’allontanamento dalla zona di combattimento per evitarti l’imbarazzo di eventuali confronti con gli aerei americani… Caro Patriarca, hai un ottimo stato di servizio e una notevole esperienza di volo nell’acrobazia, nell’addestramento e in combattimento, hai partecipato a diverse Campagne, provieni da uno dei più famosi Stormi… Purtroppo questi sono gli ordini, ne sono molto dispiaciuto”. Sono colto di sorpresa da questa decisione e amareggiato: “Se ho ben capito, Signore, sono trasferito perché sono nato e vissuto negli USA e i miei familiari sono tuttora lì?”, domando, e il Colonnello con un movimento del capo mi conferma quanto penso. Gli parlo della mia domanda di autorizzazione per il matrimonio e mi dice che mi sarà fatta pervenire laddove starò prestando servizio e di non preoccuparmi. Il Colonnello mi manda in Squadriglia a rapporto dal Capitano che mi darà le istruzioni e i documenti di trasferimento, già pronti e firmati. Vado nell’ufficio della mia Squadriglia, busso, entro, il Capitano è seduto dietro alla scrivania, mi aspettava e mi porge i documenti. Sta in silenzio per alcuni secondi, sa che questo trasferimento non me lo aspettavo, sembra dispiaciuto e imbarazzato, mi dice soltanto “Auguri Patriarca!” e mi porge la mano. Ricevo l’ordine di muovermi entro 24 ore. Mi sto convincendo che tutto sommato questo trasferimento non è poi così male: posso portare Maria con me e non correrò il rischio di dover combattere contro aerei americani, non so se avrei il coraggio di fare fuoco. Il mio pensiero va ai colleghi che lascio, a quello che li aspetta in primavera, quando gli USA invieranno truppe e aerei su tutti i fronti e l’Italia difficilmente sarà in grado di affrontarli, anche opponendosi con tutto il valore dei suoi migliori piloti. Raccolgo le mie cose, riesco ad andare a salutare Maria e i suoi, racconto del mio repentino trasferimento e assicuro che sarò di ritorno per fare Natale insieme. Dico loro che non devono preoccuparsi per me, sono destinato a una Scuola di Volo. Maria mi accompagna alla stazione e quando il treno si muove mi sento improvvisamente solo, è la prima volta che mi allontano tanto da lei.

A TREVISO ALLA CACCIA NOTTURNA 
Arrivo a Treviso in ritardo a causa di due arresti del treno per allarmi aerei di velivoli americani diretti in Germania. In mattinata mi presento in aeroporto, il col. Secondo Revetria che avevo conosciuto a Campoformido comanda il “1° Nucleo Addestramento Caccia Notturna – Intercettori – 2° Reparto – 1ª, 2ª e 3ª Squadriglia”. Mi accoglie calorosamente e mi assegna alla 1ª Squadriglia comandata dal cap. Enrico Martino, anche lui una vecchia conoscenza: era Tenente nel mio vecchio Stormo, il 54°, quand’ero qui a Treviso nel 1940. Mi dice che è lieto di avermi nella sua Squadriglia, è al corrente del mio recente abbattimento del bombardiere inglese. I giorni trascorrono lentamente, sul campo l’attività di volo è praticamente nulla a causa della situazione meteorologica e della scarsità degli allievi da addestrare. La distanza da Maria si fa sentire, mancano cinque giorni a Natale e chiedo qualche giorno di licenza al cap. Martino per preparare i documenti per il matrimonio, gli dico che a giorni dovrebbe arrivarmi l’autorizzazione dal Ministero. Risponde che si occuperà lui di chiedere la licenza al Comandante del Nucleo. Il giorno dopo il Capitano mi chiama e mi comunica che è riuscito a farmi avere dieci giorni di licenza, i documenti saranno pronti prima delle 18, devono essere firmati dal Colonnello. Lo ringrazio, farò in tempo a prendere il treno delle 23, quello che il cap. Martino prende quando va a Roma: è più sicuro viaggiare di notte a causa delle incursioni aeree! Ritiro i miei documenti, saluto i compagni di Squadriglia e auguro a tutti un felice Natale. Alle 23 sono in treno e ringrazio il cielo che il tempo è cattivo su tutta l’Italia, non c’è il rischio di bombardamenti e dovrei dunque arrivare in orario. Arrivo a Roma verso le 10 del mattino e il pomeriggio, alle 14, sono a Napoli.

IN LICENZA PREMATRIMONIALE A NAPOLI 
Prendo un taxi e in breve arrivo a casa di Maria. Antonietta mi vede scendere dal taxi e corre in casa ad avvisare la famiglia. Mi aspettano tutti sulla porta e quando arrivo sul pianerottolo Antonietta mi viene incontro e prende la mia valigia, Maria si avvicina e mi bacia, saluto poi i suoi genitori e le sorelle. La madre mi prepara qualcosa da mangiare, loro hanno già pranzato, sono tutti felici perché sia io che Pasquale trascorreremo il Natale insieme a loro. Devo trovare un posto dove sistemarmi, tutti gli alberghi sono occupati da soldati e ufficiali tedeschi; i genitori dicono che posso dormire nella camera insieme a Pasquale. Il giorno dopo con Maria vado a chiedere informazioni per il matrimonio: in Curia ci dicono che servono alcuni documenti dagli USA, necessari per il rito religioso. Per il rito civile tutto è più facile, i documenti possono essere rilasciati dal Municipio e dal Tribunale, servono solamente tre testimoni. Il giorno dopo non c’è modo di uscire perché il tempo è pessimo e ci mettiamo a giocare a carte e ascoltiamo la radio. Finalmente il tempo migliora e usciamo per procurarci i documenti. La città è affollata e caotica, arriviamo al Comune, anche qui è pieno di gente e c’è una confusione indescrivibile. Sono in uniforme e vado da un capoufficio, spiego la mia situazione e di cosa abbiamo bisogno, alla fine mi dice che potrò ritirare i documenti dopo tre giorni. Ritorniamo in Curia, devo dare un mucchio di spiegazioni, serve l’atto di battesimo dagli Stati Uniti ma con la guerra in atto i tempi sono lunghi. Torniamo a casa stanchi e contrariati dopo quattro ore trascorse nei pubblici uffici: è stato come passare quattro ore in manicomio, tutto è assolutamente disorganizzato. Vado a prendere l’ultimo certificato al tribunale, al casellario giudiziario, è stato rilasciato dalla Corte di Cassazione di Roma perché sono nato all’estero. Trascorsi tre giorni ritiriamo i documenti e li portiamo all’ufficio matrimoni del Municipio dove un impiegato dopo aver trascritto tutto ci fa firmare su un registro, dice che saremo sposati civilmente quando ritornerà col registro dei matrimoni firmato dal sindaco o dal suo rappresentante. Potremo sposarci in chiesa quando arriverà il certificato richiesto negli USA: solo allora saremo marito e moglie a tutti gli effetti. Portiamo i documenti nella parrocchia dove ci sposeremo per far affiggere le pubblicazioni. A casa di Maria i genitori sono in cucina, stanno preparando il pranzo di Natale. Il padre è un esperto cuoco, ha lavorato per diverse famiglie di nobili napoletani e per la casa di Sua Altezza Reale la Duchessa d’Aosta madre. Malgrado il razionamento stanno preparando un pranzo “da re”, non capisco dove abbiano scovato tutto questo ben di Dio. Ci sediamo a tavola alle 15 e alle 22 siamo ancora lì. Le donne sparecchiano e lavano una montagna di stoviglie. Giochiamo a tombola fino a mezzanotte e poi andiamo tutti a messa. In chiesa rimango sveglio soltanto perché Maria ogni tanto mi dà qualche colpetto, altrimenti cadrei dalla sedia. Al mattino Pasquale e io ci alziamo per primi per non restare in casa quando vengono fatte le pulizie domestiche. Andiamo alla villa comunale, in via Caracciolo, e ci sediamo su una panchina a prendere il sole. Pasquale mi dice di essere stato fortunato a ottenere questa licenza: il suo Reggimento è destinato al fronte in Nord Africa, non lo ha detto a nessuno della famiglia. “Non credo che ti manderanno in Nord Africa”, gli dico, “Da come vanno le cose la guerra sta arrivando in Italia, le truppe dell’Asse si ritirano, fra poco dovranno lasciare l’Africa. Gli americani avanzano in Marocco, gli inglesi e gli australiani hanno occupato la Libia. La nostra flotta da battaglia è al sicuro nei porti. Le poche volte che è entrata in contatto con la flotta inglese ha avuto la peggio e inoltre gli inglesi ci hanno inferto un duro colpo con i loro aerosiluranti a Taranto. I nostri piloti sono ben addestrati ma non hanno mezzi all’altezza di quelli del nemico e per di più il rapporto numerico è a nostro sfavore. Solamente i nostri aerosiluranti hanno dato filo da torcere alla flotta inglese”. Pasquale mi chiede cosa penso succederà. “La guerra è stata persa il giorno stesso che Italia e Germania l’hanno dichiarata agli USA”, rispondo, “Io sono un soldato e combatterò contro qualsiasi nazione mi venga ordinato, ma mi considero anche americano e per me sarebbe molto difficile farlo contro gli USA. Non so come mi comporterei!”. Torniamo a casa, il pranzo di Natale sembra eterno! Quando è finito andiamo al cinema, non vedo granché del film perché non faccio che assopirmi. Il giorno dopo con Maria e Antonietta accompagniamo Pasquale alla stazione, prima di salire sul treno mi dice di aver cura di sua sorella. Quando torniamo a casa sua madre ha gli occhi rossi, si capisce che ha pianto ma non vuol farlo vedere. Il giorno dopo tocca a me partire. Preparo la valigia, dopo pranzo Maria mi accompagna fino alla stazione della metropolitana di piazza Amedeo. Le dico di tornare a casa, la stazione centrale potrebbe essere obiettivo di un bombardamento nel caso di un’incursione aerea. Ci baciamo, quando si allontana la seguo con lo sguardo finché non gira dietro l’angolo. Alla stazione prendo il treno per Roma, dove cambio per Venezia. Dormo quasi tutta la notte, il vagone è semivuoto per via delle frequenti incursioni aeree che provocano ritardi. Tutto fila liscio, sono a Venezia prima delle sei di mattina e arrivo a Treviso verso le nove.

IL RITORNO A TREVISO 
Trovo un passaggio da un mezzo militare che trasporta la mensa della truppa. Quando arrivo in aeroporto c’è la fila di avieri davanti all’Ufficio Personale che attendono di ritirare la lettera di licenza, li saluto e auguro loro un felice anno nuovo. Dopo il pranzo vado all’Ufficio Comando, chiedo se è arrivata dal Ministero la mia autorizzazione al matrimonio: non c’è traccia! Passo il Capodanno al Corpo di Guardia con l’Ufficiale di picchetto e gli avieri, uno di loro ha portato una torta da casa, vado a prendere due bottiglie di spumante al circolo Sottufficiali prima che chiuda e brindiamo al nuovo anno. In aeroporto non c’è molto da fare e così pure all’esterno: a causa della guerra i civili hanno ben poco da festeggiare. Allo scadere dei 30 giorni della “non idoneità al volo”, il 10 gennaio 1943 sono di nuovo a Napoli per la visita medica all’IML: sono fatto idoneo e il giorno stesso riprendo il treno per Treviso. Siamo arrivati al 14 gennaio, le squadriglie sono al completo, tutti i piloti sono rientrati già da una settimana dalla licenza ma non voliamo dal giorno del mio ritorno da Napoli. Quando si riprende l’attività, cerco di farmi assegnare possibilmente dei voli nelle ore diurne. D’inverno a Treviso le condizioni meteorologiche spesso non permettono di volare e allora andiamo in aula per l’istruzione teorica. Il 18 gennaio, quando scendo dall’MC 200 dopo un volo in coppia con un allievo, il Tenente mi dice di mettermi a rapporto dal cap. Martino. Entro, mi fa sedere e mi porge una lettera del Ministero dell’Aeronautica, c’è ancora l’indirizzo del mio vecchio Gruppo di Roma. Dopo aver girovagato per l’Italia finalmente è arrivata a destinazione: è l’autorizzazione a sposare la signorina Palumbo Maria, c’è anche la lettera di licenza di 20 giorni. Il Capitano mi chiede quando ho fissato la data e poi aggiunge di sua iniziativa cinque giorni di licenza: “È il mio regalo di matrimonio!”, mi dice facendomi gli auguri. Mi reco al Comando, all’Ufficio del Personale ed incontro il col. Revetria che mi chiama nel suo ufficio: ha appena firmato i miei documenti, mi parla degli USA, vi è stato diverse volte prima della guerra e gli piacciono gli americani. Porgendomi i documenti mi stringe la mano e mi fa gli auguri. Vado a salutare il cap. Martino, anche lui mi fa gli auguri e aggiunge “E vedi di riposarti… al tuo ritorno ci sarà parecchio da lavorare!”.

A NAPOLI PER IL MATRIMONIO 
Ci vogliono due giorni per raggiungere Napoli a causa delle incursioni aeree che bloccano i treni, e all’arrivo sono distrutto. Vado ai Bagni Pubblici per rimettermi in sesto con un bagno caldo prima di arrivare a casa di Maria. Nessuno si aspettava di vedermi e Maria è imbarazzata perché sta riassettando la casa ed è in vestaglia. Arrivano anche i genitori e mi annunciano che tutto è pronto per il nostro matrimonio, hanno spedito un telegramma al Reggimento di Pasquale nella speranza che gli concedano una licenza. I festeggiamenti dopo il matrimonio si terranno a casa delle zie che hanno due grandi stanze perché non ci sono alberghi liberi, sono stati tutti requisiti dai tedeschi. Vado in aeroporto a Capodichino e invito due vecchi amici a farmi da testimone di nozze, sono Marcello Baccara e Giuseppe Monti, quelli della sposa sono due fratelli di sua madre. Il 31 gennaio la cerimonia in chiesa è sfarzosa, compatibilmente con i tempi che corrono. Quando usciamo dalla chiesa ci lanciano i confetti e ci scattano foto, andiamo a casa delle zie dove inizia il pranzo e poi si balla. Arriva l’ora di andare a prendere il treno, è la prima volta che Maria si allontana da casa. Partiamo per Roma dove ci fermiamo due giorni, proseguiamo per Firenze, Bologna, Venezia e Trieste. Andiamo poi a Gorizia, le faccio conoscere i luoghi dove ho trascorso i più bei giorni in Aeronautica. Passiamo infine per Treviso per farle vedere dove sono attualmente in servizio e dove verrà a vivere. Stiamo via per due settimane e infine torniamo a Napoli dove trascorriamo gli ultimi tre giorni di licenza. Prima di partire dico a mia moglie di tenersi pronta, perché quando tornerò sarà per portarla con me a Treviso, nel frattempo cercherò un appartamento libero.

A TREVISO 
Il 26 febbraio sono di nuovo a Treviso e mi metto a rapporto per riprendere il servizio. L’addestramento dei nuovi piloti al volo notturno viene effettuato con CR 30 e Ro 41, entrambi a “doppio comando”. Incontro qui a Treviso un vecchio amico del 4° Stormo, il m.llo Alberto Carini, e anche il m.llo Giardini, tutti e due istruttori. Il cap. Martino mi assegna cinque allievi che debbono effettuare il passaggio sul Re 2000. Questo è un aereo nuovo anche per me e pertanto debbo prenderci la mano e fare qualche ora di volo. Effettuo il primo decollo il 4 marzo. Il Re 2000 è costruito dalla Reggiane ed è un monoplano ad ala bassa di costruzione interamente metallica, dalla caratteristica ala a forma semiellittica, progettato dagli ingegneri Longhi e Alessio, con motore Piaggio P-XI che gli consente di raggiungere i 530 km/h: assomiglia ai Repubblic P 35 o P 36 costruiti da de Seversky. Vado in volo, mi sembra un buon caccia ma non ha avuto fortuna, è stato costruito un numero limitato di esemplari, gran parte dei quali consegnati all’Ungheria, l’Italia non li ha voluti per i serbatoi del carburante in posizione non protetta e non autostagnanti. Il 6 marzo vado in volo con il cap. Simoni per un volo notturno d’ambientamento con il CR 30. L’addestramento si effettua sia di giorno che di notte, quando il tempo lo permette, con i piloti assegnati alla caccia notturna. Oltre al Re 2000 si vola con il Re 2001, l’FN 305, il Saiman 202, il Ro 41, il CR 30, il CR 42, l’MC 200, il G 50 e il Bucker, quest’ultimo usato come velivolo di collegamento e addestramento. Quando i piloti terminano il ciclo d’addestramento al volo notturno vengono assegnati a un Reparto operativo.

L’ARRIVO DI MARIA A TREVISO 
Trovo finalmente un piccolo appartamento e chiedo al Capitano tre giorni di licenza per andare a prendere Maria e portarla qui a Treviso. Il pomeriggio del giorno successivo sono a Napoli, quando arrivo a casa di Maria le dico di preparare subito i bagagli, dobbiamo essere a Treviso al più presto. Le racconto che ho trovato un appartamento in comune con i padroni di casa, della brava gente! Avremo una nostra camera mentre la cucina servirà a entrambi. Dopo un paio d’ore le valigie di Maria sono pronte. Ceniamo con tutta la famiglia. Chiedo di Pasquale, si trova a Firenze in un campo di addestramento. Mentre ascoltiamo la radio suona l’allarme, dobbiamo scendere di corsa e correre al rifugio, c’è un’incursione aerea sul porto che dura quasi un’ora. Torniamo a casa e andiamo tutti a letto sperando di non essere svegliati da un altro allarme. Il giorno dopo Antonietta e la sorella minore ci accompagnano alla stazione ferroviaria. Ho acquistato i biglietti per un treno rapido, anche se costa un po’ di più; a Roma prendiamo il treno per Venezia e arriviamo a Treviso prima di mezzogiorno. Prendo l’unica auto pubblica della stazione e ci facciamo portare alla nuova casa. Quando i proprietari, i signori Rocchi, ci vedono arrivare vengono ad aiutarci con i bagagli, presento Maria e loro ci mostrano la nostra camera. Disfiamo i bagagli e poi usciamo, desidero far conoscere Treviso a Maria. Alla sera scendiamo per andare al ristorante, i padroni di casa ci chiedono dove stiamo andando, alla mia risposta ci invitano a togliere i soprabiti e sederci a tavola con loro. La signora Rocchi ha preparato da mangiare per tutti. Il marito intrattiene Maria parlando in napoletano e ci fa ridere. La signora ci serve un brodo di gallina squisito e coniglio arrosto con la polenta. Siamo sorpresi per tanta cordialità e ospitalità e li ringraziamo.

DI NUOVO IN SQUADRIGLIA 
Il giorno dopo sono di nuovo in servizio e incontro il cap. Martino, ha saputo del bombardamento su Napoli ed era preoccupato per me, mi chiede se ho sistemato mia moglie. Poiche’ le condizioni meteorologiche sono buone, mi dice di fare il passaggio a due allievi sul Reggiane 2001, il velivolo adottato dalle nostre Squadriglie di Caccia Notturna. Durante il secondo volo, il 31 marzo, debbo rientrare dopo 10 minuti per una perdita di fluido dell’impianto di raffreddamento del motore e il cap. Martino mi dà il pomeriggio libero, debbo ritornare alle 17.00 se le condizioni meteo consentiranno il volo notturno. A casa Maria sta mettendo in ordine le nostre due stanze. La ferrovia è a pochi metri da casa, vedere il treno che passa le dà l’impressione di essere più vicina alla sua Napoli e a volte sta alla finestra ad attendere che passi. Alle 16.30 prendo la bicicletta e torno in aeroporto. Il Capitano mi dice di rientrare a casa poiche’ il Colonnello teme che l’aeroporto possa essere bersaglio degli aerei alleati che ci sorvolano ad alta quota e vanno a bombardare la Germania. Dopo cena esco con Maria per farle conoscere Treviso, entriamo in un bar frequentato dai piloti. Incontro alcuni colleghi e li presento, sono allegri ma un po’ invadenti. Al nostro ritorno troviamo il padrone di casa, il signor Rocchi, che sta ascoltando Radio Londra. Le cose stanno andando male, anzi molto male: Napoli che è stata bombardata, abbiamo perso diversi aerei e i loro piloti. Sono preoccupato e demoralizzato, ho combattuto due guerre a fianco degli italiani e non mi sono mai tirato indietro, lo sto facendo ora per la terza volta ma provo disagio nei confronti dei miei colleghi, degli amici: non posso combattere contro il Paese dove sono nato e vissuto fino al mio arrivo in Italia, dove vivono i miei genitori e mio fratello. L’attività di volo è ridotta a causa della scarsezza di carburante, insieme ad altri piloti ricevo l’ordine di prelevare alcuni aerei dalle fabbriche e consegnarli alle rispettive Squadriglie. Il cap. Martino è trasferito allo Stato Maggiore a Roma, la 1ª Squadriglia è ora comandata dal cap. Zannier. Una sera di luglio siamo ospiti a cena dai signori Rocchi; ascoltiamo il giornale radio, c’è il controllo sui comunicati ma si intuisce che le cose non debbono andare molto bene per le nostre truppe. Ci spostiamo sulle onde corte, anche se non sarebbe permesso, e ci sintonizziamo sulla BBC: gli Alleati hanno stabilito una testa di ponte in Sicilia e hanno raggiunto Vittoria, una cittadina vicino a Ragusa, all’interno della costa meridionale della Sicilia. Gioco a carte col signor Rocchi fino a quando arriva l’ora di andare al letto, ci diamo la buonanotte e li ringrazio ancora per la meravigliosa cena. La situazione militare si va deteriorando di giorno in giorno, Mussolini e di Hitler si sono incontrati il 19 luglio a Feltre, in provincia di Belluno. I risultati dell’incontro sono segreti. Secondo alcuni Mussolini intendeva annunciare a Hitler che la situazione stava diventando insostenibile per l’Italia ma all’ultimo momento non ne ha avuto il coraggio e ha chiesto maggiori aiuti in armamenti e carburante. Dio solo sa che cosa si siano detti! Il cap. Zannier non è molto disponibile nei miei confronti, forse perché sono americano. Spesso parla male degli USA in mia presenza come se volesse provocarmi e vedere la mia reazione: faccio l’indifferente e non dico nulla o mi allontano. Il Capitano pensa che sia un lavativo e non voglia volare e mi assegna piloti da istruire sul RE 2001, non sa che mi fa un favore! La notte del 19 aprile non è l’ideale per andare in volo, la visibilità non è particolarmente buona, il Capitano mi ordina di prendere il CR 30 ed effettuare un check ad un Tenente che da pochi giorni ha fatto il primo volo da solo con il RE 2001. Deve impratichirsi col volo notturno. Lascio i comandi al Tenente e lo faccio decollare, alle 21.20 siamo in volo e gli dico di dirigersi verso Aviano ma le nubi ci impediscono di proseguire, siamo costretti a rientrare subito. In prossimità di Treviso riconosco il Piave ma quando ci avviciniamo al campo ci rendiamo conto che l’area è ricoperta da uno strato di nebbia bassissima dalla quale spuntano gli edifici più alti. Dico al Tenente di lasciarmi i comandi, mi metto a circuitare sopra il campo e “smanetto” per farmi sentire da terra. Accendono le luci della pista, debbo stare molto attento perché finché sono sulla verticale le luci si vedono abbastanza bene ma come mi allontano e mi abbasso per iniziare l’avvicinamento, le luci scompaiono. Debbo fare attenzione al campanile della chiesa di Sant’Antonino, un paesino vicino all’aeroporto, che è proprio sulla traiettoria d’avvicinamento e nel buio si scorge con difficoltà. Atterro e immediatamente dopo spengono le luci perché temono un attacco nemico, i meccanici spingono in fretta l’aereo dentro l’hangar con noi a bordo. Quando scendiamo dall’aereo assieme al cap. Zannier c’è anche il col. Revetria. Il Colonnello mi saluta. “Com’è andata, Patriarca?”. “Siamo rientrati subito”, rispondo, “Non potevamo proseguire e inoltre la situazione sul campo andava peggiorando velocemente. C’è uno strato di nebbia molto bassa su tutta la pianura e tende ad alzarsi!”. Non ci sono altri voli questa notte e siamo autorizzati ad andare a casa. Quando rientro cerco di non fare rumore, non voglio svegliare la famiglia Rocchi né Maria. Il giorno dopo mi alzo un po’ più tardi del solito e arrivo dopo l’orario di chi non deve fare i voli notturni. Il cap. Zannier mi comunica che debbo trasferire un velivolo e passare a ritirare i documenti al Comando. Rimango fuori sede due giorni e le notizie che mi giungono non sono per niente buone, diversi compagni del 4° Stormo sono stati abbattuti o risultano dispersi. Il 28 marzo 1943 nel porto di Napoli c’è stata un’esplosione di una nave carica di carburante e munizioni che ha causato molti più morti di un’incursione aerea. Anche Torino, Milano, Genova e perfino Mestre sono state bombardate. Non abbiamo abbastanza aerei da Caccia per contrastare le incursioni degli Alleati, i pochi che si alzano in volo debbono affrontare una spaventosa reazione dei bombardieri che sembrano delle corazzate volanti, pieni di torrette con mitragliatrici di grosso calibro. La nostra Caccia dispone di velivoli di prestazioni non adeguate. Ben diversa è la situazione della Caccia germanica in Italia, che opera con aerei come il Messerschmitt BF 109.

LE ESERCITAZIONI NOTTURNE A MANIAGO 
Nei mesi di aprile e maggio l’attività a doppio comando con il CR 30 ed il Ro 41 è più intensa del solito, vado in volo in più occasioni con i cap. Simoni, Cominelli, Parisi, i ten. De Michelis, Tavagna, Frua, Minozzi, Zanelli, i s.ten. D’Antino, Romeo, i m.lli Laurie, Biletta, Nerieri, i serg.m. Rescigno, Casentini, Biagini, Martini. Il 25 maggio il serg.m. Biagini mi chiede di di andare in volo con lui sul CR 30, vuole perfezionarsi con l’acrobazia. È seduto al posto di pilotaggio anteriore e inizia una serie di looping, non mi sento molto bene e mi gira la testa, cerco di farglielo capire battendo sulla cloche, mi slaccio e mi sporgo dal posto di pilotaggio, do di stomaco fuori dall’aereo. Dopo 15 minuti siamo nuovamente a terra. 
Il pomeriggio dell’8 giugno due CR 42, due Saiman e due FN 305 si trasferiscono sul poligono di Maniago, dove c’è anche un piccolo campo. I piloti sono Stazi, Gandini, Borroni, Laurenti, Biagini, Cosentini, Martini, Licini. Debbono effettuare esercitazioni al fuoco notturno su bersagli a terra costituiti da palloncini bianchi, del diametro di 50 centimetri, frenati e illuminati dalle fotocellule. L’energia elettrica per l’illuminazione è fornita da due gruppi elettrogeni; entrambi i generatori hanno però qualche problema. Mentre gli specialisti cercano di sistemarli i piloti si recano in paese per cenare in un ristorante. Al loro rientro, intorno alle 22, alternandosi con i due unici CR 42 disponibili, iniziano una serie di voli di una decina di minuti durante i quali effettuano tre passaggi ciascuno sui palloncini. Terminato il primo ciclo, verso le 00.15, il cap. de Camillis rimanda in volo il serg.m. Biagini con il CR 42 atterrato per ultimo, dicendogli di stare in volo non più di 15 minuti poiché il carburante è agli sgoccioli. Dopo tre puntate sui palloncini Biagini dirige sul campo e, mente si appresta all’atterraggio, le luci della pista e la fotoelettrica principale che illumina il punto di contatto si spengono. Circuita ancora qualche minuto nella speranza che vengano riattivate poi, con il serbatoio praticamente vuoto, decide di portarsi all’atterraggio con le due sole luci di pista rimaste funzionanti, ma anche queste si spengono. Qualche secondo dopo, il motore “pianta” per mancanza di carburante; Biagini continua a scendere nel buio totale, puntando dove presume ci sia la pista, non ha altra scelta. Il velivolo impatta violentemente il terreno un centinaio di metri dal campo e capotta. Il pilota viene soccorso e trasportato all’ospedale militare di Maniago. Il giorno dopo apprendo dell’incidente e mi reco all’ospedale per fargli visita. Ha riportato diverse ferite al volto, è conciato male ma nulla di grave. Al suo rientro dalla convalescenza, quando si presenta dal magg. Piva, il Comandante del Reparto non lo riconosce per le cicatrici che gli hanno alterato la fisionomia del volto.

IL 25 LUGLIO E L’8 SETTEMBRE 1943 
Vorrei mandare Maria a Napoli, dai suoi genitori, ma lei proprio non ne vuol sapere, desidera rimanere con me. Roma viene bombardata, gli Alleati sbarcano in Sicilia e una quindicina di giorni dopo, il 25 luglio, mentre sono in aeroporto, la radio annuncia che il Re d’Italia ha accettato le dimissioni di Mussolini, il grado di Caporale d’Onore della Milizia Volontaria della Sicurezza Nazionale e Maresciallo dell’Impero è stato abolito. Il Duce, sfiduciato dal Gran Consiglio del fascismo, è stato arrestato e portato dai carabinieri in un luogo sconosciuto, il Generale Badoglio assume l’incarico di Capo del Governo. Gli Italiani rassicurano i tedeschi a proposito delle voci secondo cui il nuovo Governo intende intavolare trattative con gli Alleati. Milano, Torino, Genova, Roma, Napoli, Avellino, Salerno, Foggia, Taranto, Pisa, Cosenza e Catanzaro subiscono pesanti bombardamenti. Il 28 luglio vengo inviato a Ferrara a ritirare un Re 2002. Questo velivolo sarà utilizzato come “Bombardiere in picchiata” da un Reparto dislocato a Gorizia. Decollo alle 16.10 e quando alle 17.00 atterro nel mio vecchio aeroporto di Merna provo un senso di nostalgia nel rivedere un paesaggio che per tanti anni mi è stato familiare. Incontro il cap. Cenni: eravamo insieme in Spagna, quando mi vede mi abbraccia, ricordiamo le nostre avventure e ci scambiamo gli auguri, devo lasciarlo presto perché tra poco parte il treno per Treviso. Quando la Squadriglia di Cenni avrà ricevuto tutti i Re 2002 verrà inviato al Sud e poco dopo mi giungerà la notizia che è stato abbattuto. L’8 settembre 1943, mentre gli Alleati con l’operazione “Avalanche” stanno preparandosi per lo sbarco del giorno dopo a Salerno, alle 19.45 il Capo del Governo Maresciallo Pietro Badoglio annuncia: “Il Governo italiano si è arreso incondizionatamente…” e conclude “… le Forze armate reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza!”. Vedo alcuni colleghi uscire dal Circolo Sottufficiali con le lacrime gli occhi, altri sono felici, sono convinti che la guerra per noi sia finita. Un amico si avvicina, mi dice che adesso le cose andranno meglio, rispondo che me lo auguro. Mentre vado a casa vedo della gente discutere ad alta voce, molti sembrano felici di quello che hanno appena sentito. “Poveretti”, penso tra me, “Non sanno quello che li aspetta. C’è poco da essere contenti!”. I signori Rocchi sono seri e preoccupati, lui è un ex militare e si rende conto che la situazione non è per niente chiara. Il giorno dopo ritorno in aeroporto, i motoristi stanno lavorando intorno agli aerei in modo da impedire che possano volare: i carburatori vengono smontati e riposti in magazzino, mentre i montatori tolgono un alettone da ogni aereo per impedire il decollo a chi potrebbe avere l’intenzione di andare in Svizzera, come hanno già fatto due piloti di un’altra Squadriglia. Nei cinque giorni successivi nessuno sa cosa fare, c’è molta confusione e ognuno si regola a suo modo. Gran parte degli Ufficiali lascia la base e non vi fa più ritorno, compresi il Comandante dell’aeroporto e i Comandanti di Squadriglia. Alcuni avieri del Sud mi chiedono cosa fare, li consiglio di seguire il loro istinto, nemmeno io ho le idee chiare. Uno di loro mi dice che i tedeschi lasceranno l’Italia. “Se pensi questo”, gli dico, “Sei proprio pazzo. Gli Ufficiali tedeschi sanno quello che devono fare, anche quando non hanno ordini dal loro Comando. Questa è la differenza tra un Ufficiale tedesco ed uno italiano. Un Ufficiale tedesco non abbandona i suoi uomini, guarda invece cosa hanno fatto i nostri, in tutta la base sono rimasti solo tre Ufficiali”. Dei tre Ufficiali rimasti due sono Tenenti del Sud Italia, attualmente occupato dalle Forze Alleate, e non sanno cosa fare, l’altro è il nostro Ufficiale di commissariato, italo americano come me, di Chicago, Illinois. Di lui so solo che il suo nome è Peter, anche lui è originario del Sud, dice che sta aspettando che la situazione si chiarisca prima di prendere una decisione. Dall’8 all’11 settembre ritorno ogni giorno in aeroporto con la speranza di ricevere ordini da Roma.

L’AEROPORTO IN MANO AI TEDESCHI 
Il 12 settembre mi alzo presto. È una bella giornata e mi avvio a piedi, non c’è nessuno per strada. Davanti all’ingresso dell’aeroporto ci sono due soldati tedeschi delle SS, con loro c’è un Ufficiale italiano. Entro, saluto e mi dirigo alla palazzina Sottufficiali, tre tedeschi escono dal Corpo di Guardia e mi puntano contro il fucile. Chiedo in tedesco cosa sta succedendo, l’Ufficiale italiano mi dice che la base è stata occupata di notte per ordine dell’Alto Comando tedesco di Padova, i carri armati Tigre presidiano l’aeroporto. Vengo perquisito alla ricerca di un’arma che non ho e mi ordinano di recarmi alla palazzina Ufficiali e aspettare di essere interrogato. Verso le 10 veniamo interrogati singolarmente sul nostro passato da un Colonnello tedesco che decide della nostra sorte. È seduto dietro un tavolo con altri Ufficiali tedeschi, l’Ufficiale italiano che era all’ingresso traduce le domande del Colonnello. Sono in uniforme con tutti i miei nastrini, il Colonnello vuole sapere cosa significano “Ho combattuto in Etiopia, Spagna e Albania” rispondo. Mi chiede dove ho combattuto in questa guerra “Sui fronti francese, greco e russo. Gli ultimi combattimenti li ho sostenuti nella Caccia Notturna a Napoli, dove ho abbattuto due bombardieri inglesi” aggiungo. Sembra soddisfatto della risposta, mi chiede di dove sono e poi vuole sapere di quale città. Anche lui è stato a New York, ha abitato per un certo periodo nella 96ª strada e poi è ritornato in Germania quando Hitler è salito al potere. Mi propone di combattere con le Forze Aeree tedesche. Rispondo che ne ho abbastanza delle guerre, ho fatto la mia parte fin dal 1935. L’Ufficiale cambia espressione, mi guarda appena, ordina all’Ufficiale italiano di mettermi col gruppo di quelli che non intendono collaborare con le Forze Aeree tedesche. Veniamo tutti trattenuti in aeroporto, c’è l’ordine di non allontanarsi dall’edificio; il campo è controllato dai tedeschi che hanno piazzato le guardie tutto intorno. Durante la notte non riesco a dormire, sono preoccupato per Maria che è rimasta sola e non ha mie notizie. Speravo che lasciassero andare via quelli che non avevano aderito alla loro richiesta di collaborazione, invece le cose si sono messe differentemente. Il giorno dopo il cap. Peter mi dice che ci sarebbe la possibilità di abbandonare l’aeroporto scavalcando la finestra della cantina che porta in un cortile dove la recinzione ha un varco che veniva utilizzato dagli avieri per uscire dal campo senza permesso. Poco dopo arriva in abiti civili e senza dire nulla a nessuno andiamo nella cantina, scavalchiamo finestra, ci guardiamo intorno, lui va avanti per primo e passa attraverso il varco nel recinto. Sto per seguirlo quando sento gridare in tedesco e contemporaneamente parte una raffica di mitra, proviene dalla terrazza sopra di me. Mi fermo e vedo il Capitano voltarsi e cadere con la faccia in avanti. Torno indietro, mi tuffo attraverso la finestra della cantina e rimango lì per un minuto, poi torno indietro verso le scale dell’edificio. Mi vengono incontro due soldati tedeschi, mi chiedono se sono armato, rispondo di no in tedesco, mi accusano di aver tentato di fuggire, nego, asserisco che stavo cercando da mangiare quando ho sentito sparare e stavo tornando indietro. Non so se li ho convinti ma mi lasciano passare. Vado direttamente al bar dei sottufficiali e chiedo un “grappino” per riprendermi dello spavento. Sono dispiaciuto per la sorte del cap. Peter, era un buon amico. Parlando dell’incidente con gli avieri mi dicono che tutti sapevano delle sentinelle tedesche di guardia al passaggio. È stato un errore fatale non averne parlato con nessuno ed è costato la vita al povero Peter.

LA DEPORTAZIONE 
Verso le 11 ci viene detto di andare a prendere i nostri bagagli, saremo trasferiti a Verona dove si sta formando la nuova Aeronautica italiana del Nord, questa è la spiegazione che ci danno. Arrivano una decina di camion, ci caricano per portarci alla stazione ferroviaria. Passiamo davanti a casa, Maria è vicino alla porta, vede passare la colonna e mi riconosce, segue il camion fino alla vicina stazione. Mentre ci fanno scendere per trasferirci su alcuni carri merci, riesco a scambiare qualche parola: le dico che ci portano a Verona, faccio giusto in tempo a darle un bacio prima che le guardie tedesche mi spingano dentro il carro ferroviario e chiudano la porta dietro di me. Quando tutti i militari sono stati caricati il treno si mette in moto per Verona. Durante il viaggio abbiamo il permesso di tenere aperta la grande porta scorrevole, ma arrivati a Vicenza viene chiusa e bloccata dall’esterno, una sentinella tedesca viene piazzata ogni due carri. Eravamo convinti che a Verona ci avrebbero fatti scendere, invece il viaggio continua. Sul treno non c’è soltanto personale dell’Aeronautica ma anche dell’Esercito e della Marina. Il viaggio avviene in condizioni terribili, siamo ammassati sul pavimento senza servizi igienici, senza bere, senza mangiare con i soli vestiti che indossavamo quando siamo stati catturati, fa anche molto freddo. Rimaniamo chiusi per due giorni e due notti, una volta al giorno veniamo fatti scendere per soddisfare i nostri bisogni fisiologici e per bere. Il treno si ferma in una stazione della Germania dove ci danno una tazza di acqua calda e una fettina di pane nero.

L’ARRIVO A TORUN, IN POLONIA 
Riprendiamo il viaggio, quando scendiamo dai vagoni siamo in Polonia, a Torun, chiamata Thorn dai tedeschi. Sono trascorsi due giorni e mezzo dalla nostra partenza da Treviso. Marciamo attraverso la città e la gente sembra impietosita nel vederci affamati e sporchi, alcuni dei nostri stanno male, sono ammalati e a turno li aiutiamo nella marcia. Chiedo a una guardia tedesca se possiamo farci dare un po’ d’acqua dagli abitanti per uno dei ragazzi che ha la febbre alta. Un sergente tedesco che nota il movimento chiede cosa sta succedendo. Sulle prime se la prende con la guardia, poi ci lascia prendere la bottiglia d’acqua che un polacco ci porge; questi sussurra alcune parole, non comprendo ma credo che il senso sia “Fatevi coraggio. Non dategli soddisfazione!”. Tra noi non ci sono Ufficiali, sono stati portati a Varsavia, io sono il maresciallo più anziano. Dopo una marcia di circa cinque miglia arriviamo in un enorme campo di prigionia che comprende oltre 30 settori separati da reticolati con il filo spinato. All’interno di ogni settore ci sono delle baracche in legno che ospitano un migliaio di prigionieri o più. Per dormire abbiamo delle cuccette a castello fatte di tavolaccio a due posti: ne scelgo una e mi sistemo sotto, sopra si mette il serg.m. Giancarlo Biagini. Alla sera ci viene distribuita dell’acqua calda con dentro rape e patate non sbucciate e sporche di terra; meglio del “nulla” che ci hanno dato durante il viaggio! Il “pasto” viene distribuito nei vari campi, ogni giorno con ordine diverso e, quando tocca agli ultimi, spesso non ci sono né patate né rape ma solo acqua fredda. Grazie alla mia conoscenza del tedesco sono agevolato nei rapporti con il personale di guardia al campo. Qualche giorno dopo il nostro arrivo chiedo al sergente di turno se c’è la possibilità di fare una doccia perché siamo tutti sporchi. Mi porta dal Comandante del campo, che quando mi sente parlare in tedesco mi chiede dove l’ho imparato, rispondo che la mia matrigna e gli amici che avevo negli USA erano tedeschi: otteniamo il permesso di fare una doccia! Ci sentiamo un po’ meglio, ottengo anche di portare due ragazzi ammalati nell’infermeria della prigione. Tra di noi ci sono dei giovanissimi cadetti della Marina fatti prigionieri al Collegio Navale di Venezia, il più anziano non supera i sedici anni. Sono sistemati al centro della baracca, dove fa un po’ meno freddo. Le notti sono sempre più fredde e abbiamo una sola coperta a testa. Un giorno uno dei cadetti mi dice che ha dovuto cedere il suo posto a un Maresciallo. Me lo faccio indicare, gli dico di ritornare al suo posto e lasciare i ragazzi dov’erano. “Non ricevo ordini da te”, mi risponde, “Qui non ci sono gradi, siamo tutti uguali, fatti gli affari tuoi e va al diavolo!”. Lo prendo per la giacca, lui cerca di colpirmi ma io lo schivo e gli sferro un pugno. Mi rivolgo poi a tutti quelli che sono intorno “Se qualcun altro prova a toccare i ragazzi lo sistemo io!”. Salgo sulla cuccetta, butto le sue cose a terra e dico al ragazzo di riprendere il suo posto. Un altro maresciallo si avvicina. “Ti abbiamo lasciato fare”, mi dice, “Stai tranquillo che se vedevamo che le cose si mettevano male per te saremmo intervenuti”. Comincio a conoscere il campo e a fare amicizia con alcuni prigionieri del settore inglese, ci scambiamo cibo e sigarette lanciandoli attraverso la rete quando le guardie non ci vedono. Gli inglesi appartengono al reggimento scozzese dei Black Watch, sono stati fatti prigionieri a Dunkerque. Al loro arrivo hanno dovuto costruire gli edifici del campo che hanno poi ospitato i prigionieri, loro per primi. Hanno anche dell’alcool, chiedo come se lo sono procurato, mi spiegano che lo ricavano distillando la frutta secca che ricevono con i pacchi della Croce Rossa. Do loro le nostre poche cose in cambio di magliette, calze di lana e scarpe militari. Il traffico dura più o meno un mese quando un giorno vengo sorpreso da un sergente tedesco. Vuole il mio nome e mi rispedisce nella baracca dicendo che mi farà rapporto e che mi farà mandare in un campo di punizione. Giungono anche due Ufficiali della Repubblica Sociale Italiana, veniamo riuniti davanti alle baracche, ci fanno un lungo discorso per convincerci ad aderire alle Forze Armate del Nord da poco costituite. Qualche giorno dopo, durante l’appello, a me e a una dozzina di colleghi viene ordinato di raccogliere le nostre cose e di ritornare dopo venti minuti. Quando ci presentiamo veniamo incolonnati e fatti marciare verso la stazione ferroviaria dove attendiamo l’arrivo di un treno. Un paio di giovani militari chiedono di andare al bagno e, passando davanti al deposito dei pacchi postali, rubano quelli che possono nascondere sotto i vestiti, altri tre o quattro li imitano. Quando il treno arriva ci dicono di attendere, due militari tedeschi salgono sui vagoni contigui e sorvegliano che nessuno rimanga a terra e tenti di fuggire e ci fanno salire. Sul treno i colleghi aprono alcuni pacchi e ci dividiamo il cibo e le sigarette che troviamo dentro. Ci fermiamo pochi minuti a Marienburg, a pochi chilometri da Hannover, dove prendiamo un altro treno. Si riparte, dopo un’altra ora arriviamo a una piccola stazione, Rychnowy, scendiamo e veniamo consegnati a due soldati tedeschi e un civile polacco.

A RYCHNOWY 
Camminiamo per circa due miglia fino a una grande fattoria con tre enormi stalle e una semplice ma pulita casa di campagna, quella del fattore. Il nostro alloggio è un capannone circondato da tre metri di filo spinato, a terra ci sono dei pagliericci di fieno, ognuno ne prende uno e si sistema per riposare. Un Sergente dell’Aeronautica, impiegato nell’ufficio economato, prende posto accanto a me. Mi stendo, chiudo gli occhi e penso a Maria, sono trascorsi già due mesi da quando sono stato fatto prigioniero, dovrebbe essere prossima al parto, è una sofferenza non esserle vicino. Il Sergente mi chiede se sto bene, mi dice di chiamarsi Italo Bartolucci, è di Macerata. Di fianco a Bartolucci c’è un aviere, si chiama Zavanella, di Novara. Dopo una mezz’ora veniamo radunati all’esterno, ci viene dato da mangiare, non molto ma è meglio di quanto abbiamo ricevuto finora. Ci rimandano dentro alla baracca per riposare, domani dobbiamo alzarci alle 4 per andare a lavorare nei campi, non ci sono luci e l’unica cosa da fare è dormire. Prima dell’alba il polacco entra e ci prende a calci per svegliarci, quando siamo tutti in piedi ci fa marciare verso una grande stalla dove ci viene dato del tè caldo. Mi accorgo che le guardie tedesche non hanno molta simpatia per questo tipo e non approvano i suoi metodi rozzi. Ci portano in un grande campo dove a gesti ci fanno capire che dobbiamo raccogliere le barbabietole, togliere le foglie e accantonarle tutte insieme sui bordi del campo. In un primo momento non capisco, il polacco si mette a urlare e io con calma gli rispondo in inglese “Ok, va bene, gran figlio di una buona donna. Ho capito”. Comincio a raccogliere le barbabietole come mi ha fatto vedere e lui, soddisfatto, batte le mani. Lavoriamo sodo fino a mezzogiorno e quando torniamo al capannone ci danno da mangiare. Una ragazza polacca mi passa due pezzi di pane nero in più della razione prevista, che infilo in tasca. Dopo una mezz’ora ci conducono alla nostra baracca dove riposiamo un’ora e poi di nuovo al campo per lavorare fino al tramonto. Divido i due pezzi di pane con Bartolucci e un paio di colleghi, alla sera abbiamo tutti mal di schiena, riusciamo soltanto a buttarci sui pagliericci e ci addormentiamo. Sono talmente stanco che mi sembra di essermi appena addormentato quando le guardie vengono a svegliarci strillando. Questa vita va avanti quasi un mese mentre l’inverno si fa sempre più freddo, non abbiamo vestiti invernali, indossiamo ancora le uniformi estive che avevamo al momento in cui siamo stati fatti prigionieri. Lavoriamo con qualsiasi tempo, il padrone della fattoria ha raccomandato al polacco e alle guardie tedesche di farci lavorare di più, vuole che le barbabietole siano tutte pulite e coperte prima dell’arrivo della neve. Quando terminiamo con le barbabietole da cavallo siamo trasferiti ai campi di barbabietole da zucchero dove il lavoro è un po’ meno pesante ma nel frattempo fa più freddo e piove di continuo per diversi giorni, siamo sempre bagnati. La guardie tedesche sono comprensive e quando il fattore si lamenta che lavoriamo poco e le sollecita a farci lavorare di più lo mandano a quel paese dicendogli che non siamo schiavi e minacciano di andare a riferire tutto al loro superiore. Durante la notte comincia a nevicare intensamente, le barbabietole da zucchero sono state quasi tutte raccolte e al mattino ci mandano nelle due grandi stalle, ci danno delle forche e pale per caricare lo stallatico sui carri. Va portato nei campi e posato sulle barbabietole ancora sotto terra. Le stalle sono riscaldate dalla presenza degli animali e sono più calde delle baracche, sebbene l’aria sia quasi irrespirabile: è preferibile lavorare qui che all’aperto. Lo strato di stallatico è profondo e dobbiamo scavare parecchio per arrivare al pavimento che ha una forte pendenza per drenare e raccogliere le orine degli animali. Togliamo tutto e liberiamo il pavimento, lo laviamo e ricopriamo con tre piedi di paglia nuova. Quando il direttore della fattoria vede il lavoro è soddisfatto, alla sera ci viene data una mezza pagnotta di pane a testa con due cucchiaiate di zucchero e un pezzo di margarina. Il giorno successivo, dopo due mesi di duro lavoro, ci viene concesso di riposare. Cerchiamo di tenerci puliti ma è praticamente impossibile, non abbiamo mai potuto fare una doccia e l’acqua disponibile basta appena per lavarsi la faccia o farsi la barba.

DI NUOVO A TOURN 
Il giorno dopo veniamo condotti alla stazione ferroviaria, ci riportano al campo di prigionia di Torun. Quando il Comandante del campo ci vede ordina di farci lavare e disinfestare dai pidocchi, dobbiamo consegnare i nostri vestiti che vengono lavati con l’acqua bollente. L’addetto alle docce è uno scozzese che conosco perché stava nella sezione inglese accanto alla nostra e con lui ci scambiavamo sigarette e pagnotte attraverso il reticolato. Mi dice di lavarmi con comodo, anche più dei dieci minuti concessi. L’acqua calda sul corpo mi rinfranca, provo un piacere che non avrei mai immaginato quando ero un uomo libero. Quando esco l’inglese mi offre una sigaretta e mi regala un pacchetto che poi divido con Bartolucci e Zavanella. Ci sistemano in una baracca pulita, possiamo finalmente dormire al caldo su un materasso e con una coperta. La neve ricopre ogni cosa, fa molto freddo e si è alzato il vento. Uno dei nostri non si sente bene: gli tocco la fronte, ha la febbre alta, lo accompagno al corpo di guardia tedesco e chiedo di parlare con un Ufficiale. Una guardia lo va a chiamare e quando arriva gli spiego che il ragazzo ha la febbre alta, dico che è il caso di farlo vedere in infermeria. Gli tocca anche lui la fronte e mi spiega dove accompagnarlo. Mentre sono in infermeria e attendiamo il medico incontro l’amico scozzese che gestiva le docce, mi dice che gli è giunta voce che gli Alleati stanno avanzando in Italia. Mentre ritorno alla mia baracca qualcuno mi chiama. Sulle prime non lo riconosco, è Colombo, un giovane Sergente che stava nella mia Squadriglia in Africa Orientale, con lui ci sono i sergenti maggiori Gatty e Rigger, siamo stati insieme al 21º Stormo di Ricognizione a Gorizia. Stanno in un’altra baracca e sono qui da poco più di un mese, non riesco a sapere di più, debbo lasciarli perché stanno arrivando le guardie.

A PILLAU 
Vengo chiamato insieme a un gruppetto di compagni di prigionia e questa volta sono mandato a Pillau, una base di idrovolanti su un isolotto vicino alla costa del Samland, sul mar Baltico. Bisogna tenere puliti gli hangar e lavare gli aerei. Sulle prime sono tentato di rubare un aereo e volare in Finlandia o in Svezia, ma la cosa non è realizzabile, gli aerei sono riforniti soltanto prima del volo. Poco dopo arrivano anche Bartolucci, Colombo e Zavanella. Veniamo trattati meglio che in tutti gli altri campi, i nostri alloggi sono in una caserma non utilizzata dai militari, anche il vitto è molto migliore di quello che finora abbiamo ricevuto ed è quasi lo stesso della truppa. Il Capitano responsabile del campo si chiama Walter Haufmann, è soddisfatto di come lavoriamo ed è corretto. Faccio amicizia con un sottufficiale tedesco che si chiama Herbert Best.

NATALE 1943 
Mancano pochi giorni a Natale, sono dentro l’hangar seduto sotto un idrovolante. Penso a Maria, questo sarebbe stato il nostro primo Natale insieme, non ho sue notizie e spero abbia ricevuto la lettera che le ho mandato per il tramite della posta vaticana, è l’unica possibilità di comunicare autorizzata. Herbert mi vede e mi viene vicino, mi ha preso in simpatia poiché sono l’unico che parla il tedesco in modo comprensibile. Si parla della guerra e della nostra vita privata, gli racconto che ho lasciato la moglie e dovrebbe essermi nato un figlio. Parliamo della guerra e della sua famiglia, poi mi chiede se desidero ritornare in Italia. Lo guardo sorpreso. “Perche?”, domando, “Pensi che sia possibile?”, e lui “Non lo so. Te lo farò sapere dopo Natale. Non far parola con nessuno”, mi raccomanda. Alcuni giorni dopo uscendo dall’hangar raccolgo da terra un giornale e vado a leggerlo nella mia baracca cercando notizie sulla situazione internazionale. Un piccolo articolo a fondo pagina attira la mia attenzione: Vittorio Mussolini è stato nominato Console Generale d’Italia a Monaco. Ritaglio l’articolo e me lo metto in tasca. Il giorno dopo vedo il m.llo Best e gli chiedo se posso battere una lettera con la macchina da scrivere dell’ufficio. Mi risponde che chiederà il permesso al cap. Haufmann. Prego Bartolucci e il serg. Cosentini, di Venezia, di aiutarmi a scrivere una breve lettera a Vittorio Mussolini. Bartolucci e Cosentini preparano la bozza della lettera. Il m.llo Best mi dice che avrò la macchina a disposizione nel pomeriggio, il Capitano deve andare a Königsberg e non ritornerà prima di sera. Il pomeriggio Best, prima dell’inizio del lavoro, mi accompagna nell’ufficio del Capitano. Il Capitano ci offre una tazza di tè e dopo averci fatto accomodare vuole sapere il motivo della mia richiesta. Gli spiego dell’articolo del giornale dove ho letto che Vittorio Mussolini è a Monaco con l’incarico di Console Generale d’Italia. Racconto che l’ho conosciuto e incontrato più volte insieme al fratello Bruno nel 1935, durante la campagna etiopica e nel 1939 quand’ero al 6° Stormo. Mi chiede di raccontargli in breve la mia storia fin dalla mia partenza dagli USA. Conversiamo in tedesco, poi improvvisamente, con mia grande sorpresa, si mette a parlare in un inglese perfetto. È nato nel Galles e mi racconta la sua storia: era sottotenente durante la prima guerra mondiale ed è stato richiamato quando Hitler ha dichiarato guerra alla Polonia, da come parla intuisco che non è un fanatico di Hitler né del partito nazista, è cattolico ma non praticante. Mi mette infine a disposizione la macchina per scrivere dicendomi di lasciargli la lettera, provvederà lui a spedirla via posta militare. A Natale riceviamo una doppia razione di viveri e due sigarette; il cap. Haufmann arriva con una bottiglia di grappa, offre qualche sorso a me e a un paio di colleghi seduti accanto. Si ferma a scambiare qualche parola, mi dice che stanno per arrivare altri quindici italiani e saranno sistemati in un’altra baracca: è una buona notizia, ci sarà meno lavoro per tutti. Ci concedono una giornata libera, ma non possiamo lasciare le baracche. Il giorno successivo si ricomincia a lavorare, la solita routine, questo campo tutto sommato non è male, soprattutto se confrontato con gli altri. Il Capodanno è passato, siamo quasi a metà gennaio, spero di ricevere notizie da Vittorio Mussolini ma non arriva nulla. Comincio a pensare che la mia lettera non sia partita o sia andata persa.

LA PARTENZA DAL CAMPO DI PILLAU PER MONACO 
Il 13 gennaio 1944 il m.llo Best viene a cercarmi, mi dice di prepararmi: questa notte debbo partire per l’Ambasciata di Monaco, sono convocato da Vittorio Mussolini. La notizia mi coglie di sorpresa, sono tutto eccitato. Dico a Bartolucci di prepararmi una lista con i nomi di tutti gli italiani che sono nel campo, se arriverò in Italia potrei consegnarla alle autorità affinché informino le famiglie che i loro cari sono qui e in vita. La lista è pronta e mi viene consegnata quando andiamo a pranzo. Il m.llo Best viene a prendermi e mi dice di seguirlo al primo piano del Comando, nell’ufficio del cap. Haufmann. Il Capitano ha preparato i documenti e una divisa tedesca, la debbo indossare perché la mia è in pessime condizioni. Mi dice di mettere le mie decorazioni italiane perché fanno un certo effetto e mi consegna un documento di riconoscimento provvisorio, in tedesco, e un ordine di viaggio con un treno ospedale diretto a Monaco. Nei documenti c’è scritto che debbo essere accompagnato dal m.llo Best in quanto debole e ammalato. Il cap. Haufmann mi dice di non parlare con nessuno, anche se vengo interrogato: devo solo mostrare i miei documenti e pregare che tutto vada bene. Nonostante ci sia una richiesta di Vittorio Mussolini di accompagnarmi a Monaco questo viaggio non è regolare, dovrebbe essere autorizzato dai superiori del Capitano. Ho appena il tempo di prendere quelle poche cose che mi servono, di farmi la barba e lavarmi. Saluto Bartolucci, che è triste e ha gli occhi umidi: lo capisco, gli dico che ci rivedremo di nuovo e tutto andrà bene. Seguo il m.llo Best, prendiamo il traghetto per la terraferma e poi il treno per Königsberg. Quando scendiamo, la Polizia Militare ci chiede i documenti, li controllano, ci indicano il treno ospedale e ci augurano buon viaggio. Prima di salire un medico militare ci chiede di nuovo i documenti di viaggio, mi guarda e ordina a un’infermiera di mostrarci i nostri posti. La stessa infermiera dopo un po’ ritorna con delle caramelle, un pacchetto di gallette e una tazza di tè. Quando il treno comincia a muoversi tiro un sospiro di sollievo. Le luci del vagone sono tutte spente tranne tre deboli lampade rosse che illuminano quanto basta per andare in bagno. Durante la notte il treno si ferma un paio di volte in aperta campagna. Arriviamo a Berlino verso mezzogiorno; il m.llo Best mi dice di seguirlo, andiamo alla Polizia Militare per chiedere un paio d’ore di permesso: vuole andare a far visita a sua sorella che vive in città. Anche qui c’è un ulteriore controllo dei documenti. Il m.llo Best scambia qualche parola con il militare, il quale ci dice che il nostro treno per Monaco partirà alle 18 e ci consiglia di tornare almeno mezz’ora prima. Fuori dalla stazione prendiamo un tram, scendiamo alla porta di Brandeburgo e ci incamminiamo verso una casa non molto distante. Il Maresciallo bussa a una porta, una donna viene ad aprire, è sorpresa e lo abbraccia e bacia, lui mi presenta. Le spiega che sono italiano e che mi sta accompagnando a Monaco. La donna ci invita ad entrare, ci offre da mangiare, il m.llo Best risponde che non è il caso, il cibo è razionato e distribuito con la tessera, non vuole approfittare della sua razione. Lei ci prepara comunque due sandwich e va a prendere un paio di bottiglie di birra. Il tempo trascorre velocemente e viene il momento di tornare alla stazione. La sorella di Best mentre mi saluta mi dice di essere stata in passato a Venezia, che le è piaciuta molto, e mi augura buona fortuna. In stazione torniamo dal Sottufficiale che sulle prime non ci riconosce e poi ci indica l’Ufficiale medico responsabile del treno ospedale, anche quest’ultimo controlla i nostri documenti e ci indica un’infermiera al centro del vagone che si sta occupando di un ragazzo gravemente ferito. L’infermiera, quando ha terminato, ci accompagna ai nostri posti. Il treno lascia Berlino. Sono visibilmente nervoso, il m.llo Best mi dice di stare calmo ma io penso che se mi prendono in uniforme tedesca mi fucilano sui due piedi e spediscono lui in Russia. Arriviamo a Monaco poco prima di mezzogiorno, mentre gli altri attendono di essere caricati sulle ambulanze e avviati all’ospedale noi due lasciamo la stazione. Appena fuori il m.llo Best chiede a un poliziotto civile dove si trova il Consolato d’Italia, questi consulta un libretto e ci indica la strada. Prendiamo un tram e dopo alcuni minuti ci troviamo davanti a un elegante edificio.

AL CONSOLATO ITALIANO DI MONACO 
Davanti all’ingresso del Consolato ci sono due militari italiani di guardia, mi sento finalmente salvo! Ci chiedono in italiano cosa vogliamo, rispondo io: “Siamo attesi dal Console Generale!”. Ci fanno entrare e attendere in una sala, dopo alcuni minuti veniamo invitati in uno studio arredato con mobili raffinati, mi aspetto di incontrare Vittorio Mussolini ma dietro un’ampia scrivania c’è il sostituto Ambasciatore, il dott. Anfuso. Ci stringe la mano, ci fa accomodare e ci spiega che Vittorio Mussolini è dovuto partire per Berlino, ha ricevuto la mia lettera e ha inoltrato una richiesta di rilascio al Comando tedesco il quale ha risposto che stanno raccogliendo informazioni su di me. Gli spiego brevemente la mia storia e che sono lì grazie al cap. Haufmann e al m.llo Best che, a loro rischio, mi hanno rilasciato prima dell’arrivo dell’autorizzazione da parte delle Autorità Militari tedesche. Il m.llo Best vorrebbe andarsene, ma il Sostituto Ambasciatore gli chiede di fermarsi e lo invita a pranzo con tutti i membri del Consolato. A tavola ci vengono serviti piatti tipici italiani che il m.llo Best sembra apprezzare. Mi vengono consegnati degli abiti civili e restituisco l’uniforme tedesca a Best che ora può andarsene. Mentre stiamo insieme ancora qualche minuto per salutarci mi confida che se la guerra dovesse volgere al peggio, come già è nell’aria, tenterà di raggiungere il confine con la Svizzera dove ha degli amici fidati. Sono commosso, non avrei mai immaginato che per un’amicizia si potesse rischiare tanto, lo ringrazio ma non riesco a trovare le parole giuste per esprimere tutta la mia riconoscenza. Mi dà una pacca sulla spalla e andiamo dal sostituto Ambasciatore, il m.llo Best lo ringrazia per il pranzo e saluta. Resto a guardarlo dalla finestra fin quando non gira l’angolo. Rimango ospite del Consolato in attesa di disposizioni, mi riposo su un divano sfogliando alcuni giornali e riviste. La mia testa è altrove, non riesco a concentrarmi, penso a Maria. Mi chiedo se la ritroverò nella nostra casa a Treviso o se è ritornata a Napoli. Forse avrà dovuto abbandonare Treviso a causa dei pesanti bombardamenti dell’Aviazione americana che stanno colpendo soprattutto il Nord d’Italia. Penso a mio figlio, chissà perché sono convinto che sia un maschio. Poco prima dell’orario di chiusura del Consolato il dott. Anfuso mi invita nel suo ufficio e mi fa alcune domande. Vuole sapere la situazione nei vari campi di concentramento dove sono internati gli italiani, l’alimentazione, gli alloggi, il lavoro cui sono sottoposti. Mi ricordo della lista con i nomi dei compagni di prigionia di Pillau che ho nel portafoglio, gliela porgo. Mi dice che è stata un’ottima idea compilare la lista, la consegnerà a Vittorio Mussolini quando tornerà, sta facendo del suo meglio per liberare gli italiani dai campi di concentramento. Il giorno dopo il dott. Anfuso mi manda a chiamare, ha sentito Vittorio Mussolini al telefono, deve rimanere ancora alcuni giorni a Berlino. Lo ha avvisato del mio arrivo e ha disposto di organizzare il mio rientro in Italia e consegnarmi le tessere annonarie e il denaro di cui potrei aver bisogno per il viaggio. Debbo attendere cinque giorni prima che il sostituto Ambasciatore riesca a procurarmi i documenti di viaggio e il passaporto italiano. Mi istruisce su quello che debbo fare, partirò oggi stesso verso mezzanotte per la città di confine di Innsbruck dove mi dovrò presentare alle autorità italiane.

A INNSBRUCK 
Arrivo di primo mattino, esco dalla stazione e mi guardo in giro: la scena è molto bella, Innsbruck è circondata dalle montagne e la neve caduta durante la notte ha coperto tutto con un velo bianco. La temperatura è bassa ma non c’è vento e il freddo non si sente perché l’aria è secca. Vedo un locale che sembra un bar, entro ed ordino un caffè, il barista riconosce subito dall’accento del mio tedesco che sono italiano come lui. Mi dice di sedermi a un tavolo, mi servirà il caffè seduto. Ordino un pasticcino, mi chiede la tessera annonaria, deve staccare due bollini; quando me la restituisce mi strizza l’occhio, ha staccato solo un bollino. Sul treno ha fatto freddo tutta la notte e mi riscaldo un po’ fermandomi nel locale. Prima di andarmene chiedo al barman dove si trova il Consolato d’Italia. “È a un paio di strade, sulla sinistra, a circa mezzo chilometro da qui”, mi risponde. Lo ringrazio e mi dirigo verso il Consolato. All’ingresso un addetto mi chiede cosa voglio, gli porgo i documenti, li scruta e mi invita a entrare e accomodarmi. Dopo un minuto un impiegato mi fa entrare in un ufficio dicendomi di sedermi e attendere mentre lui si occupa della pratica. Poco dopo entra un uomo piuttosto alto e mi interroga, vuole sapere da dove vengo, rispondo da Monaco e non menziono che ero in un campo di concentramento. Mi dice che debbo aspettare qualche giorno, deve fare delle indagini. Mi trascino per un paio di giorni, il pensiero di essere bloccato a due passi dall’Italia mi fa sentire impotente, sono molto nervoso. Il quinto giorno torno al Consolato, mi consegnano i documenti con timbri italiani e tedeschi. Non ho più fondi, chiedo un prestito e l’importo viene registrato sui miei documenti, lo restituirò alle autorità militari cui dovrò presentarmi quando arriverò a Padova. Prendo il treno la sera stessa, debbo presentare i documenti alla Polizia Ferroviaria tedesca che li controlla accuratamente prima di farmi salire. Mi raccomandano di stare al posto assegnato poiché il treno è una tradotta che porta militari tedeschi in Italia. Durante il viaggio non riesco a riposare, sono molto teso, non vorrei che qualche intoppo all’ultimo momento mandasse in fumo tutto, con le ben prevedibili conseguenze. Quando il treno arriva a Bolzano comincio ad intravedere la fine della lunga odissea, il pensiero di essere nuovamente in Italia mi rincuora. La fermata successiva è Trento, mi sento più leggero, anche l’aria sembra diversa e fa più caldo. A Verona scendo e mi fermo per diverse ore, girovago nei pressi della stazione in attesa del treno della notte per Venezia. Arrivo il mattino presto a Mestre, altro cambio di treno, prendo quello per Udine che passa per Treviso.

DI RITORNO A TREVISO 
Arrivo alla stazione di Treviso intorno alle otto del mattino del 3 febbraio 1944. Mi precipito a casa nostra, busso, nessuno mi risponde, busso alla porta accanto, mi apre una signora che mi riconosce e mi dice che i padroni di casa sono sfollati perché avevano paura dei bombardamenti. Maria è andata a vivere con un’altra signora, anche lei col marito prigioniero in Germania, mi spiega dove trovarle. Quando arrivo all’indirizzo fornitomi dalla signora la casa è vuota, comincio a credere che Maria sia tornata a Napoli dalla sua famiglia. Una vicina mi chiede cosa sto cercando. “Sono rientrato ora dalla Polonia”, le spiego, “Ero in un campo di concentramento, sto cercando mia moglie che dovrebbe essere venuta ad abitare qui con un’amica. Mia moglie si chiama Maria e dovrebbe avere un figlio che ancora non ho conosciuto”. Mi sembra commossa, mi prende per un braccio e mi fa accomodare in cucina. “Adesso la se senta qua”, mi dice in dialetto veneto, “Intanto che lu magna, mi vado domandarghe alle tose qua vissin se le sa qualcossa!”. Prende dalla credenza un po’ di pane, un pezzo di formaggio e un bicchiere di vino che posa sul tavolo. Ritorna insieme a un’altra donna molto gentile che mi chiede se sono il marito della ragazza napoletana che ha avuto un bambino. Mi batte sulla spalla: “La siora e la sò amiga xe andae a Musestre, vicin a Roncade”, mi dice, “Le gavea paura dei bombardamenti”. Le chiedo come raggiungerle. Ogni tanto c’è un autobus, mi dicono, ma oggi non passa, debbo rimediare un passaggio da qualche carro agricolo. Ringrazio entrambe e uscendo do un bacetto alla signora anziana che mi ha offerto da mangiare. Mi augurano buona fortuna. Mi dirigo verso la stazione ferroviaria, accanto c’è un negozio di biciclette, entro e chiedo se posso affittarne una per un paio di giorni, mostro i miei documenti al proprietario che si limita ad annotare i miei dati. Gli chiedo di indicarmi la strada per Roncade e mi avvio pedalando con energia, ma sono ancora debole e dopo un po’ le forze cedono costringendomi a rallentare. Roncade si trova a 15 chilometri da Treviso e in bicicletta ci vuole almeno un’ora. Mi fermo a bere un caffè e a chiedere quanto manca a Musestre, il proprietario del bar mi dice che mancano un paio di chilometri, lo ringrazio, pago il caffè ed esco. Appena fuori dal paese un giovane sta lavorando in un campo vicino alla strada, gli chiedo se sa dove abitano due donne venute a stare qui e che hanno i mariti in campo di concentramento in Germania. Mi risponde che ha sentito parlare di loro e mi manda dal proprietario della quinta casa lungo la strada, lui dovrebbe saperne di più. Mi avvio verso la casa camminando e appoggiandomi alla bicicletta, le gambe mi fanno male per la lunga pedalata. Un grosso cane mi accoglie abbaiando senza sosta, il fattore viene sull’uscio di casa e mi chiede cosa voglio. “Allora lu el xe il marì de la tosa napoletana?”, mi chiede. Le gambe mi tremano, sono emozionato, chiedo dov’è. Intanto, incuriosita del chiacchierio, è uscita sua moglie: “Xe meio che vada qualchedun a parlar con la siora e che la prepari. Se no xe ris’cio che ghe vegna un colpo!”. Il fattore vuole essere il primo a congratularsi con me per essere il padre di un bel maschietto, aggiunge che Maria ha molto sofferto durante il parto ma ora sta bene, gli sembra di ricordare che il bambino è stato chiamato Daniele, come suo nonno. Mi indica una casa in mezzo ai campi, mi dice di attendere qui il suo ritorno e si avvia per portare la notizia del mio arrivo. Sua moglie intanto mi fa accomodare in casa e mi invita a sedermi perché stavo camminando nervosamente avanti e indietro. Mi riempie un bicchiere di vino e mi porge un pezzo di dolce fatto da lei. Il marito ritorna dopo meno di mezz’ora e mi dice di seguirlo. Quando siamo poco distanti da casa, due donne anziane che erano sull’uscio ci vengono incontro, mi salutano e chiedono se sono io “l’americano”, mi dicono che sono molto sciupato e che mia moglie mi attende in casa. Parlano un dialetto veneto un po’ diverso di quello che ero abituato a sentire a Gorizia e alcune parole mi sfuggono. Le seguo mentre continuano a farmi domande, poco prima che arrivi all’uscio di casa si affacciano anche il marito e il primo figlio di una delle due, mi salutano e si scansano invitandomi a entrare. Entro e mi fermo sulla soglia della cucina: Maria è in piedi accanto alla culla con il bambino in braccio. Non mi escono le parole dalla bocca, Maria mi viene incontro piangendo e mi circonda col braccio libero, mi stringe a sé e mi bacia. Abbraccio lei e il bambino, anch’io ho le lacrime dagli occhi, li bacio entrambi. Quando riesco a parlare le mie prime parole sono: “Ringrazio Dio di avervi ritrovati. Stavo perdendo la speranza di tornare a casa!”. Maria solleva il bambino e me lo porge: “Ti presento tuo figlio Daniele!”, dice. Lo prendo in braccio, mi osserva in silenzio, ci studiamo entrambi per alcuni secondi e poi lo metto nella sua culla. Preso dall’emozione non mi sono accorto che nella stanza sono entrati il fattore, le due signore anziane, il proprietario della casa, i tre figli e la signora Bogo. Tutti ci stanno osservando in silenzio, anche loro sono emozionati. Ci sediamo attorno al tavolo della cucina, la signora Bogo ha assistito mia moglie dagli ultimi giorni della gravidanza fino a oggi. Il suo nome è Adriana, è emozionata e mi chiede notizie di suo marito, le debbo rispondere che, dopo essere stato sorpreso nella settore inglese, per punizione sono stato trasferito in un altro campo. Tra le lacrime mi racconta di aver ricevuto tramite posta vaticana due lettere, suo marito non ce la faceva più e stava per accettare di collaborare coi tedeschi. Le rispondo che così avrebbe buone possibilità di tornare in Italia e continuare il servizio militare con le truppe di occupazione. Il proprietario della casa si chiama Antonio Beraldello, si allontana un attimo e torna con una bottiglia di grappa, dice che per festeggiare questo evento ci vuole un brindisi, la signora Bogo prende dalla credenza dei bicchierini e il signor Beraldello versa la grappa. Alziamo in alto il bicchiere e brindiamo; la grappa è buona e molto forte, fa mancare il fiato, la distilla lui stesso dalle sue vinacce. Maria mi dice che quando le sono cominciate le doglie Antonio le ha dato da bere un grosso bicchiere di grappa, non riusciva a mandarlo giù ma poi, quasi ubriaca, ha partorito Daniele senza grandi problemi. Antonio me ne versa dell’altra, dice che mi aiuta a tirarmi su. Mi racconta che quando Maria è arrivata al paese non capiva il dialetto veneto e non conosceva nessuno, ma ora ha fatto amicizia con diverse famiglie. Dopo un po’ tutti se ne vanno a continuare i lavori nei campi. Maria e Adriana riscaldano dell’acqua sullo “spargher” della cucina: è per farmi un bagno, ne sento il bisogno. Maria prende da una valigia un mio vecchio paio di pantaloni e un maglione per farmi cambiare. Dopo il bagno mi vesto e mi stendo sul letto accanto a Daniele, osservo Maria, è bellissima anche se indossa il grembiule per i lavori di casa. Anche Dany è un bel bambino, le chiedo a chi assomiglia. “Al mio grande uomo!”, risponde ridendo.

VITA IN FAMIGLIA A MUSESTRE 
Piano piano comincio a recuperare il peso e le forze, aiuto Antonio occupandomi delle galline e di due maiali. Mantengo pulita la vigna dalle erbacce e zappo la terra, spargo il letame sui campi per concimare il terreno prima che arrivi il caldo. Non mi sono ancora presentato alle autorità militari: sono convinto che la guerra volga alla fine, l’Italia ormai è finita, l’Esercito è sbandato, l’Aviazione, escludendo gli aerei manomessi e sabotati dopo l’8 settembre, ha ben poche Squadriglie efficienti. La flotta della Marina italiana si è consegnata in blocco agli Alleati. I combattimenti si svolgono solo tra le truppe tedesche e quelle alleate. I pochi militari italiani che hanno deciso di continuare a combattere, al Nord hanno aderito alla Repubblica Sociale Italiana guidata da Mussolini, affiancati all’Esercito tedesco, mentre al Sud collaborano, seppure visti con una certa diffidenza, con le Forze Armate alleate che stanno avanzando. Un giorno, mentre sto lavorando con Toni nei campi, arrivano cinque miliziani fascisti, girano per il paese alla ricerca di disertori. Conoscono Antonio e chiedono i documenti solamente a me, rispondo che sono in casa e andiamo insieme a prenderli, chiedono anche il foglio di congedo. Dico di non averlo perché sono appena tornato dal campo di concentramento in Polonia e mostro i documenti di viaggio. Il più alto in grado dei miliziani dice che dovevo presentarmi al momento dell’arrivo. Spiego che non l’ho fatto perché ero malato e troppo debole, dovevo rimettermi in sesto prima di riprendere il servizio. Risponde che ritornerà tra una settimana per controllare se mi sarò presentato alla Zona Aerea Territoriale di Padova. “Se farai il furbo”, aggiunge il miliziano, “Verrai arrestato per diserzione e rispedito in un lager della Germania!”. Ne parlo con Maria, non ho intenzione di dargli retta, lei teme che possano catturarmi e prendersela con lei e il bambino. Mi convinco che è il caso che domani stesso vada a presentarmi. Mi alzo presto e prendo il treno per Padova, indosso l’uniforme che Maria aveva custodito durante la mia prigionia e portato con sé a Musestre: è linda e stirata come fosse nuova. Quando mi presento al Comando della Zona Aerea incontro alcuni vecchi compagni che sono in servizio. Racconto la mia storia e mi indicano l’Ufficio del Personale, presento i documenti all’Ufficiale preposto che dopo averli letti mi chiede cosa mi è saltato in testa di presentarmi solo ora “Quando sono rientrato dalla prigionia in Germania e raggiunto la famiglia ero malato e debole ed ho impiegato parecchio per rimettermi in sesto” rispondo. L’Ufficiale chiama un sergente e gli fa preparare un ordine di servizio con il quale mi assegna al III Gruppo Caccia Terrestre dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana che si sta costituendo a Venaria Reale, vicino a Torino. Prima che il sergente inizi a preparare il documento chiedo all’Ufficiale di avere ancora qualche giorno di licenza per poter tornare in famiglia, informare mia moglie e sistemare alcune cose. Mi risponde bruscamente che sono stato abbastanza a casa, poi si quieta e aggiunge “Va bene, ti do altri cinque giorni!”, e mi manda a ritirare la mia paga arretrata all’Ufficio Amministrativo, dove ritiro i documenti, la licenza e l’ordine di presentarmi a Venaria Reale due giorni dopo Pasqua. Quando ritorno a casa spiego a Maria che dovrò riprendere servizio a Torino e le mostro il denaro ricevuto. “Con questi potrai pagare i debiti”, le dico. “Quali debiti?”, mi risponde, “Non ho alcun debito!”. Le suggerisco di chiedere a Toni che cosa gli dobbiamo per il vitto e la stanza. Toni dice che non dobbiamo dargli assolutamente nulla, per lui Maria e Adriana fanno parte della sua famiglia. Appoggio sul tavolo 10.000 lire, mi guarda quasi seccato, dice che non può accettare questi soldi, insisto, dico che possono servire per la fattoria. Non risponde, va verso la credenza, tira fuori una bottiglia di grappa speciale con dentro delle erbe, riempie due bicchieri e parliamo d’altro.

IL BOMBARDAMENTO DI TREVISO DEL 7 APRILE 1944 
Il pomeriggio Maria vuole andare a Treviso a comperare alcune cose per lei e l’accompagno, Adriana non vuol venire e rimane a casa con Dany. Il giorno dopo è Venerdì Santo, decidiamo di portare anche Dany, Toni ci fa salire sul carro trainato da due cavalli e arriviamo intorno alle 10. Mentre passeggiamo in centro incontriamo il serg. Vozzi e sua moglie che, quando sente che Maria è napoletana come lei, è tutta felice: diventano subito buone amiche. Racconto della mia prigionia, mi invitano a pranzo, lui mi dice che ci raggiungerà a casa sua un po’ più tardi perché nel frattempo deve andare in aeroporto. Ci incamminiamo in compagnia della signora Vozzi, facciamo alcuni acquisti, Maria prende un regalino per Adriana e io dei dolci da portare a casa Vozzi. Vediamo anche Toni e gli diciamo che torneremo con la corriera del pomeriggio, lui ci saluta e torna a Musestre col carro. Arriviamo alla loro casa verso le 12.30, Vozzi è appena tornato dall’aeroporto che si trova non molto lontano dalla Porta di San Tommaso. Siamo seduti da poco nella sua cucina quando alle 12.55 suona la sirena dell’allarme aereo, prendo Dany in braccio e ci avviamo tutti verso il rifugio della casa. Sentiamo in lontananza i colpi degli 88 mm della contraerea tedesca; dopo alcuni minuti ci giunge il rombo dei bombardieri in avvicinamento. Sono le 13.07, Vozzi dice che la città non è mai stata bombardata fino a oggi, forse si limiteranno a sorvolarci e proseguiranno per la Germania. Non finisce di parlare che sentiamo esplodere le prime bombe, il frastuono va crescendo e le esplosioni si avvicinano. Non riesco nemmeno a capire quello che Maria sta strillando, la terra sussulta sotto i piedi, debbono essere bombe ad alto potenziale da 500 kg. Poi improvvisamente due esplosioni violentissime scuotono il rifugio, veniamo sbattuti contro le pareti, l’intonaco del soffitto ci cade in testa, siamo sommersi da una nube di polvere che ci toglie il respiro, una ragazzina che era vicina all’ingresso viene scaraventata dallo spostamento d’aria verso l’interno. Per fortuna non è ferita ma solo contusa, le donne e i bambini piangono e urlano, ci sono tre ondate di bombardamenti. Sulla parete alla quale ci siamo appoggiati si sono aperte delle crepe. Siamo accovacciati e sto coprendo col mio corpo Maria e Dany e Vozzi fa la stessa cosa con la moglie e i suoi tre figli. Dopo circa una decina di interminabili minuti le esplosioni cessano e una nube di fumo nero entra nel rifugio, alcuni scappano fuori di corsa. Ci alziamo, dico che non è il caso di uscire subito, è meglio attendere alcuni secondi che cessi il parapiglia davanti l’ingresso del rifugio. Quando siamo fuori una nube fittissima di polvere avvolge tutto e oscura il sole, sembra di essere piombati in una giornata di nebbia fitta, la polvere fa tossire e mancare il respiro. Si sentono le urla ed i lamenti di centinaia di persone, passano diversi minuti prima che si cominci a distinguere qualcosa, le case sono scomparse e al loro posto ci sono cumuli di macerie fumanti, ci sono anche degli incendi. Le belle ville dall’altra parte della strada non ci sono più, una di queste apparteneva al signor Tenni, un famoso campione di corse in moto che era con noi fino a poco fa nel rifugio. Ci avviciniamo ai resti della sua villa e sentiamo delle grida provenire da sotto le macerie, spostiamo insieme delle grosse pietre con le mani, poi con due pezzi di legno facciamo leva per sollevare una portone in ferro, sotto ci sono un uomo e i suoi due figli, sono rimasti incastrati tra due muri. Tiriamo fuori per primi i bambini, purtroppo non c’è niente da fare per loro, sono entrambi morti. Con l’aiuto di altre persone riusciamo a estrarre anche il padre, ha un braccio e le gambe rotte e forse anche una lesione interna. Accorre una donna e quando riconosce il marito e i suoi due figli stesi a terra sembra impazzire, si getta sul marito e lo chiama per nome. Un medico che abita nella casa di Vozzi assiste l’uomo, non ci sono mezzi per portarlo in ospedale, dei vicini portano una coperta per tenerlo al caldo. Dico ai coniugi Vozzi che dobbiamo tornare a Musestre, la moglie ci invita a restare con loro ma non è il caso, la loro casa è gravemente danneggiata e sembra pericolante, credo che non potranno tornare ad abitarci. Quasi tutta la città di Treviso è in rovina, un grosso incendio è scoppiato nella centrale elettrica. L’albergo “Stella d’Oro” è completamente distrutto; era occupato da Ufficiali tedeschi, sembra che una decina siano deceduti e tra di loro un Generale. Mentre usciamo da Treviso dobbiamo fare molta attenzione: avanziamo lentamente, alcuni tratti sono ingombri di macerie e diversi edifici sono pericolanti, dobbiamo aggirarli. Tra le macerie corpi straziati, resti umani, chiazze di sangue. Passiamo vicino ad un rifugio nel giardino dei conti Avogadro, c’è tutt’intorno un movimento di folla vociante, i pompieri stanno lavorando, poco dopo estraggono dei corpi completamente anneriti e li posano a terra. Chiedo a un signore cos’è successo, mi risponde che sono esplose due bombe contemporaneamente davanti ai due ingressi del tunnel creando un’onda d’urto e una vampata di gas incandescenti che sembra abbiano causato la morte di quasi un centinaio di persone. Le scene cui assistiamo sono strazianti, ci sono dappertutto uomini e donne che cercano i propri cari tra i corpi posati a terra. Maria mi chiede dove siamo, le rispondo nei pressi della stazione centrale, o piuttosto a quel che ne rimane, le case intorno sono tutte distrutte. Anche l’abitato di Sant’Antonino, dall’altra parte della ferrovia, è raso al suolo. Tutte le persone che incontriamo sembrano vagare sotto choc, vediamo alcuni cavalli a terra, smembrati. Dentro la postazione di una batteria antiaerea tedesca ai bordi della strada alcuni inservienti feriti sono assistiti dai commilitoni. Attraversato Sant’Antonino continuiamo sulla strada per Mestre, intasata dalle persone che abbandonano Treviso portandosi dietro tutto quello che possono, e incrociamo una colonna di ambulanze militari per i primi soccorsi. Mi tolgo la giacca e avvolgo il piccolo Dany per tenerlo al caldo, è spaventato e ammutolito come se si rendesse conto della gravità del momento. A turno Maria e io lo portiamo in braccio e cerchiamo di tenerlo al caldo. Un camion carico di gente ci passa accanto si ferma davanti a noi. Lo raggiungiamo, chiedo al conducente se ci da un passaggio fino a Musestre, lui si rivolge a Maria e le chiede se è una delle due donne che vivono con Antonio Beraldello, Maria risponde di sì e gli dice che sono suo marito. Non ha posto in cabina e ci fa salire sul pianale posteriore, va a Roncade e ci dà un passaggio fino a Musestre. Impieghiamo una quarantina di minuti per arrivare a casa, il camion fa un paio di fermate per caricare il carbone nel forno cilindrico posto su un lato del camion che genera il gas per alimentare il motore, è un apparato che deve essere a perfetta tenuta per funzionare: sopperisce alla scarsità di benzina. Quando arriviamo a Musestre Adriana ci corre incontro, era in pensiero per noi, prende Dany dalle braccia di Maria e lo ricopre di baci come fosse sua madre. Anche Antonio era preoccupato, quand’era quasi arrivato a casa ha visto sopraggiungere la formazione di bombardieri e ha sentito le esplosioni su Treviso. Toni dice al figlio maggiore di prendere la bottiglia di grappa e brindiamo allo scampato pericolo. Dice che ha contato oltre 300 aerei tra bombardieri quadrimotori e caccia con la doppia coda e altri molto grossi, probabilmente P38 Lightning e Thunderbolt. Il fragore delle esplosioni era impressionante anche a una decina di chilometri da Treviso e si vedevano immense colonne di fumo alzarsi verso il cielo. Maria e io raccontiamo dello spavento provato quando le bombe si avvicinavano e delle scene strazianti cui abbiamo assistito, siamo fortunati a esserne usciti vivi. Mi ricordo solo ora che abbiamo dimenticato nel rifugio il regalo per loro. La moglie di Antonio dice di non preoccuparci, l’importante è che, grazie a Dio, siamo tutti vivi e insieme. Dopo cena desidero andare a letto presto, mi scuso con tutti e mi ritiro ma non riesco ad addormentarmi subito: ho davanti agli occhi le immagini drammatiche di oggi. Più avanti mi racconteranno che dagli aeroporti friulani di Campoformido, Osoppo e Lavariano sono decollati i Macchi 205 del 1° Gruppo Caccia per contrastare i bombardieri americani. Un Macchi 205 colpito ha effettuato un atterraggio di fortuna nel letto del Piave, vicino a S. Lucia; il pilota, rimasto indenne, era il ten. Fioroni.

PASQUA A TREVISO 
La moglie di Toni, Adriana e Maria cominciano i preparativi per celebrare la domenica di Pasqua. Adriana prepara una torta mentre la moglie di Toni e Maria provvedono a cucinare cinque galline del pollaio. Toni ha già messo il rubinetto a una botte di vino dell’anno passato. La domenica di Pasqua a mezzogiorno tutto è pronto, al rientro dalla Santa Messa ci sediamo intorno alla tavola imbandita. Toni, la moglie e i figli sono in dieci e con Adriana e noi tre siamo in quattordici. Tutto è squisito, tutti sembrano allegri e spensierati ma non posso dimenticare chi in questo stesso momento sta soffrendo o non c’è più solo perché è capitato nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Toni mi parla e mi riempie il bicchiere, lo guardo ma con la mente sono assente. Il pranzo è finito, le donne si alzano e riordinano la cucina, ci vengono a trovare alcuni fattori che abitano vicino; si va tutti a giocare a bocce sull’aia. Quando smettiamo anche le donne hanno finito di sistemare la cucina e ci sediamo tutti intorno al tavolo. Una Pasqua di guerra non poteva riuscire meglio. Lunedì aiuto Toni a zappare la terra attorno alla vigna. Martedì, subito dopo il pranzo, mentre prendo un po’ di sole nel cortile arrivano dal retro della casa due miliziani fascisti. Li vedo all’ultimo momento, non sono gli stessi che sono venuti l’altra volta e che Toni conosce, vogliono vedere i miei documenti, entro in casa a prendere il foglio della licenza e glielo porgo. Il sergente legge il foglio, alza la testa e mi chiede quando intendo partire per Venaria Reale, gli rispondo domani. Piega il foglio, me lo consegna e mi dice che troverò un ottimo Barbera, lui è di Torino.

A VENARIA REALE 
La sera preparo le cose da portare con me e stiro l’uniforme. Il giorno dopo, mercoledì, abbraccio Maria e saluto Adriana e la famiglia di Toni, lui mi accompagna alla stazione di Treviso a prendere il treno della sera. Viaggio tutta la notte, giungo a Torino al primo mattino e mi presento all’Ufficio Personale di Venaria Reale poco prima di mezzogiorno. Il Tenente di servizio mi dice di andare alla mensa e tornare alle 13.30. Poso il bagaglio in ufficio e vado nella sala mensa che si trova di fronte. Mi guardo attorno alla ricerca di un posto a sedere e mi sento chiamare da un gruppo di piloti seduti a un tavolo d’angolo. Mi dirigo verso di loro, riconosco alcuni vecchi amici: Gianni Tonello, Franco Fornacci, Ennio Tarantola e il tenente Sbrighi: quando l’avevo conosciuto era maresciallo, ora è Ufficiale. Mi invitano al loro tavolo e mentre mangiamo mi chiedono dove sono stato dopo l’8 settembre, racconto del campo di concentramento in Polonia, degli eventi successivi e di come sono riuscito a ritornare in Italia. Finito di pranzare ci alziamo e andiamo al bar, alle 13.30 sono di nuovo all’Ufficio Personale. L’Ufficiale mi chiede quando ho superato l’ultimo controllo dell’Istituto Medico Legale, rispondo che l’ultima visita risale ad almeno due anni prima. Dice che domani dovrò sottopormi al controllo medico previsto per il personale di volo, mi prepara la documentazione necessaria e me la consegna in una busta. All’Istituto Medico di Torino, dopo i consueti controlli, il Colonnello Direttore vuol sapere come mai non ho fatto alcuna visita negli ultimi due anni. Gli spiego le mie avventure, scrive ogni cosa e conclude dicendo che sono fisicamente a posto. Sono lieto di sentirlo, sono di nuovo in forma e abile al volo. Ritorno a Venaria Reale, divenuto il centro di smistamento dei piloti da Caccia dell’Aeronautica della RSI. Consegno la lettera dell’Istituto che certifica la mia idoneità all’Ufficiale, il quale mi conferma l’assegnazione al III Gruppo Caccia di Fossano. Debbo presentarmi al Comandante, il cap. Malvezzi, è un Ufficiale proveniente dal IX Gruppo del 4° Stormo di Gorizia e sui suoi aerei ha fatto dipingere il “Cavallino” del 4°. Il giorno dopo a Fossano incontro alcuni piloti che conosco e tra questi il cap. Bonzano: anche lui viene dal 4° Stormo e nel 1940 è stato mandato in Belgio al Comando del XX Gruppo Caccia. Vengo introdotto nell’Ufficio del Comandante, sta compilando una lista di piloti da inviare in Germania per la transizione sui Me 109 G della Luftwaffe che dovranno essere assegnati. Gli chiedo di essere esentato dai combattimenti. “Non me la sento di combattere contro gli equipaggi americani, ho i genitori in America, sono nato lì e un fratello e due cugini prestano servizio nelle forze armate degli USA”, gli spiego. Il Capitano è comprensivo e mi promette che farà in modo di esentarmi dai combattimenti; nel frattempo, fin quando non verrò trasferito, dovrò fare il servizio di guardia come tutti gli altri. Due settimane dopo sono trasferito a Milano, rimango lì altre due settimane per poi andare a Bergamo.

A BERGAMO E A MILANO 
Debbo trovare un appartamento per portare Maria e Dany. Un amico mi consiglia di cercare in montagna, dove si corrono meno rischi visto che i bombardamenti colpiscono quasi esclusivamente le città. Mi ha indicato un paesino, Almenno San Bartolomeo, in provincia di Bergamo, a poca distanza da Ponte San Pietro, dove la Caproni costruisce e collauda i suoi aerei: il paese è su un lato della montagna e da lì si domina l’aeroporto. Trovo un appartamento ammobiliato di due stanze, piccolo ma comodo. Ho cinque giorni di congedo per andare a prendere Maria e Dany. Avrei voluto che Adriana venisse a stare con noi ma ha preferito restare a Musestre, suo marito sa dove lei abita e se dovesse rientrare dalla prigionia andrebbe a cercarla lì. Ci dispiace separarci, è molto affezionata a Maria e Dany ma purtroppo non ci sono altre soluzioni e io voglio stare vicino alla mia famiglia. Rimango a Bergamo per tre settimane e poi sono trasferito a Milano, in una caserma dove sono ospitati i militari che per vari motivi non partecipano direttamente alle operazioni militari. Incontro alcuni piloti che mi dicono di non volere più aver a che fare con la guerra, si sono presentati solo per evitare problemi alle loro famiglie e non essere perseguitati da tedeschi e fascisti. Vengo assegnato al magazzino vestiario e a quello alimentare. I tempi sono sempre più duri, ci sono militari che hanno parenti in difficoltà, li aiuto dando loro quello che posso, facendolo risultare deteriorato o ammuffito; di solito si tratta di generi alimentari. Sembra che la guerra stia finendo, i tedeschi sono ormai in ginocchio, gli Alleati e i russi stanno avanzando in Germania e si avvicinano a Berlino, la Francia è stata completamente liberata. Le forze tedesche in Italia, affiancate dalle poche e mal armate unità che il Governo fascista è riuscito a mettere insieme, stanno combattendo con vigore, ma di fronte alle soverchianti forze alleate debbono retrocedere. Nella caserma non c’è molto da fare, si gioca a carte con gli amici, qualcuno dice che saremo catturati e diventeremo prigionieri di guerra, qualcun altro che la guerra terminerà a giugno. Anch’io dico la mia: secondo me la guerra finirà ancora prima. Uno di loro ribatte “Cosa vai dicendo!” e io ribadisco che gli USA e l’URSS hanno accerchiato Berlino, la guerra è praticamente finita. Un Maresciallo che non conosco si alza in piedi e mi punta un dito contro: “Io ti rompo la faccia, vigliacco di un americano!”, strilla. Poso le carte sul tavolo, mi alzo e gli rispondo “Provaci se ne sei capace!”. Lui fa un passo indietro e mi tira un pugno che paro col braccio; mi abbasso e lo colpisco violentemente allo stomaco, per proteggersi si piega e lo colpisco al volto. Gli amici ci saltano addosso e ci bloccano. Ha un taglio al labbro e lo accompagnano all’infermeria, l’ufficiale medico stila il rapporto e vengo chiamato dal Comandante che mi fa una ramanzina e mi consegna per una settimana.

LA FINE DELLA GUERRA 
Due giorni dopo, alle 10 del 24 aprile 1945, una sventagliata di colpi investe la caserma: i partigiani ci stanno sparando addosso, siamo fortunati, nessuno dei nostri è stato colpito. Siamo armati ma non rispondiamo al fuoco, cosa che induce i partigiani a non sparare più e a mandare un sacerdote a negoziare con il Comandante. Possiamo lasciare la caserma per ritornare alle nostre case, la guerra per noi è finita. La caserma e tutto il materiale sono consegnati al CLN (Comitato di Liberazione Nazionale). Prima di andarcene passiamo all’Ufficio Amministrativo per ritirare lo stipendio. Mentre attendo il mio turno vedo il sacerdote che ha condotto le trattative, si avvicina insieme al nostro barista civile e scambiamo alcune parole. È armato ed è in compagnia degli altri partigiani che portano tutti la stella rossa sul berretto, mi dice di essere partigiano ma non comunista, suo fratello è stato ucciso in Russia. Mi chiede della mia famiglia. Rispondo che, riscossa la paga, intendo raggiungere i miei ad Almenno San Bartolomeo, mi dice che avrò bisogno di un lasciapassare per superare i blocchi stradali. Si offre di accompagnarmi al suo Comando per ottenerne uno e poter ritornare a casa. Lo seguo, il posto adibito a Comando partigiano è sistemato in una vecchia casa a un paio di chilometri di distanza. Per ottenere il lasciapassare perdiamo parecchio tempo perché il sacerdote deve garantire per iscritto che non ho mai preso parte ad azioni contro i partigiani e io dichiarare che non ho mai portato una pistola, che sono tornato da poco da un campo di concentramento in Germania e che al mio ritorno non ho preso servizio perché molto malato. Ricevuto il lasciapassare mi avvio verso il centro di Milano; è troppo tardi per mettermi in marcia per Bergamo, lontana circa una cinquantina di chilometri. Per strada ci sono un paio di corpi di persone giustiziate sommariamente, alla stazione ferroviaria un partigiano sta urinando su un cadavere in uniforme fascista. Sono allibito, non ho mai pensato che l’odio potesse spingere a tanto. In viale Monza dei colpi secchi provengono improvvisamente dall’altra parte della strada, i proiettili sibilano vicinissimi, mi abbasso e mi proteggo dietro al primo angolo. Vado a sbattere addosso a un partigiano, finiamo entrambi per terra sul marciapiede, mi punta addosso la sua arma ma quando vede che non sono armato esclama “Sei matto? Stiamo snidando i fascisti dalla casa di fronte. È una fortuna che non ti abbiano beccato!”. Vuol vedere il lasciapassare, controlla il timbro e mi dice di tornare indietro da un’altra strada. Gli chiedo dove posso trovare un albergo o una locanda. “Poco più avanti ce ne sono un paio, non puoi sbagliare”, risponde. Al primo albergo che trovo hanno tutte le stanze occupate, il portiere me ne indica un altro a un isolato di distanza. Quando arrivo mi dicono di avere solo una camera matrimoniale, la prendo lo stesso, dovrò pagare il doppio ma non posso rischiare di rimanere per strada. In camera mi do una lavata e poi scendo per vedere se si può mangiare, ma la cucina è chiusa perché i cuochi sono andati con i partigiani. Un cameriere mi porta un po’ di pane e un uovo sodo, gli do una mancia e mi offre un bicchiere di vino. Mentre conversiamo si sentono un paio di volte degli spari per strada, verso mezzanotte tutto sembra tranquillo quindi vado a dormire. Mi alzo presto, guardo fuori dalla finestra, non si vede il sole ma non dovrebbe piovere almeno per un po’. Mi vesto, pago il conto e mi incammino verso Monza per prendere la strada Statale che porta a Bergamo, è deserta, cammino e canto per far passare il tempo. Da un boschetto sbucano dei partigiani armati fino ai denti. “Ehi Caruso, fermati”, mi intimano, “Fai vedere il lasciapassare, dove stai andando?” Porgo il documento rilasciatomi e spiego che vado ad Almenno San Bartolomeo, dalla mia famiglia. Mi restituiscono il lasciapassare e mi dicono che è una buona camminata di almeno una quarantina di chilometri fino a Bergamo e altri otto per Almenno San Bartolomeo. Mi riavvio e dopo qualche chilometro ho la fortuna di trovare un uomo su un calessino che va a trovare la moglie sfollata a Vaprio d’Adda, un paese vicino a Dalmine. Mi offre un passaggio, è molto preoccupato e mi dice che a Milano è quasi impossibile vivere normalmente. Una volta arrivati proseguo verso Dalmine ma nei pressi della cittadina vengo di nuovo bloccato dai partigiani. Questi sono più sospettosi, dopo aver esaminato il lasciapassare mi fanno un sacco di domande, da dove arrivo, dove vado, cosa faccio, ma infine si tranquillizzano. Il loro capo mi chiede “Ma non sei stanco?” “Certo”, rispondo, “E devo ancora fare 10 km per arrivare ad Almenno San Bartolomeo”. Lui allora chiama suo figlio. “Prendi la bici”, gli dice, “Dagli un passaggio fino a Ponte San Pietro. Pedalate a turno”. Lo ringrazio e salgo sulla canna della bicicletta. Quando troviamo un’osteria ci fermiamo per riposarci e gli offro da bere, poi la strada inizia a salire, mi lascia e torna indietro. Verso le 17 sono alle prime case del paese, c’è un posto di blocco, conosco due dei partigiani. Il loro capo mi chiede come ho fatto ad avere un lasciapassare, sa che sono dell’Aeronautica, mi chiede se faccio parte dei partigiani di Milano. Mi restituisce il documento invitandomi a presentarmi al Comando partigiano, questi sono gli ordini del suo capo, il parroco del paese don Gino Terzi, e manda avanti uno dei suoi per avvisarlo del mio arrivo. Rispondo “D’accordo, ma prima fatemi passare a casa e poi vado da don Gino!”. Quando sono vicino a casa Maria è alla finestra e mi vede, scende e mi corre incontro. “Dove sei stato?”, mi chiede, “Ero preoccupata, la radio ha detto che a Milano ci sono disordini ed esecuzioni sommarie, hanno catturato ed ucciso Mussolini, la Petacci e diversi gerarchi fascisti. I cadaveri del Duce e degli altri sono stati portati a piazzale Loreto e appesi a testa in giù”. Sono allibito, mi sembra impossibile che gli italiani abbiano fatto una cosa simile. Dico a Maria che ora dobbiamo aspettarci di tutto, anche che il Re venga cacciato. Entro in casa, mi chiede se ho fame. “Da lupo!”, rispondo. Mi dice di sedermi, ha già pronto tutto. Mentre sto mangiando il ragazzo che era andato ad avvisare don Gino bussa alla porta e, quando Maria lo fa entrare, mi dice che sono atteso al Comando. Ho sempre con me, per ricordo, una piccola bandiera americana, aggiungo sopra quattro nastri per farne un bracciale che mi metto prima di andare al Comando dei partigiani. Quando arrivo notano il bracciale che indosso e non dicono nulla. Il capo di tutti i partigiani di Almenno San Bartolomeo è il medico del paese, è venuto qualche volta a casa mia per visitare Dany, non sapevo che fosse un partigiano. Gli racconto il mio passato, quando ho finito mi chiede se ho armi in casa e mi lascia andare. Rimango al paese per tre giorni, sono momenti difficili, è meglio non cercare guai, aiuto Maria in casa. Don Gino viene a trovarci, lo invitiamo a fermarsi a pranzo con noi, mi dice che a Bergamo gli Alleati stanno cercando persone che sappiano parlare inglese e italiano. Mi consiglia di andare a sentire e aggiunge che posso usare la sua bicicletta. Lo ringrazio e la mattina successiva sono in cammino per Bergamo. Incontro un convoglio di carri armati americani diretti in Germania. Più avanti c’è un carro fermo sul lato della strada, mi fermo per dare un’occhiata; stanno lavorando al motore, mi avvicino e sento uno dei due carristi redarguire l’altro “Scommetto che anche questo tizio saprebbe trovare il guasto!”, e io prontamente “Veramente di carri armati non ci capisco niente”. Rimane sorpreso, scambiamo qualche parola e quando ci salutiamo mi allunga due razioni K e due pacchetti di Chesterfield. Riprendo la strada per Bergamo.

AUTISTA ED INTERPRETE PER GLI ALLEATI 
Entro nel Municipio, che è diventato un Comando del Governo Militare Alleato, e chiedo di parlare con un Ufficiale. Mi viene indicato l’ufficio di un Capitano. Busso, mi apre un ufficiale inglese, mi chiede in italiano cosa voglio, gli rispondo in inglese che sono alla ricerca di un lavoro come interprete. Mi fa sedere e si presenta, è il cap. Daniel Walker, al servizio di sua Maestà. Vuole sapere cosa sto facendo qui in Italia. Gli racconto la mia storia nella Regia Aeronautica, mi chiede se so guidare un camion e mi propone come lavoro di requisire per conto degli Alleati tutti i mezzi di trasporto della provincia di Bergamo. Conoscendo l’inglese potrò fare anche da interprete per gli altri italiani alle dipendenze del Comando. Rispondo “Accetto, Signore!”, e lui “Affare fatto! Comincerai domani. Dipenderai da me e sarai il responsabile dei camionisti italiani. Con i mezzi requisiti organizzeremo dei convogli per trasportare merci e viveri per le popolazioni in diverse città”. Tira fuori una bottiglia di scotch whisky, mi chiede “Quanto tempo è passato dal tuo ultimo whisky?”, e riempie due bicchieri. “Almeno tre anni, Signore”, rispondo, e gli offro una sigaretta americana. Monto sulla bicicletta e prendo la strada verso casa, sono felice perché ho due razioni K, un lavoro e due pacchetti di sigarette americane. Arrivato al paese vado da don Gino e gli chiedo se posso usare la sua bicicletta per andare a lavorare fin quando non potrò comprarne una, mi risponde che posso tenerla perché ne ha un’altra. Il giorno dopo debbo alzarmi molto presto, Maria ha preparato la sera prima dei panini da portare via e una lettera per i suoi genitori da imbucare a Bergamo. Sono al Municipio prima delle otto e attendo il cap. Walker davanti al suo ufficio. Quando arriva mi consegna dei cartelli con la scritta AMG, Allied Military Government, che devono essere apposti sui mezzi che lavorano per l’Amministrazione Militare. Mi invita a seguirlo; usciamo dal Municipio, fuori è parcheggiata una Lancia, mi fa cenno di mettermi alla guida e si siede dietro. Lo accompagno alla periferia di Bergamo e requisiamo una quindicina di grossi camion nelle fattorie dove i proprietari li avevano nascosti per evitare che fossero sequestrati dai tedeschi in ritirata. Troviamo anche diversi mezzi tedeschi, incluso un trattore pesante e il suo rimorchio, adibito al trasporto del carro armato Tigre. Il cap. Walker è soddisfatto del lavoro fatto e dice che gli sono stato di grande aiuto. Diventiamo amici ed è molto disponibile, mi lascia prendere la Lancia per tornare a casa alla sera. Posso tenerla anche alla domenica e mi mette a disposizione una tanica di benzina. Con i camion faccio alcuni viaggi fino a Piacenza e Novara per caricare zucchero e riso da trasportare a Bergamo e anche a Milano. Trovo lavoro anche a due ragazzi che erano partigiani ad Almenno San Bartolomeo e don Gino ne è molto contento, loro sono riconoscenti e si danno da fare affinché i mezzi che hanno frequenti guasti ritornino al deposito anche a costo di trainarli quando non si trovano i pezzi di ricambio. Un giorno il cap. Walker mi chiama nel suo ufficio, mi dice che l’AMG cessa la sua attività e bisogna restituire i mezzi ai loro legittimi proprietari. L’AMG sarà trasferito in Germania, mi restano ancora due o tre settimane di lavoro con loro. La sera, a casa, ne parlo con Maria: dice che con i pochi soldi che abbiamo guadagnato possiamo andare a Napoli dove potrei recuperare il mio Stato di Servizio e cercare di rientrare nell’Aeronautica Militare Italiana che si va ricostituendo. Io vorrei tornare, se possibile, negli Stati Uniti ma prima debbo mettermi in contatto con mio padre e mio fratello, sempre che siano ancora vivi.

LA VISITA DI PASQUALE, IL FRATELLO DI MARIA 
Una settimana dopo che ho smesso di lavorare con l’AMG sto giocando con Dany e Maria cuce nella veranda quando improvvisamente vede suo fratello scendere da una berlina davanti alla chiesa. Si alza in piedi, lascia cadere la camicia che stava cucendo e chiama Pasquale; lui la sente e si precipita verso casa, noi scendiamo al piano terra e gli andiamo incontro. Maria è felice, ha le lacrime agli occhi, restano abbracciati per alcuni secondi. Pasquale vuol vedere Dany, entriamo in casa, Maria lo bombarda di domande sulla sua famiglia, tutti stanno bene. Chiede cosa sto facendo, rispondo che ho lavorato per gli Alleati, ora si sono trasferiti nella provincia di Trieste, nella cosiddetta Zona “A” amministrata dagli americani, accanto alla Zona “B” che si trova sotto il controllo della Jugoslavia. Sto pensando di andare a Trieste e continuare il lavoro iniziato qui. Pasquale mi interrompe, mi dice di andare a Napoli, lì c’è molto da fare, posso trovare subito lavoro con la mia conoscenza dell’inglese. Maria mi guarda: si capisce che vorrebbe tornare a Napoli dai suoi, non posso dirle di no, dopotutto è rimasta al Nord da sola per tanti mesi ad attendermi, così rispondo “Va bene, torniamo!”. Pasquale deve andare a Milano a prendere alcune parti di ricambio per la Lancia che non si trovano a Napoli, pensa di partire nel pomeriggio con i due compagni di viaggio. Quando ritorneranno, tra tre giorni, ci porteranno tutti a Napoli. Dico a Maria che mi presenterò al Ministero dell’Aeronautica per vedere di riprendere il servizio, non ho fatto nulla di cui possa essere biasimato. Il giorno dopo torno a Bergamo per incontrare il capitano Walker che mi consegna gli arretrati della paga. Mi offre un bicchiere di Johnny Walker, gli dispiace non potermi portare con sé, nemmeno lui sa dove sarà destinato. Lo ringrazio per l’opportunità di lavoro che mi ha dato in un momento per me difficile e gli dico che è stato un piacere lavorare con lui. A casa cominciamo a preparare le poche cose da portare via, non c’è molto posto nella Lancia, regaliamo il resto al proprietario dell’appartamento. Il cap. Walker mi ha dato una lettera da aprire a casa insieme a mia moglie, lo faccio mentre siamo a tavola e mangiamo, contiene tre banconote da una sterlina e un foglietto su cui c’è scritto di usarle per qualcosa di piacevole pensando a lui. È un bel pensiero! Maria chiede quanto valgono tre sterline, non lo so, voglio conservarle fino a quando non saremo a Napoli. Pasquale ritorna la sera del secondo giorno, dormiamo tutti nel nostro appartamento: noi in cucina, per terra, su dei materassi, Pasquale e i suoi due amici nel nostro letto.

IL RITORNO A NAPOLI 
Il giorno dopo partiamo di primo mattino, dopo aver caricato all’inverosimile la Lancia. Arriviamo verso mezzogiorno a Piacenza dove dobbiamo aspettare tre ore prima di poter passare sul ponte di barche costruito dal corpo degli ingegneri militari americani. Tutti i ponti sul Po sono stati fatti saltare per aria o distrutti dai bombardamenti. Siamo ancora in giugno e fortunatamente il tempo in questo periodo è sempre buono. Impieghiamo cinque giorni per raggiungere Napoli. Incontriamo alcuni posti di blocco della Military Police, la Polizia Militare americana, e grazie al mio inglese non abbiamo problemi, ci lasciano passare. Arriviamo a Napoli alla sera tardi, le strade sono deserte, solo qualche mezzo della Military Police. Quando arriviamo davanti alla casa di Maria alcuni amici di famiglia sono sul poggiolo a godersi il fresco prima di andare al letto, si premurano di avvisare i suoi genitori. La madre, il padre, Antonietta e Rita ci vengono incontro sulle scale e ci abbracciano, poi prendono Dany dalle braccia di Maria. Anche i vicini vengono a salutarci. Entriamo tutti in casa, dopo alcuni minuti i due compagni di Pasquale ci salutano. Le due zie di Maria, che vivono al piano di sopra, vengono a salutarci, c’è una grande allegria per questa attesa riunione familiare. I genitori di Maria ci preparano qualcosa da mangiar, le sorelle si occupano di Dany. Maria e io siamo tempestati di domande, l’ultimo ospite se ne va verso le tre del mattino e finalmente andiamo a letto. Mi sveglio tardi, Maria è già in piedi, ha dato da mangiare a Dany e ora aiuta la madre. Esco, tutto è rimasto pressoché com’era due anni fa, vedo alcune case danneggiate dal bombardamento dei tedeschi, mi dicono che c’è stato un solo bombardamento tedesco sulla città. La gente non sembra molto cambiata dalla guerra, sono tutti gioviali e disponibili, nei vicoli si sente cantare in napoletano. Intorno al nostro quartiere tutte le case migliori sono state requisite dalle Forze Alleate che le usano come uffici o alloggi degli ufficiali. Poco distante c’è il circolo Ufficiali dell’Aviazione Americana, alcuni soldati tedeschi, probabilmente POW (Prisoner Of War), stanno lavorando.

AL MINISTERO DELL’AERONAUTICA 
Trascorsi alcuni giorni decido di presentarmi al Comando dell’Aeronautica di Napoli per conoscere la mia posizione, se sarò congedato o se riprenderò servizio. Non ho nessun documento del periodo trascorso al Nord dopo l’8 settembre, solamente un paio di dichiarazioni rilasciate da don Gino e dal medico condotto, capo dei partigiani di Almenno San Bartolomeo. Il lunedì successivo mi presento in caserma, incontro un paio colleghi che mi conoscono e mi accompagnano all’Ufficio Personale. Mi dicono che debbo recarmi al Ministero a Roma dove sono conservati tutti i documenti, solamente lì decideranno il mio futuro. Due giorni dopo mi presento all’Ufficio Personale del Ministero, il responsabile è un Colonnello che conosco da quand’era Tenente. Mi fa alcune domande e mi consegna dei moduli in cui mi viene richiesto quello che ho fatto dall’8 settembre 1943. Allego al modulo le due dichiarazioni che ho ricevuto dai partigiani. Il Colonnello legge quanto ho scritto e aggiunge alcune annotazioni. I documenti saranno consegnati alla commissione speciale che si riunisce questo pomeriggio, domani conoscerò il responso. Ringrazio e lascio l’ufficio. Fuori dal Ministero incontro due colleghi, loro vogliono ottenere il congedo, non desiderano aver più a che fare col nuovo Governo italiano, intendono espatriare in Sud America e cominciare un’altra vita. In città vengo fermato un paio di volte dalla MP che controlla i documenti. Dormo in una caserma dove ci sono gli alloggi dei Sottufficiali e il mattino successivo, alle 10.30, sono di nuovo al Ministero. Il Colonnello mi accoglie nel suo ufficio, mi fa accomodare, apre la mia cartella e, dopo un’occhiata all’incartamento, mi dice che posso considerarmi ancora in servizio attivo a paga intera. Riceverò ordini dal Presidio di Napoli al quale sono stato assegnato. Nel frattempo sono in licenza illimitata in attesa che l’Aeronautica Militare venga riorganizzata, riceverò lo stipendio a Napoli insieme a tutti gli arretrati. Gli ordini che mi concernono sono già redatti e li debbo consegnare al Presidio di Napoli insieme a un plico di documenti destinati all’Ufficiale responsabile.

A NAPOLI  IN ATTESA DELLA RICOSTITUZIONE DELL’AERONAUTICA ITALIANA 
Tiro un sospiro di sollievo, sono felice. In questa giornata di luglio del 1945 provo la stessa sensazione di gioia e sollievo di quando nel 1933 uscii dallo stesso Ministero per diventare un pilota dell’Aeronautica Italiana. A casa Maria era in ansia e mi aspettava, mi chiede cos’è il grosso pacco che ho con me. “Sono documenti per il Presidio di Napoli”, le rispondo, “Debbo consegnarli domani. Sono di nuovo in Aeronautica!”. Mi abbraccia, è sollevata dalla buona notizia. L’indomani consegno il pacco con i documenti e la posta all’Ufficiale del Presidio, mi chiede come mai ho io tutti questi documenti, poi tira fuori la lettera con i miei ordini e me la mostra. Debbo ritornare prima di mezzogiorno per prendere la mia licenza e passare all’ufficio Cassa per ritirare gli stipendi arretrati. Sono di ritorno alle 11.30, ritiro i miei documenti, l’ufficio Cassa ha ricevuto l’ordine di pagamento e prelevo anche gli arretrati di un anno, oltre al mese di luglio. L’ufficiale mi accompagna al Circolo Sottufficiali dove incontro una vecchia conoscenza, Mario Tesseri, il collega che suonava il pianoforte a Gorizia quando arrivai nel 1933, al 21° Stormo della Ricognizione. Torno a casa con i soldi infilati nelle tasche, debbo stare attento perché prendendo il fazzoletto alcune banconote da 1000 lire mi sono già cadute a terra. Ho la necessità di trovare un appartamento, non possiamo rimanere a casa dei suoceri a lungo, c’è un piccolo appartamento all’ultimo piano che si libererà a breve. Andiamo a vederlo, è in via S. Teresa a Chiaia, non distante da via Caracciolo. Ci piace, è piccolo ma con la vista sul golfo di Napoli, il giorno dopo firmiamo il contratto. Scrivo una lettera a mio padre, le ultime notizie che ho di lui risalgono ad almeno tre anni fa. Tre settimane più tardi ricevo una lettera di mio fratello: mio padre è passato a miglior vita il 30 settembre 1943. Rimango molto male, pensavo di farlo venire per un paio di mesi a Napoli per conoscere Maria e vedere il suo primo nipotino. Non avendo nulla da fare vado a Capodichino a guardare i decolli e gli atterraggi degli aerei militari americani. Mi rattrista sapere che ho le capacità per fare le stesse cose e invece sono costretto a terra! Conosco alcuni italiani che lavorano per l’Aviazione americana, mi suggeriscono di recarmi all’ufficio di collocamento civile dell’USAF in città. Dovrei avere buone probabilità di trovare lavoro, l’indirizzo è a due isolati da casa mia. Il giorno dopo mi reco all’ufficio con la lettera di referenze del cap. Walker, un sergente mi accompagna dall’Ufficiale che si occupa del personale, gli spiego che ho già lavorato con l’AMG e gli consegno la lettera. Mi chiede se parlo tedesco, mi dice che ci sarebbe un posto come autista del servizio di trasporto del personale dell’aeroporto. Ci sono una quarantina di prigionieri tedeschi e alcuni civili italiani già impiegati come autisti. Mi consegna un permesso per utilizzare il bus militare per l’aeroporto e una lettera per il responsabile dei trasporti, avrò un periodo di prova di dieci giorni. In aeroporto chiedo dell’Ufficiale, si chiama Len Beck, mi fa alcune domande, non dico né a lui né agli altri che ero pilota. Chiama un sottufficiale e gli dice di spiegarmi le mie mansioni, come compilare i biglietto di viaggio, riempire i moduli e le differenti priorità dei passeggeri VIP. Mi domanda se conosco abbastanza bene Napoli, dovrò prelevare gli equipaggi e trasportarli in tempo utile in aeroporto. Mi abituo in fretta a questo nuovo lavoro, dopo dieci giorni il cap. Beck mi nomina capo degli autisti del mio gruppo. Mi capita di prelevare anche il Comandante della base, il col. Davis: è lieto di avermi come autista, così può scambiare qualche parola in inglese durante il viaggio. Un giorno debbo prelevare un VIP: si tratta di un membro del Congresso americano in ispezione. Gli faccio visitare Napoli, è piacevolmente sorpreso di avere come autista un italoamericano e prima di scendere mi consegna una busta con dentro una banconota da venti dollari. Faccio amicizia con tutti nella base e mi presto a fare qualche lavoretto per il direttore della mensa. Lui mi ricambia con generi alimentari molto utili in questi difficili momenti del dopoguerra. Un giorno il cap. Beck mi convoca e dice “C’è una missione di due giorni. Devi accompagnare il s.ten. Bailey a Foggia. Prendi un autocarro che funzioni bene, fai il pieno di carburante, controlla l’olio e l’acqua nel radiatore. Devi caricare due motori di B 17 per un aereo bloccato in Bulgaria”. Partiamo, il tempo è buono, arriviamo a Foggia poco dopo mezzogiorno, gli MP all’ingresso dell’aeroporto ci indicano il magazzino. Lasciamo in consegna l’autocarro agli addetti che provvederanno a spostarlo sulla rampa e caricare i motori, noi ci rechiamo in mensa per rifocillarci. Il giorno dopo, quando torniamo, il capo magazziniere ci consegna l’autocarro, il carico è bloccato con cavi sui pianali ed è stata anche aumentata la pressione dei pneumatici. Il viaggio di ritorno dura quattro ore e mezza. Quando arriviamo accompagno il ten. Bailey alla mensa per informare il capitano Beck che abbiamo portato a termine la missione. Il Capitano mi invita a fermarmi a pranzo e quando ho finito mi dice di aspettarlo, vuole accompagnarmi lui stesso a casa. Lungo la strada ci fermiamo al Circolo Ufficiali USA e mi offre da bere, è soddisfatto di me, oramai è un anno e mezzo che lavoro alla base. Qualche giorno dopo ho un altro trasporto per Roma, devo condurre il CID ten. Dante all’Ambasciata americana. Al mio ritorno apprendo che gli jugoslavi hanno abbattuto due aerei militari americani. Uno dei due era partito da Capodichino, pilotato dal tenente Boisvert, un amico. Lui e il suo equipaggio sono salvi, purtroppo non si è salvato nessuno dell’altro aereo. Così la Jugoslavia ripaga gli USA per l’aiuto nella liberazione del Paese dalle truppe germaniche! Il caso crea una crisi internazionale tra gli USA e la Jugoslavia, quest’ultima sostenuta dall’URSS.

IN VOLO CON UN AEREO DELL’USAF 
Dopo il pranzo sono sul piazzale e osservo gli specialisti che stanno preparano gli aerei quando arrivano il ten. Beck e il cap. Fred Pennington. Mi chiedono come mai mi interesso agli aerei, fino a ora non ho mai detto nulla a nessuno, prendo dalla tasca il portafoglio e gli faccio vedere la licenza di pilota militare. Sono sorpresi, racconto la mia storia e spiego che non potevo essere arruolato nell’Aviazione americana perché mi mancavano due anni di scuola superiore. Sorridono. “Non più”, risponde il cap. Pennington, “Sicuramente non in tempo di guerra!”. Il Capitano è anche il “test pilot” della Squadriglia, deve effettuare un volo per compensare la radio bussola di un velivolo. Mi chiede se mi fa piacere andare in volo con lui e col ten. Bailey che dovrebbe arrivare a minuti. Il Capitano mi fa sedere al posto del copilota mentre il ten. Bailey e il meccanico si siedono dietro di noi. Metto anch’io la cuffia e seguo le comunicazioni con la Torre, siamo autorizzati al rullaggio e al decollo, appena pronti. Dopo il decollo il Capitano, con un cenno, mi cede i comandi; cerco di essere il più delicato possibile, mantengo la velocità, il rateo di salita e la prua. Il ten. Bailey e lo specialista si occupano della girobussola confrontandola con la bussola magnetica. Livello a 10.000 piedi e “trimmo” il velivolo in modo che mantenga la quota. Il Capitano sintonizza l’ADF (Automatic Directional Finder) sulla frequenza del radiofaro di Ponza e mi dice di seguire l’indicazione della lancetta sullo strumento. Quando sorvoliamo il radiofaro l’ago oscilla e poi punta verso il basso, indicando che ora la stazione l’abbiamo in coda all’aereo. Non ho mai visto questi strumenti e penso che se li avessimo avuti sui nostri caccia notturni molti ragazzi non si sarebbero persi. È la prima volta che porto un aereo così grande, sono fuori allenamento, mi accorgo di essere sudato per l’impegno richiesto. Il Capitano si congratula per come ho pilotato, riprende i comandi e torniamo a Capodichino. Trascorrono tre anni, il Reparto americano lascia Capodichino e viene trasferito a Wiesbaden in Germania. Gli aerei rimasti vengono assegnati all’EATS (European Air Transport Service) che poco dopo diventa MATS (Military Air Transport Service) e viene spostato a Livorno. Tutte le infrastrutture sono affidate all’AGR (American Grave Registration), il nostro lavoro consiste nel recuperare e identificare le salme dei soldati americani caduti sui fronti Nord Africano, balcanico e in Italia. Le spoglie arrivano in aereo a Capodichino dove vengono composte e, quelle richieste dalle famiglie, inviate negli USA. Le altre vengono tumulate nei cimiteri militari di Anzio e Firenze. Il mio compito consiste nel seguire le pratiche delle salme richieste dai familiari.

Il 4° STORMO ARRIVA A CAPODICHINO 
Lavoro con l’AGR da un anno e mezzo quando, nel settembre del 1947, il mio vecchio 4° Stormo di Gorizia viene trasferito a Capodichino. Il Comandante è il col. D’Agostinis, era Capitano quando comandava la mia Squadriglia. Lo Stormo ora ha in dotazione gli F 51 Mustang. Incontro alcuni vecchi compagni di Squadriglia, vogliono saper come mai sono all’A.G.R. Mi suggeriscono di chiedere di rientrare in servizio attivo. L’Aeronautica si sta riorganizzando, i pochi piloti esperti come me sono preziosi per addestrare le nuove leve. Allo Stato Maggiore il gen. Aldo Remondino ricopre un alto incarico, potrei chiedere il suo aiuto ma non gli sono mai stato molto simpatico, anche quando facevo parte della sua Squadriglia: non è il caso! Il gen. Mario Pezzi, ancora detentore del record mondiale d’altezza, è il Capo Ufficio del Personale al Ministero, il suo aiuto mi appare più probabile. Negli ultimi tempi stavo pensando di emigrare in Sud America, l’ambasciatore del Perù mi aveva promesso la sua intercessione per un lavoro in una compagnia petrolifera del suo Paese. Ora però sto valutando la possibilità di rientrare in servizio attivo in Aeronautica. Maria è favorevole all’idea, non desidera andare in Perù, anche perché è incinta del nostro secondo figlio. Prendo il treno, viaggio di notte e arrivo a Roma alle cinque del mattino, il Ministero apre alle otto, mi riposo nella sala d’attesa della stazione Termini. Entro nel Ministero insieme agli altri, nessuno mi chiede nulla, mi informo dov’è l’Ufficio del gen. Pezzi, un Sergente me lo indica, dice che il Generale arriverà più tardi, verso le nove. Salgo al piano di sopra, attendo e poi busso alla porta dell’ufficio del Generale. Senza aspettare di essere invitato ad entrare, apro la porta e resto accanto all’uscio in silenzio. Il gen.  Pezzi, pur avendomi notato, non dice niente fin quando non finisce di leggere alcuni documenti. Alza lo sguardo e mi chiede chi mi ha autorizzato a entrare. “Nessuno”, rispondo, “Ho bussato e aperto la porta. Sono il m.llo di II Classe Vincenzo Patriarca”. Mi chiede cosa voglio. “Generale, ho bisogno del suo aiuto, chiedo di essere richiamato in servizio attivo di volo”. Vuole sapere del mio passato in Aeronautica e conclude “Vediamo cosa posso fare”. Chiama al telefono un Maggiore ordinandogli di seguire le pratiche per richiamarmi in servizio attivo. Mi dice che tra quindici giorni tutta la documentazione sarà inviata al Presidio di Napoli assieme alle disposizioni che mi riguardano. È il 28 gennaio 1949, sono commosso e non mi sembra ancora vero, ringrazio il Generale e saluto.

DI NUOVO IN AERONAUTICA 
Ritorno a Napoli, racconto tutto a Maria che benedice il Generale e dice che è un sant’uomo. Una ventina di giorni dopo, il 22 febbraio 1949, Maria mette al mondo Sergio, il nostro secondogenito. I nostri risparmi se ne vanno per le spese che dobbiamo sostenere, per fortuna tutto si svolge senza problemi. Dopo due mesi ancora non ho ricevuto alcuna comunicazione dal Ministero, decido di scrivere una lettera al gen. Pezzi, mi risponde dopo tre settimane: a causa delle difficoltà per la riorganizzazione dell’Aeronautica la mia pratica è ancora ferma, sarò presto richiamato in servizio e assegnato alla Zona Aerea di Roma. I miei ordini giungono dopo quindici giorni, devo presentarmi al Presidio per ritirare i documenti, vengo assegnato alla caserma dell’Aeronautica “ Montezemolo”, al centro di Roma, dove prenderò servizio il 16 agosto. Tiro fuori la mia uniforme, la stiro e due giorni dopo sono a Roma. Al mio arrivo una guardia mi accompagna all’Ufficio del Personale, presento i miei documenti e vengo subito inserito nei turni di servizio. Sono incaricato di istruire le reclute, mi viene assegnato un plotone di venti uomini. Mi sento fuori posto, è come essere in fanteria e non in Aviazione e oltretutto non so da dove cominciare. Mi sono assegnati come subalterni due Sergenti, gli ordino di iniziare ad addestrare i giovani, imparerò da loro. Le cose vanno avanti così per tre mesi, comincio ad averne abbastanza della vita di caserma. Quando posso torno a Napoli per vedere come stanno Maria e i bambini. Vado al Ministero dell’Aeronautica, chiedo di essere trasferito in una Squadriglia da Caccia. Quando sono libero dal servizio vado a visitare gli aeroporti intorno a Roma. A Ciampino, dove si concentra gran parte del traffico militare, incontro alcuni vecchi amici. Guidonia è più lontano e per arrivarci debbo prendere il treno, mentre Centocelle è il più vicino alla città. Qui l’11 ottobre incontro il magg. Zavadlal, era Tenente a Treviso al 54° Stormo. Gli racconto la mia storia e dei miei tentativi per tornare a volare. Mi invita ad andare in volo con lui, con un Fairchild 24 della sua Squadriglia. Salgo a bordo e mi dice di prendere i comandi. Chiede le istruzioni con la radio, siamo autorizzati al rullaggio e al decollo, do motore e poco dopo siamo in volo. Sono emozionato, questo aereo mi ricorda i voli col mio primo aereo, il Fairchild 22, al North Beach Airport. Voliamo su Roma, raggiungiamo la costa su Ostia e torniamo a Centocelle. Prima dell’atterraggio il Maggiore mi chiede di cedergli i comandi, è quasi imbarazzato, mi spiega che è al suo secondo volo e non ha ancora sufficiente padronanza dell’aereo per farmi da istruttore. Dopo 45 minuti, a motore spento, lo ringrazio. Mi dice di ritornare pure quando lo desidero. Un giorno incontro in città un mio vecchio allievo e amico, Arrigo Purgotti: eravamo insieme a Capodichino, adesso è l’autista dell’ambasciatore venezuelano. Mi racconta che è tornato dal fronte russo a guerra finita, ha dovuto prendere il primo lavoro che gli è capitato anche se non era proprio quello che più avrebbe desiderato. Rimaniamo insieme per circa un’ora, poi deve lasciarmi perché deve accompagnare alcuni funzionari dell’Ambasciata. Mentre sono in servizio all’ingresso arriva un messaggio dal Centro Comunicazioni per il Comandante della caserma, lo prendo e vado alla palazzina Ufficiali per consegnarlo, l’attendente mi dice di attendere e si allontana. Improvvisamente mi sento chiamare: “Vincenzo, che ci fai qui?”. Mi giro, è il col. Vincenzo Dequal, mio Comandante di Squadriglia in Spagna e a Gorizia. Mi viene incontro e mi abbraccia, è una piacevole sorpresa per entrambi. Mi invita nel suo ufficio, mi fa sedere accanto a un grande tavolo colmo di carte che usa come scrivania. Gli racconto le mie vicissitudini da quando ci siamo visti l’ultima volta a Merna nel 1939 e poi chiedo di lui. “A Gorizia, nel luglio del ’40, mi è stato affidato il Comando del ‘Reparto Sperimentale Aerosiluranti’. Avevamo a disposizione alcuni SM 79 modificati”, mi racconta, “In agosto, dopo un mese di addestramento, abbiamo effettuato con cinque velivoli la prima azione di guerra contro le navi ormeggiate nel porto di Alessandria d’Egitto. Gli altri Capi Equipaggio erano il magg. Fusco e i ten. Robone, Buscaglia e Copello. La nostra Squadriglia, la 278ª, era denominata dei ‘Quattro Gatti’, ne avrai sentito parlare! Successivamente ho comandato un Gruppo di Bombardieri ‘a tuffo’ e il 24° Gruppo Autonomo Caccia e nel ’42 il 2° Stormo. Dopo l’8 settembre 1943 sono stato ospite nella casa di campagna di una zia, nei pressi di Firenze, in attesa che la situazione si chiarisse. Nel ’47 sono rientrato in Aeronautica per partecipare alla riorganizzazione dell’Arma”. Mi chiede se mi piacerebbe andare a Lecce per fare l’istruttore al Centro di Addestramento Piloti. “Certamente”, rispondo, “Farei qualsiasi cosa pur di tornare a volare!”. Arriva il Comandante, mi chiede la comunicazione per lui, il col. Dequal mi presenta e gli racconta brevemente di quando eravamo insieme a Gorizia e in Spagna. Andiamo tutti e tre al bar del Circolo, il Comandante dopo qualche minuto ci lascia, il col. Dequal mi assicura che si interesserà per farmi trasferire a Lecce. Alcune settimane più tardi, un lunedì mattina, mi comunicano di presentarmi al Comando, penso che si tratti di un richiamo perché un paio di volte sono rientrato in ritardo dalla licenza.

ASSEGNATO ALLA SCUOLA DI VOLO DI GALATINA, LECCE 
Giunto al Comando, l’Ufficiale di giornata mi accompagna dal Comandante che mi comunica l’arrivo del mio ordine di trasferimento, devo presentarmi il 21 ottobre al Centro di Addestramento di Volo a Galatina, vicino a Lecce. I miei documenti saranno pronti l’indomani mattina alle 9.30. Sono felice; se ne accorge anche il Colonnello, che mi lascia libero dal servizio per darmi la possibilità di prepararmi alla partenza. Il giorno dopo ritiro i miei documenti e ottengo due giorni di licenza per stare in famiglia prima di partire per la nuova destinazione. Prendo il primo treno per Napoli, arrivo a casa nel pomeriggio e informo Maria del trasferimento. Le dico che intendo trovare un appartamento a Lecce dove potrà raggiungermi con i bambini, dopo averci pensato un po’ risponde che preferisce rimanere qui con la madre e le sue sorelle, una delle due potrebbe trasferirsi da lei durante la mia assenza. Tre giorni più tardi sono a Galatina, dove vengo accompagnato dal Comandante delle Scuole di Volo, il col. Luigi Bianchi; con lui c’è il t.col. Ranieri Piccolomini, l’Ufficiale responsabile delle Operazioni di Volo. Li conosco entrambi, ho incontrato il col. Bianchi a Grottaglie nel 1933 e il t.col. Ranieri a Gorizia. Il Comandante mi dice che comincerò a volare il più presto possibile, c’è molto da fare! Sono assegnato alla 4ª Squadriglia del 2° Gruppo. Come prima cosa dovrò tornare a Napoli per sottopormi al controllo psico-attitudinale presso l’Istituto Medico Legale. Arrivo il venerdì, il sabato supero gli esami, passo a casa per la cena e poi prendo il treno: la notte stessa sono di ritorno a Lecce. La 4ª Squadriglia è comandata dal cap. Ghiacci, mi spiega che avrò bisogno di diverse ore di volo per riprendere la mano e tornare di nuovo in forma. Inizierò con la “ripresa voli” a doppio comando sul FIAT G 55, effettuerò poi due voli col Macchi 205 e altrettanti con lo Spitfire IX oppure con l’F 51 Mustang. Terminato il ciclo di ambientamento effettuerò il passaggio sull’AT 6 Texan e quando lo avrò bene alla mano inizierò ad addestrare gli allievi. Nel magazzino ritiro la tuta di volo e mi viene assegnata una cameretta assieme ad altri due Sottufficiali piloti. Il giorno successivo il tempo non è dei migliori, piove e le nubi sono basse, mi rassegno all’idea che oggi probabilmente non volerò. Mi vesto e dopo la colazione mi reco nell’hangar. Il cap. Ghiacci mi presenta agli altri istruttori, alcuni li conosco, siamo stati insieme in altre Squadriglie, prima e durante la guerra. Andiamo tutti nella sala briefing dove il col. Piccolomini assegna gli allievi agli istruttori. Terminato il briefing congeda gli istruttori e chiama me e il m.llo Dotta: dovrò fare un volo col G 55 non appena il tempo lo permetterà.

AMBIENTAMENTO A TERRA COL G 55 
Con il m.llo Dotta torno in hangar ma il tempo peggiora, lui se ne va al bar dei Sottufficiali, ritornerà fra poco. Si mette a piovere a dirotto, vado nell’officina dei motoristi, incontro il m.llo Grilli, mio vecchio amico dai tempi dell’Africa Orientale. Gli chiedo se può venire a spiegarmi gli impianti e il motore del G 55. Salgo a bordo di quello più vicino e lui si mette di fianco, in piedi sull’ala. Osservo gli strumenti e i comandi del motore e degli impianti. Il motore è un Daimler Benz come quello del Re 2001 su cui volavo a Treviso. Studio gli strumenti, li ricordo abbastanza bene, il m.llo Grilli mi fa notare che la manetta si usa al contrario, alla maniera americana: in avanti aumenta la potenza. Mi spiega la procedura per l’avviamento del motore, fra poco l’aereo verrà portato fuori dall’hangar e potrò provare una messa in moto. Rimango seduto nell’abitacolo mentre gli specialisti spingono fuori l’aereo. Il m.llo Grilli sale nuovamente sull’ala, si mette di fianco per assistermi. Mi dice di inserire il “master switch”, l’interruttore principale, solo dopo che il gruppo elettrico esterno sarà scollegato. Alzo la guardiola e aziono lo starter, l’elica gira lentamente e dopo qualche borbottio il motore si avvia, il fumo azzurro che per un paio di secondi fuoriesce dagli scarichi del motore si disperde rapidamente nell’aria. Gli specialisti staccano il cavo dell’alimentazione elettrica e collego con il master switch la batteria all’impianto di bordo. Rimango nell’aereo mentre il m.llo Grilli e gli specialisti corrono dentro l’hangar per ripararsi dalla pioggia che ora si è fatta più intensa. Quando la temperatura raggiunge i 60° faccio un cenno al m.llo Grilli che si avvicina di nuovo, sale sull’ala e, attraverso il finestrino del tettuccio, mi dice di controllare magneti, pressione dell’olio, pompa d’emergenza della benzina, passo dell’elica e radio, come mi aveva precedentemente istruito, e poi scende e ritorna in hangar. Eseguiti i controlli aumento la potenza del motore senza però raggiungere il valore massimo, il motore risponde correttamente. Il m.llo Grilli mi fa segno dall’interno dell’hangar di spegnere il motore. Porto la manetta al minimo, l’elica al passo minimo e chiudo la valvola “shut-off” del carburante che ne interrompe l’afflusso. Quando l’elica è ferma escludo i magneti e il master switch. Sento che ricomincio a prendere confidenza con l’aereo. Scendo e aiuto a spingere l’aereo nell’hangar, alcuni allievi danno una mano, sta ancora piovendo ma meno forte di prima. Ringrazio Grilli, che va a lavorare su un altro aereo. Nell’hangar ci sono un paio di Macchi 202 e 205, ci salgo per dare un’occhiata al cockpit, sono macchine stupende. Mi siedo al posto di pilotaggio, è comodo, confortevole e ogni comando si raggiunge facilmente. Vado con la mente ai miei compagni che su questo velivolo hanno volato durante la guerra, io fino a ora non ho avuto la fortuna di salirci. Il ten. Dragoni mi chiama, mi vogliono all’Ufficio Operazioni: Il cap. Milner mi informa che mi è assegnato il codice 21, sarà il mio nominativo di chiamata personale da utilizzare su tutti i velivoli, vale a dire “Giallo 21” con il T 6 e “Verde 21” col G 55, i Macchi, il P 38 e gli Spitfire. Il Capitano aggiunge che la mia conoscenza dell’inglese è provvidenziale poiché è previsto che tutte le comunicazioni radio, soprattutto nei voli di navigazione IFR, dovranno essere fatte in inglese. Nel pomeriggio c’è una riunione di tutti gli istruttori e gli allievi, partecipa anche l’Ufficiale responsabile delle Operazioni Volo, mi limito ad ascoltare la conversazione. Alcuni allievi vengono esonerati dal volo e debbono lasciare la Scuola, non hanno superato le selezioni attitudinali. La riunione dura un paio d’ore; quando è finita mi reco nell’hangar, mi siedo a osservare gli aerei parcheggiati di fronte all’hangar. Molte cose sono cambiate dopo quasi sei anni che non volo. Comincia a piovere, torno nella mia stanza, indosso la mia nuova uniforme per andare a mangiare qualcosa a Lecce. Il sergente Amico, uno degli allievi piloti più giovani, mi dice che conosce una trattoria e si offre di accompagnarmi. Prendiamo il bus per Lecce ma quando arriviamo piove a dirotto. Andiamo in un bar che ha una sala con il biliardo e giochiamo. Quando siamo stanchi prendiamo il bus e ritorniamo in aeroporto. Non piove più e si vedono le stelle, forse domani si potrà volare.

IL DECOLLO SUL G 55 
Il mattino del 25 ottobre 1949 il cielo è limpido e fa fresco, al briefing il col. Piccolomini mi dice di andare in linea di volo, di fronte all’hangar 1. Salgo su un G 55 per un ultimo ripasso della strumentazione, dopo pochi minuti il ten. Dragoni mi dice di saltar giù per dare le ultime istruzioni a me e al m.llo Dotta che sta per arrivare e che mi farà da istruttore. Andiamo a bordo, Dotta mi dice che gestirà lui le comunicazioni radio con la Torre, sarò io ad avviare il motore perché nel posto dietro non c’è il comando del master switch né dello starter. Ci collegano il gruppo batterie esterno e metto in moto. Il m.llo Dotta chiede e ottiene l’autorizzazione a rullare. Prima del decollo mi dice di fare attenzione perché c’è vento di traverso e di non permettere che l’aereo metta la prua al vento, dando piede contrario. La Torre ci autorizza, alle 09.20 entro in pista, allineo l’aereo al centro e avanzo lentamente la manetta, l’aereo accelera, picchio leggermente per alzare la coda e con la pedaliera controllo la tendenza a imbardare. Stacchiamo, la velocità aumenta, retraggo il carrello e durante la salita mantengo 250 km/h. Circuitiamo sul campo, aziono i comandi di volo per provarne la risposta, effettuo qualche virata stretta e un paio di cabrate e affondate. Cabro fino a raggiungere quasi la velocità di stallo, il m.llo Dotta spinge la barra in avanti prima dello stallo e mi chiede attraverso l’interfonico che intenzioni ho. “Volevo solo provare uno stallo per vedere come si comporta l’aereo”, rispondo. Mi dice poi di provare qualche “touch and go”. Mi porto in circuito, in sottovento il m.llo Dotta chiama la Torre, siamo il numero 2 all’atterraggio, estendo carrello e flap e in finale la Torre ci autorizza all’atterraggio. Debbo fare attenzione alla velocità e a non scostarmi dalla corretta traiettoria, tocco con il carrello principale, sui “due punti”. Effettuiamo altri tre touch and go. Al terzo il m.llo Dotta mi dice di occuparmi anche delle comunicazioni radio con la Torre, vuol vedere come me la cavo. Arriviamo sul piazzale davanti all’hangar e scendiamo, dopo qualche minuto un altro istruttore e il suo allievo prendono il nostro posto. Mentre i piloti si sistemano a bordo e iniziano la checklist, gli specialisti effettuano il rifornimento di carburante e i loro controlli esterni. Il m.llo Dotta dice che sono un po’ arrugginito ma tornerò in forma presto. Il giorno dopo vado in volo con il ten. Dragoni, mi fa effettuare diversi touch and go e degli atterraggi di precisione, debbo posare le ruote in un punto prestabilito della pista partendo da differenti quote e tenendo il motore al minimo. Nell’ultimo atterraggio di precisione mi chiede di escludere i magneti e di atterrare con l’elica trascinata dall’aria: l’aereo scende con un rateo ancora superiore a quello con il motore al minimo ma comunque arrivo in pista senza grossi problemi. Incomincio ad acquisire padronanza dell’aereo. Quando l’aereo rallenta usciamo di pista e attendiamo il carrello con le batterie, rimettiamo in moto e rulliamo fino all’hangar. Andiamo a posare paracadute e cuffia. Il Tenente non mi dice nulla, vuol dire che sono andato bene! Torna e mi dice di andare alla “jeep” con la radio, la “biga”, che staziona ai bordi della pista per assistere i piloti che volano da soli. Debbo mettermi le cuffie, stare in stand-by sul canale “C”, riservato alla Scuola, e intervenire se qualcuno dimentica di estendere il carrello o se è troppo alto o troppo basso o se è in difficoltà. Gli aerei in decollo e atterraggio mi passano davanti a pochi metri, è sempre uno spettacolo guardarli! Un aereo dichiara noie al motore, gli dico di cambiare canale e di mettersi in contatto con la Torre, poi avviso gli altri aerei che sono sul canale “C” di tenersi fuori dal circuito fin quando l’aereo in emergenza non sarà atterrato. Dopo 2 ore a doppio comando col G 55 il 7 novembre 1949 decollo sulla versione monoposto.

UN VOLO OFFICINA COL G 55 
Il cap. Ghiacci mi dice di fare un volo di controllo a un G 55 al quale è stato sostituito il motore. Decollo e rimango sul campo, il motore funziona perfettamente, chiedo alla Torre di fare due touch and go. Dopo il secondo salgo a 3000 piedi, mi porto sulla verticale della pista, porto la manetta al minimo e chiudo la shut-off del carburante; informo la Torre che sto atterrando con il motore spento. Col motore trascinato dall’elica effettuo una virata di 360 gradi, vario l’inclinazione laterale e l’angolo di discesa in modo da terminare la traiettoria e toccare la pista a circa 300 metri dalla testata. Mentre tocco vedo i veicoli di emergenza corrermi di fianco. Quando mi fermo il sergente che comanda la squadra dei mezzi antincendio scende e si avvicina chiedendomi cosa è successo e se ho bisogno di assistenza. Arriva anche un mezzo con a bordo il col. Piccolomini, scende e pure lui si avvicina al velivolo e mi dà una solenne lavata di capo. Mi giustifico dicendo che sono stato autorizzato dalla Torre e lui, ancora più alterato, risponde “Ti ha autorizzato ad atterrare, non a spegnere il motore!”. Infine sembra calmarsi un po’: “Per questa volta te la caverai pagando da bere a tutta la Squadriglia e alla squadra dei vigili del Fuoco!”, sbotta, poi si gira e risale sull’automezzo con cui è arrivato, sbattendo la portiera. Quando arriva il carretto con le batterie metto in moto e rullo verso l’hangar. Un giorno decollo dietro al serg. Amico, voliamo per un po’ in coppia e poi ci separiamo, a me è assegnata una quota di 10.000 piedi. Quando rientro, dopo circa mezz’ora di volo, mentre mi avvio verso l’hangar sento suonare la sirena dell’aeroporto. Un paio di meccanici indicano una colonna di fumo nero a Sud. Mi dicono che hanno visto cadere uno Spitfire. Due sono decollati dopo di noi per cui non sappiamo quale sia l’aereo precipitato. Quando la Torre di controllo fa rientrare tutti gli aerei manca quello del serg. Amico che, mentre faceva acrobazia, è entrato in vite a bassa quota ed è uscito troppo tardi.

IL “LINK TRAINER” 
Seguo le lezioni insieme agli allievi; debbo aggiornarmi soprattutto sul volo strumentale e sulla navigazione, comprendo finalmente come funziona il Radiocompass. Il Centro di Addestramento ha due link-trainer, ne ho sentito parlare ma è la prima volta che li vedo da vicino, sono stati lasciati qui dall’USAF. Sono dei “trabiccoli”: un posto di pilotaggio montato su una piattaforma e mosso da dei martinetti ad aria compressa. All’interno ci sono i comandi di volo e tutti gli strumenti necessari per la navigazione. Di fianco c’è un grande tavolo sul quale è disegnata una carta geografica della zona con la pista di Galatina. Sopra il tavolo, uno strumento con tre ruote e una penna che si muove lentamente tracciando la rotta percorsa dall’allievo. Un istruttore con microfono e cuffia è in contatto con l’allievo chiuso dentro lo “scatolone” e fa le funzioni del controllore del traffico aereo. Mentre assisto a una lezione un allievo, preso da un attacco di claustrofobia, apre il tettuccio e si butta giù e si sloga un piede. Quando tutti gli allievi hanno terminato la lezione chiedo di provare il Link Trainer. Mi siedo e tengo la cappotta aperta per un po’, poi la chiudo: effettivamente la sensazione non è piacevole, tutto è buio tranne gli strumenti che sono illuminati dall’interno da una fievole luce rossa. L’istruttore mi comunica le quote a cui debbo salire, le prue e le autorizzazioni. Debbo seguire una procedura per portarmi in pista. All’inizio ho un senso di disorientamento poi gradatamente comincio a prendere confidenza con i rilevamenti goniometrici VDF e a portarmi sopra la “stazione” e allontanarmi su un “radiale”. Dopo 40 minuti mi sembra siano passate un paio d’ore e scendo. L’indomani piove tutto il giorno, il pomeriggio vado nell’hangar della 3ª Squadriglia. Salgo nell’abitacolo di uno Spitfire, studio gli strumenti e i comandi. Le scritte sono in inglese e questo mi facilita la comprensione. È abbastanza diverso dai Macchi MC 205 o dal G 55, ha il “muso” molto lungo e un formidabile motore, un Merlin 63 da 1700 HP. È un caccia famoso che è stato decisivo durante la Battaglia d’Inghilterra, ne sono state costruite numerose versioni. Nell’hangar ci sono anche dei P 38 Lightning e dei Bell Aircobra mentre non vedo alcun F 51 Mustang.

GLI ULTIMI VOLI SUL G 55 PRIMA DI PASSARE AL MACCHI 205 
Dopo il briefing mi reco nel mio hangar, il cap. Ghiacci mi dice di prepararmi a decollare tra 20 minuti. Arriva poco dopo il col. Piccolomini, vuole sapere cosa prevede la mia missione. “Stalli con motore e senza, qualche tonneau e una vite”, rispondo. “Va bene. Vedi di non scendere troppo di quota e rimani sul cielo campo! Io ti seguirò dalla biga”, dice, e se ne va. Salgo sul G 55, il capo meccanico Grilli mi assiste durante la messa in moto. Chiamo la Torre e rullo fino alla biga, passo sul canale “C”, controllo se il col. Piccolomini mi riceve. Quando sono allineato in pista e autorizzato al decollo aumento la potenza gradatamente. Dopo alcuni secondi spingo leggermente in avanti la cloche per alzare la coda, con la pedaliera tengo l’aereo allineato al centro pista. La velocità aumenta ulteriormente, riduco la pressione sulla cloche e l’aereo stacca le ruote da terra. Retraggo il carrello e salgo in leggera virata. Livello a 2200 metri ed effettuo un primo stallo, l’aereo comincia a vibrare e abbassa il muso, l’anemometro indica intorno ai 120 km/h. Livello, estendo il carrello e abbasso i flap. Tengo il motore al minimo, sostengo il muso e quando iniziano i segnali dello stallo l’anemometro indica 110 km/h. Salgo a 3000 metri e metto l’aereo in vite; dopo un paio di giri porto la cloche al centro e spingo la pedaliera dalla parte opposta rispetto a quella in cui ruota l’aereo. Effettuo un paio di tonneau e looping cercando di essere il più preciso possibile con le velocità e curando la direzione di entrata e uscita delle manovre. Mi porto infine all’atterraggio, in hangar ci sono il capitano Ghiacci, il ten. Tieri e Dragoni, hanno seguito il mio volo e mi dicono che le manovre eseguite erano corrette. Arriva anche il col. Bianchi, assieme al col. Piccolomini, e chiede al cap. Ghiacci come vado con i voli. “Mi sembra non abbia problemi!”, risponde il Capitano, e il col. Bianchi “Gli faccia fare ancora qualche volo sul G 55 prima di andare in volo col Macchi 205 e con lo Spitfire. Dovrà fare il passaggio sul T 6 al più presto e iniziare ad addestrare gli allievi piloti”.

IL MACCHI 205 
Il 19 novembre al briefing mi dicono di presentarmi dal ten. Tieri, alla 3ª Squadriglia. Quando arrivo alla linea di volo il Tenente mi dice che è giunto il momento di andare in volo con uno dei Macchi 205 in forza al 3° Gruppo, comandato dal t.col. Giovanni Molinaris. Mi spiega il funzionamento del motore e di tutti gli impianti e le procedure normali e di emergenza. Dopo il decollo dovrò prendere la mano con questo velivolo, eseguire qualche semplice manovra acrobatica, rimanendo sul cielo campo e in contatto con la biga da dove lui mi seguirà. L’aereo è già rifornito e pronto, eseguo tutte le manovre previste per l’avviamento del motore, rullo a zig zag perché la visibilità anteriore è praticamente nulla a causa del lunghissimo motore e dell’assetto del velivolo. Mi allineo in pista e quando aumento la pressione d’alimentazione il rombo è impressionante, la potenza erogata dal motore è enorme. Volare con questa macchina mi entusiasma, ha delle prestazioni eccezionali. Mi porto sottovento, viro in base e vado all’atterraggio. In finale il velivolo si controlla abbastanza bene anche se il grande muso rende più difficoltoso l’ultimo tratto. Atterro alle 11.55, dopo soli 10 minuti di volo. Rullo verso l’hangar 3, nessun aereo si è ancora levato in volo. Quando passo davanti alla palazzina Comando il col. Bianchi insieme al t.col. Piccolomini stanno uscendo dal Comando, sui piazzali gli istruttori e gli allievi sono accanto ai velivoli e si preparano ad andare in volo. Il ten. Tieri mi dice che un mio vecchio amico è appena tornato dalla luna di miele e mi sta aspettando, quando entro nell’hangar incontro il ten. Vescovo, durante la guerra eravamo entrambi a Capodichino. Mi dice che mentre mi attendeva ha seguito il mio primo volo col Macchi 205 e si complimenta, non sapeva che ero stato assegnato alla Scuola, pensava che fossi ritornato negli Stati Uniti dopo la guerra. Il cap. Milner viene a salutare il ten. Vescovo, anche lui sa del mio decollo sul Macchi 205. Mentre stiamo parlando arriva anche il col. Piccolomini, mi chiede come va l’aereo, vuol andare in volo, ordina al ten. Tieri di preparare il velivolo e dice a me di prendere servizio in “biga”. Il cap. Milner mi fa compagnia per un’oretta e poi rimango lì per il resto della mattinata. Qualche giorno più tardi, il 22 novembre, torno in volo col Macchi 205: è un bell’aeroplano, sembra migliore del G 55 sebbene entrambi montino un motore della stessa potenza, un Daimler-Benz DB 601 costruito su licenza dalla FIAT. In particolare il Macchi 205 è superiore al G 55 alle medie quote mentre la situazione si inverte alle alte quote. Concludo il volo chiedendo alla Torre un “low pass”, un sorvolo della pista a 500 piedi. Mi autorizzano, scendo portandomi vicino alla velocità massima, risalgo a 1000 piedi, mi porto sottovento e atterro. Con il Macchi effettuo così due voli in tutto, complessivamente 35 minuti, poi dovrei volare con uno dei due Spitfire della 3ª Squadriglia ma entrambi i velivoli hanno “raggiunto le ore” e sono sottoposti a revisione, saranno pronti tra qualche giorno.

IN VOLO CON LO SPITFIRE IX 
Finalmente mi viene assegnato un volo sullo Spitfire. Il 25 novembre 1949 il ten. Tieri mi fa sedere nel cockpit e mi dà come al solito tutte le informazioni sugli strumenti e sugli impianti. Tutte le scritte sono in inglese e questo mi facilita molto. Il muso è molto lungo e la visuale anteriore è ancora più ridotta del Macchi 205. Mi spiega la procedura per avviare il motore, mi ricorda di fare attenzione, quando sono a terra, a non dare bruscamente manetta: lo Spitfire è leggero di coda, tende ad alzarla e l’elica tocca terra. Per compensare la coppia dell’elica prima del decollo bisogna portare il trim quasi a fondo corsa a destra per evitare di imbardare e uscire di pista. Rullo e vengo autorizzato al decollo, lo Spitfire è docile, si controlla abbastanza bene a terra malgrado il suo carrello stretto: in volo è un “purosangue”! Il motore, sotto il suo lungo naso, è molto potente con prestazioni invidiabili: ha un compressore a due stadi, il secondo entra in funzione automaticamente tra i 16.000 e i 18.000 piedi aumentando la potenza e permettendogli di salire fin oltre i 30.000 piedi. È un buon caccia se non il migliore. Il 30 novembre volo ancora con lo Spitfire, è un aereo bellissimo. Vinco una scommessa con Bartolucci, dice che ci vogliono parecchie ore di volo prima di riuscire ad atterrare sui “tre punti” con lo Spitfire, ho in tutto solo 45 minuti di volo ma ci sono riuscito! Se le nostre Squadriglie avessero avuto un aereo simile durante la guerra avremmo perso molti meno piloti. In hangar c’è anche uno Spitfire MK IX con motore Merlin da 1.700 HP ed un MK XII con Griffon da 2.000 HP e le estremità delle ali “mozzate”, è il più bello! Veniva impiegato per l’attacco al suolo e per la ricognizione veloce poiché ottimizzato per le basse e medie quote.

L’AMBIENTAMENTO SUL T 6 
Il tempo è sempre brutto e venerdì, dopo il briefing, chiedo al cap. Ghiacci due giorni di permesso per andare a Napoli dai miei che non mi vedono da più di tre settimane. Quando arrivo sono tutti a letto, domenica pranziamo con la famiglia di Maria e prendo il treno del pomeriggio che arriva a Lecce in tempo per l’ultimo bus della base. Lunedì è una bella giornata e fa freddo, andiamo tutti all’aula briefing dove incontro una vecchia conoscenza, il ten. Sbrighi. È appena arrivato, mi racconta di sé e io faccio altrettanto; gli dico che il suo vecchio compagno, “Gelsomino”, Eugenio Salvi, è qui, è Maggiore e Capo Istruttore della Scuola, ha l’ufficio nell’hangar 2. Oramai ho quasi 8 ore di volo sul G 55, 35 minuti sull’MC 205 e 1 ora sullo Spitfire; vengo assegnato al T 6, con il quale dovrò effettuare almeno 15 ore prima di iniziare ad addestrare gli allievi. A Natale ho già 3 ore al mio attivo e mi vengono concessi cinque giorni di licenza per andare a Napoli. Ho comprato dei regalini per mia moglie, Dany e Sergio che ha dieci mesi. Trascorriamo un bel Natale tutti insieme, i cinque giorni se ne vanno via in fretta e devo ritornare a Lecce. A Napoli ho trovato una lettera di mio fratello Carmine, lui e sua moglie Edith intendono venire in Italia in occasione dell’apertura dell’Anno Santo proclamato da Papa Pio XII. Sono trascorsi diciotto anni dall’ultima volta che ho visto mio fratello e vuol rivedermi e conoscere Maria e i suoi nipoti. Completate le 15 ore di volo mi sento a mio agio sul T 6 e mi vengono finalmente assegnati gli allievi: il primo è il ten. Frigo. Decolliamo ed eseguo io il primo atterraggio, poi gli lascio fare gli altri tre. È abbastanza bravo, deve solo fare più attenzione a mantenere la velocità in finale, tende ad arrivare veloce. Il ten. Dragoni mi assegna un altro allievo, mi dice che è già avanti con l’addestramento e deve perfezionarsi con l’acrobazia. Decolliamo e saliamo a 10.000 piedi, gli faccio fare un paio di stalli e una vite, poi iniziamo con looping e tonneau lenti. Vado avanti con l’addestramento finché gli allievi terminano il corso. Un gruppo di piloti che hanno partecipato alla guerra sono stati richiamati in servizio, debbono fare una quindicina di ore per la “ripresa volo”. Tra questi ci sono alcuni Colonnelli e Maggiori e tre Tenenti. Andiamo in volo, debbo intervenire solo con piccole correzioni, sono piloti esperti e anche se non pilotano da anni non hanno perso la mano. Dopo 2 o 3 ore sono in grado di andare in volo da soli e dopo tre settimane vengono assegnati ai Reparti operativi. È arrivato un altro gruppo di allievi dalla scuola di volo basico di Brindisi, è composto da Tenenti di fresca nomina e Sottufficiali. Si vola parecchio, anche tre o quattro volte al giorno. Al mattino si inizia alle sette e mezza e si finisce a mezzogiorno per riprendere nel pomeriggio. Mi vengono assegnati gli allievi di un istruttore che ha dovuto tornare a casa per la morte del padre.

LA VISITA DI MIO FRATELLO CARMINE 
Ricevo una lettera da mio fratello, mi scrive che arriverà a marzo con la motonave Saturnia. Mi metto a rapporto dal t.col. Piccolomini e chiedo una licenza di 10 giorni spiegandogliene il motivo. “Va bene”, mi risponde, “Ti concedo la licenza ma devi darmi una mano a finire questo Corso, siamo quasi alla fine di febbraio”. Sabato, terminati i voli, mi chiama nel suo ufficio e mi consegna i documenti della licenza. Posso prendere il treno delle 13.05 ed essere a Napoli alle 22.30. Lo ringrazio e vado a preparami, chiedo un passaggio per Lecce e arrivo in stazione giusto in tempo. Quando giungo a casa Maria sta mettendo i bambini al letto, mi prepara qualcosa da mangiare, le dico che mio fratello e sua moglie arriveranno martedì mattina alle 10, li faremo dormire nel nostro letto, noi dormiremo in quello di Dany che potrà essere ospitato al piano di sotto, dai nonni. Sergio, che è ancora troppo piccolo, dormirà con noi. Martedì mattina vado al porto con Maria, pioviggina, la Saturnia arriva in orario. Appena è attraccata cerco mio fratello nel gruppo di persone che guardano verso il molo, lo riconosco in piedi dietro il bordo e anche lui mi vede. Appena viene gettata la passerella chiedo ai doganieri di salire a bordo, me lo permettono perché sono in uniforme, corro incontro a mio fratello e ci abbracciamo. Sono emozionato, ho le lacrime agli occhi. È molto più alto di me ed è piuttosto robusto, abbraccio anche Edith che è rimasta a guardarci, anche lei ha gli occhi umidi. Carichiamo i bagagli su un taxi e arriviamo a casa verso mezzogiorno, la madre di Maria ha preparato un pranzo speciale. Chiedo a Carmine di raccontarmi di mio padre, della sua malattia e di come è morto, non ne parla volentieri e dopo un po’ cambio argomento. Mi racconta del suo servizio nei Marines, di quando era in Cina, nel 1933 e 1934, prima che venisse occupata dai giapponesi. “Non te l’ho mai scritto… mi hai messo in serie difficoltà con la lettera che mi hai inviato alle Bermude con la descrizione dell’abbattimento del bombardiere inglese e con le due lettere dei piloti alle loro famiglie” mi confida, “È stata intercettata dal Controspionaggio e sono stato messo sotto inchiesta. Ho subito un interrogatorio da un Ufficiale inglese, voleva sapere tutto di me e dei nostri familiari e pensava fossi una spia. Ad un certo punto mi sono arrabbiato e ho risposto che se avevi abbattuto un bombardiere inglese voleva dire che eri un pilota migliore di loro e che se volevano saperne di più… gli consigliavo di scrivere a Mussolini!”. Fu immediatamente trasferito dalle Bermuda alla costa Ovest e più tardi messo in congedo a causa delle ferite riportate in combattimento. Chiedo notizie anche dei nostri comuni amici di City Island, poi Carmine mi dice che Edith avrebbe piacere di andare ad Alba dove ha una cara amica. Maria e io ci offriamo di accompagnarli passando per Milano dove abita Rita, la sorella di Maria, e da lì andare ad Alba. Partiamo il giorno dopo, siamo ospiti di Rita e poi andiamo a trovare l’amica di Edith, una madre superiore di un convento, ci rimaniamo solo un paio d’ore. Al ritorno sostiamo a Roma, Edith vuole visitare tutte le cattedrali in cui è stato papa Giovanni per l’apertura dell’anno Santo. Arrivati a Napoli visitiamo Pompei, Capri e Sorrento. Carmine mi dice che vuol andare a Castelforte in provincia di Latina, alle foci del Garigliano, dove è nato nostro padre, e da lì a Enna in Sicilia, paese che ha visto le origini del padre di Edith e dove lei ha ancora dei parenti. Purtroppo devo tornare a Lecce, la mia licenza scade fra due giorni, mi dicono di non preoccuparmi, se la caveranno da soli. Ci salutiamo, il distacco è doloroso, non so se ci rivedremo ancora, viviamo in due continenti diversi e gli anni scorrono veloci.

DI RITORNO A LECCE 
Il col. Piccolomini mi chiede com’è andata. “Bene!”, rispondo, e lui “Allora metti il sedere sull’aereo e non lo staccare finché non abbiamo finito il lavoro. Abbiamo parecchi nuovi allievi!”. Mi assegna cinque piloti, tra cui un mio vecchio amico che era stato congedato qualche anno fa per dei problemi allo Stormo. Intanto la scuola riceve dei nuovi T 6 dall’USAF e un paio di Mustang F 51, sono parcheggiati in un altro hangar ed è proibito avvicinarsi. Ho finito di volare con i miei allievi e il s.ten. Beretta mi chiede se voglio addestrami al “dog fight” con lui. Chiediamo il permesso al cap. Ghiacci che ci autorizza. Il s.ten. Beretta ha con sé il suo allievo, io prendo su quello con il quale ho appena finito la lezione e andiamo in volo. Saliamo in formazione fino a 6000 piedi e poi, al suo via, viriamo in direzioni opposte e ci allontaniamo. Giro la testa indietro per vedere cosa fa: entrambi manteniamo la stessa quota e quando lui vira verso di me faccio lo stesso, ci puntiamo, ci incrociamo e ci mettiamo a girare in cerchio. Non è facile mettersi in coda a un aereo quando si hanno le stesse prestazioni, bisogna sfruttare anche un minimo errore dell’altro. Il s.ten. Beretta a un certo punto è costretto ad abbassare il muso per aumentare la velocità che gli sta scadendo. Livello le ali e cabro, quando vedo cabrare anche lui inizio una larga virata e lo tengo d’occhio, quando si avvicina alla mia quota viro stretto e lo prendo in coda dall’alto. Lui fa di tutto per sganciarsi ma non lo mollo. Mi chiama per radio: “OK, complimenti! Torniamo a casa!”. Interrompiamo la “giostra”, cedo i comandi all’allievo e andiamo all’atterraggio. Mi assegnano un allievo per un controllo finale prima di lasciarlo decollare da solo sul T 6, è un Sottufficiale. Prima di salire sull’aereo gli chiedo che cosa desidera fare, mi risponde “Un po’ di acrobazia”. Decolliamo e gli lascio i comandi, sale a 6000 piedi ed esegue correttamente alcuni looping e tonneau lenti e veloci. Gli dico di fare uno stallo, inizia a scendere poi cabra e tiene il muso alto fin quando l’aereo non comincia a vibrare, lo tiene in questa posizione un attimo di troppo per cui il muso va giù di colpo, tanto violentemente che vengo proiettato verso l’alto e, nonostante abbia le cinghie abbastanza strette, urto la testa contro il tettuccio. Appena scesi dall’aereo il Capitano si avvicina. “Allora?”, mi chiede. “Il ragazzo può andare… è un po’ brusco ma sa quello che fa”, rispondo, e mi massaggio la botta sulla testa guardando l’allievo. Nel pomeriggio il Capitano gli fa un ultimo controllo e lo manda in volo da solo. Al suo ritorno i compagni di corso lo prendono, lo denudano, lo cospargono di colla e gli buttano addosso un sacco pieno di piume di galline e anatre che hanno rimediato in qualche fattoria dei dintorni; quando si sarà ripulito dovrà anche pagare da bere a tutti! Trascorro la settimana successiva volando e assisto, insieme agli allievi, alle lezioni sulle regole del volo VFR, a vista, e IFR, strumentale. Mi vengono assegnati diversi giovani Tenenti, sono: Gallina, Frigo, Riva, Cavicchini, Bazzichi, Crescenti, Russo, Bechis, Lo Bianco, Grillo, Micheli, Piergiovanni, Lucchetti, Cuffiani. Molti provengono dai corsi AUPC (Allievi Ufficiali Piloti di complemento), altri dall’Accademia.

MIO FRATELLO TORNA NEGLI USA 
Ricevo una lettera di mio fratello dalla Sicilia, mi annuncia che, insieme a Edith, sarà di ritorno a Napoli fra due giorni e partiranno per gli USA col Saturnia giovedì prossimo. Chiedo una licenza di tre giorni al t.col. Piccolomini, prendo il treno delle 12.45 per Bari, cambio per Napoli e arrivo alle 23. Maria mi dice che Carmine ed Edith hanno telefonato che arriveranno l’indomani mattina con la nave postale dalla Sicilia. Trascorriamo la giornata successiva in famiglia con mio fratello e mia cognata. Venerdì la partenza è prevista alle 14, li accompagniamo al porto e saliamo a bordo. Stiamo insieme fin quando le sirene della nave avvisano i visitatori che devono scendere. Ci abbracciamo, Carmine mi dice di non essere triste, ci rivedremo! Scendiamo e rimaniamo sul molo a guardare la nave che si allontana. Mi viene in mente quando dal molo, molti anni prima, vidi per l’ultima volta mio padre. Resto in famiglia fino a sabato sera, prendo l’ultimo treno e arrivo a Lecce verso mezzogiorno di domenica.

LA PERDITA DI DEQUAL 
Vengo svegliato dai tuoni, sta piovendo a dirotto. Ci ritroviamo tutti nell’aula briefing, per il mattino non è prevista attività, se il tempo migliora voleremo al pomeriggio. Il cielo si schiarisce, decollo con uno dei miei tre allievi. Mentre siamo in volo sul campo si avvicina un temporale, ci richiamano dalla Torre Controllo, atterriamo e ricoveriamo l’aereo nell’hangar giusto in tempo prima che si alzi il vento. Dico agli altri due allievi che per oggi non si vola più, in hangar c’è il cap. Ghiacci, gli chiedo di mettermi di turno domani con i due ragazzi che non hanno volato. Il giorno dopo c’è foschia, i due allievi devono solo impratichirsi nel volo in coppia e alla quota prevista per la lezione, la visibilità comunque è buona. L’attività è in continuo incremento, ci vengono assegnati altri sei nuovi istruttori di volo e arriva un gruppo di allievi dalla Scuola di Volo Basico di Brindisi. Il col. Bianchi viene destinato ad altro incarico e sarà sostituito dal col. Dequal, il nuovo Comandante della Scuola. Vengo invitato a Gorizia per un raduno dei veterani del 4° Stormo ma poco prima della mia partenza, il 27 aprile 1950, mi giunge una terribile notizia: nel corso di un volo di trasferimento da Roma a Treviso il velivolo sul quale il col. Dequal viaggiava come passeggero è finito sul monte Nerone, nei pressi di Pesaro. I due piloti e il col. Dequal sono deceduti nell’impatto. Il raduno è cancellato e il col. Bianchi rimane Comandante della Scuola per altri due anni. In quattro mesi portiamo a termine tutti i corsi e gli allievi vengono avviati ai Reparti loro assegnati. A giugno arriva un gruppo di allievi composto da 80 Sottufficiali e 65 Sottotenenti di fresca nomina, quest’ultimi provenienti dall’Accademia.

ARRIVANO I CURTISS HELLDIVER SB2C-5 
Nel mese di settembre il cap. Ghiacci lascia il Comando della 4ª Squadriglia, che viene assunto dal cap. Dragoni. Dobbiamo andare a Brindisi per ritirare i nuovi T 6 appena consegnati dagli USA e trasferirli a Lecce. Gli USA hanno fornito all’Italia anche numerosi velivoli per gli Stormi da Caccia, sono i Thunderbolt F 47 D e Mustang F 51 D, chiamati rispettivamente P 47 e P 51 prima della costituzione dell’USAF. Per appoggio alle navi della Marina, vengono invece forniti dei Curtiss Helldiver SB2C-5, gestiti dall’Aeronautica Militare con propri piloti. Questi Helldiver sono i primi a giungere in Italia e sono accompagnati da una squadra di specialisti statunitensi che addestreranno il nostro personale tecnico. Il Tenente di Vascello Stone è incaricato dell’addestramento dei piloti. Tutti i nuovi Sottotenenti sono destinati agli Helldiver dove, acquisita la sufficiente esperienza, a loro volta faranno da istruttori agli altri piloti. Fra gli istruttori vengono scelti i più esperti con l’incarico di addestrare i Sottotenenti che dovranno andare sugli Helldiver. Un giorno il com.te Stone mi porta in volo con lui in una esercitazione di bombardamento in picchiata. Il nostro aereo è il leader di una formazione di cinque velivoli, quando siamo sulla verticale del poligono il com.te Stone effettua un mezzo tonneau, abbassa il muso e si mette in candela. Il bersaglio è sotto il muso e per inquadrarlo nel collimatore spinge la cloche in avanti. Non mi aspettavo questa manovra violenta e sono sbalzato di colpo fuori dal sedile, resto appeso alle cinghie e non riesco a raggiungere il pavimento con i piedi. Praticamente stiamo picchiando “rovesci” e rimaniamo in questa scomoda posizione per diversi lunghi secondi finché, raggiunta la quota prestabilita, viene sganciata la bomba. Il com.te Stone ruota l’aereo e tira violentemente, ricado pesantemente sul sedile e rimango schiacciato da almeno 3G che lui “tira” per uscire dalla picchiata. Nonostante la posizione scomoda e le accelerazioni ho sempre tenuta stretta la macchina fotografica che avevo in mano, è stato istintivo ma non ho scattato una foto! Quando atterriamo e gli racconto quel che mi è successo, si mette a ridere e indica i miei pantaloni: mi sono procurato uno strappo proprio sul fondo. In poco meno di un mese gli allievi sono abilitati sull’Helldiver SB2C. Vengono suddivisi in due Squadriglie, una destinata a Grottaglie e l’altra a Catania. Siamo nel bel mezzo della stagione estiva, gli istruttori ricevono a turno 10 giorni di licenza, io sono tra i primi a tornare a casa. Trascorro il tempo in famiglia, mi riposo e porto i bambini al mare. Maria è una madre splendida ed è bella come quando l’ho incontrata la prima volta, mi manca tanto quando sono lontano da casa. Mentre sono in licenza vado a visitare il mio vecchio 4° Stormo di base a Capodichino, hanno ricevuto 10 Mustang F 51, i piloti dicono che è la più bella macchina da Caccia mai costruita. Al mio ritorno a Lecce trovo un altro gruppo di piloti veterani richiamati in servizio, alcuni sono Ufficiali che già conoscevo. C’è anche un gruppo di ex piloti militari impiegati come istruttori negli Aeroclub. L’Aeronautica Militare ha affidato loro la selezione iniziale degli aspiranti piloti e gli istruttori sono qui per un aggiornamento e una standardizzazione dei metodi di istruzione. Il cap. Salvi, il ten. Sbrighi e io abbiamo l’incarico di insegnare l’acrobazia sul T 6 agli allievi e agli istruttori degli Aeroclub. Nonostante l’intensa attività non registriamo nessun incidente di rilievo, tranne un atterraggio sulla pancia di un aereo che non riusciva a estendere il carrello.

LA PARATA AEREA A ROMA 
Verso metà ottobre la Scuola riceve l’ordine dal Ministero di preparare una formazione di 12 velivoli che dovranno partecipare alla parata del 4 novembre a Roma, in occasione della giornata delle Forze Armate e dell’anniversario della Vittoria del 1918. La formazione sarà costituita in gran parte da istruttori e comandata dal cap. Salvi. Gli aerei vengono accuratamente ispezionati e alla fine di ottobre ci trasferiamo sull’aeroporto di Centocelle, alla periferia di Roma. Il Comandante si reca più volte al Ministero dell’Aeronautica per coordinare il nostro volo durante la sfilata. Accompagniamo il Capitano e cogliamo l’occasione per incontrare vecchi amici e andare a pranzo in uno dei tanti locali vicini alla stazione Termini. Il terzo giorno decolliamo per un volo di prova e verifichiamo la sincronizzazione delle operazioni e il coordinamento del Centro di Controllo, installato per l’occasione presso il Ministero. Il tempo è buono e tutto funziona regolarmente. La notte prima della parata il tempo peggiora, quando ci svegliamo la città è coperta da nubi basse provenienti dal mare accompagnate da frequenti rovesci. Decolliamo all’orario previsto e circuitiamo fuori dalla città in attesa di accodarci ai Fairchild C 119 da trasporto. Il com.te della nostra Squadriglia, appena istruito per radio, si inserisce nella posizione prevista nella lunga fila di velivoli. A tratti siamo investiti da scrosci di pioggia che per qualche secondo ci riducono la visibilità. Intravedo in lontananza il monumento al Milite Ignoto che raggiungeremo dopo aver sorvolato la via dei Fori Imperiali. Il cap. Salvi si tiene basso per evitare di entrare nelle nubi che coprono tutto il cielo, per radio ci dice di “allargarci” perché c’è pure un discreto “ballo”: è dovuto al vento che si è alzato e sta creando turbolenza. Appena superato il monumento viriamo verso il bel tempo; sulla nostra destra incrociamo altri velivoli che vanno ad accodarsi per sfilare lungo i Fori Imperiali. Con un largo cerchio ci dirigiamo verso Centocelle; anche qui imperversa un forte rovescio, atterriamo uno dopo l’altro e quando arriviamo sul piazzale restiamo sull’aereo fino a quando il temporale si è attenuato. Anche nei giorni successivi il tempo non migliora anzi, sembra peggiorare. Rimaniamo bloccati a Roma. Il terzo giorno l’Ufficio Meteo continua a dare previsioni pessime, decido di fare un salto a Napoli senza dire nulla a nessuno e vado a trovare la mia famiglia. Rimango poche ore e poi torno a Roma col treno della sera. Dopo altri due giorni finalmente il tempo migliora, andiamo all’Ufficio Meteo e dopo aver preso visione della situazione in rotta decolliamo intorno alle 10. Poco dopo dobbiamo aggirare un temporale che si sta sviluppando sopra le montagne, la sommità credo raggiunga i 30.000 piedi e l’aspetto è alquanto minaccioso. Dobbiamo rifornirci di carburante e facciamo uno scalo tecnico ad Amendola, sede del Centro di Addestramento Avanzato per i piloti da Caccia. Durante la guerra l’aeroporto è stato utilizzato dai Boeing B 17 dell’USAF che andavano a bombardare la Germania e per questo motivo dispone di una pista molto lunga. Il Reparto è equipaggiato con i Thunderbolt P 47 D, i Mustang P 51 e il Lightning P 38. Quando siamo a una quindicina di minuti dal campo, sento in cuffia il cap. Salvi chiamare la Torre di Amendola, chiede l’ultimo bollettino meteorologico e l’autorizzazione a un “low pass” in formazione sulla pista. Dopo il passaggio effettuiamo l’apertura e ci portiamo all’atterraggio. Scendiamo e ci sgranchiamo le gambe, riconosco alcuni miei vecchi allievi che si avvicinano per salutarmi. Pranziamo ad Amendola e poi decolliamo per Lecce dove ripetiamo il “low pass”; il col. Bianchi e il col. Piccolomini vengono a congratularsi per il lavoro fatto. Gli specialisti si prendono cura dei velivoli e io mi ritiro nella mia cameretta, disfo il bagaglio, scrivo un paio di lettere e infine vado a cena. Il giorno dopo riprendo a volare con gli allievi e si va avanti così per tutto novembre.

UNA GIORNATA DI VENTO 
La maggior parte degli istruttori ha completato l’addestramento della propria squadra e sta aspettando di andare in licenza. Ho un allievo che è all’ultimo volo, è una giornata molto ventosa, gli faccio eseguire le figure acrobatiche previste. Torniamo all’atterraggio, il vento è aumentato: ora è arrivato a 20 nodi con raffiche a 25 nodi e soffia con un’angolazione di 45 gradi. Gli chiedo se se la sente di atterrare, sembra sicuro di sé, gli ricordo le manovre con il vento al traverso: “Tieni la cloche dalla parte del vento, piede contrario e 10 nodi in più sulla velocità di avvicinamento”. In finale si “balla” parecchio ma il ragazzo controlla bene il velivolo e lo lascio fare. Tocca terra con la ruota dalla parte del vento, come previsto. Quando arriviamo al parcheggio scendo e mentre lui è ancora intento a finire i controlli gli mostro i miei pollici alzati, lui capisce al volo che l’esame è superato, mi ringrazia sollevando le mani sopra la testa, battendole. Quando l’aereo è rifornito di carburante e lo specialista ha terminato i controlli il vento è leggermente diminuito, vado in volo con l’ultimo allievo, un Sergente. Gli faccio le stesse raccomandazioni per il vento e aggiungo di non farmi star male, visto che già c’è abbastanza turbolenza. Ripete le stesse manovre dell’altro ragazzo e torniamo all’atterraggio. Mentre usciamo dalla pista e ci immettiamo sulla via di rullaggio, in senso contrario alla direzione di atterraggio, vedo in lontananza un aereo in avvicinamento, in cuffia sento il ten. Sbrighi comunicare alla Torre che è in “lungo finale”. Spengo la radio e rulliamo fino all’hangar. Quando arriviamo noto gli specialisti che si stanno agitando, indicano con il braccio verso la pista, guardo ma non vedo nulla. Quando escludo i magneti e l’elica si ferma sento le sirene dei mezzi di soccorso: corrono verso la pista. Penso subito che l’aereo del ten. Sbrighi abbia “scassato” e sia uscito di pista, era l’unico in volo. Poco dopo ci giunge a drammatica notizia, il ten. Sbrighi e l’allievo sono morti. All’arrivo dei mezzi di soccorso sul luogo dell’incidente l’allievo era ancora vivo, è deceduto mentre lo estraevano dai rottami, il ten. Sbrighi non dava segni di vita, aveva gravi fratture alla testa, l’aereo giaceva fuori dall’aeroporto, capovolto in una valletta rocciosa. L’attività di volo è sospesa per tutto il giorno, dopo i funerali gli istruttori lasciano la base e partono per la licenza natalizia. Il t.col. Piccolomini e il cap. Ghiacci terminano i voli con gli ultimi quattro allievi che, al ritorno dalla licenza, dovranno presentarsi ad Amendola.

LA RICHIESTA DI TRASFERIMENTO AL 4° STORMO DI CAPODICHINO 
Un giorno di dicembre al briefing mi viene assegnato un Tenente per un doppio comando sul T 6. Quando rientro dal volo sono nell’Ufficio Operazioni ad aggiornare il libretto di volo e il t.col. Piccolomini sta intrattenendo giovialmente i colleghi. Quando rimaniamo soli mi avvicino: “Chiedo scusa Colonnello, lei ritiene che sia possibile ottenere il mio trasferimento al 4° Stormo di Capodichino?”. Si fa serio e mi risponde “Per quale motivo, Patriarca?” e io, “Ho la famiglia a Napoli e ho sempre sognato di tornare al mio 4° Stormo… anzi al nostro 4° Stormo, perché anche lei, se non erro, ne ha fatto parte”. Ci riflette un attimo: “Ne parlo al col. Bianchi, vediamo cosa dice. Farò il possibile”. Al briefing del giorno dopo il t.col. Piccolomini mi dice di presentarmi a rapporto dal col. Bianchi, prima di mezzogiorno. Quando finisco i voli vado nella mia cameretta, indosso l’uniforme e mi reco alla Palazzina Comando. Il col. Bianchi sta parlando col t.col. Piccolomini accanto all’ufficio. Il Colonnello mi chiama e mi invita a entrare. “Il t.col. Piccolomini mi ha informato che lei gradirebbe essere trasferito al 4°, a Capodichino”, mi dice. “Si, signor Colonnello”, rispondo, “A Lecce mi trovo bene e il lavoro della Scuola mi piace, ma purtroppo la lontananza dalla famiglia mi pesa! Trasferire la famiglia qui sarebbe complicato oltre che costoso”. Il Colonnello risponde di non potermi promettere nulla ma, appena andrà a Roma, parlerà della mia richiesta di trasferimento al Ministero con il Generale responsabile di tutte le Scuole di Volo. Non accenno a nessuno della mia richiesta. Dopo due giorni il col. Bianchi decolla con un Lightning P 38 alla volta di Roma, speriamo, dico tra me, che si ricordi di quanto mi ha promesso. Al pomeriggio, mentre sono in volo, sento il Colonnello alla radio chiamare la Torre di controllo e chiedere l’autorizzazione all’atterraggio. Quando atterro è ancora sul piazzale e sta conversando con il t.col. Piccolomini che è venuto a riceverlo. Il Colonnello mi vede e mi fa cenno di avvicinarmi. Lo saluto. “Comodo”, mi dice, “Ho parlato personalmente col Generale, mi ha assicurato che si interesserà al tuo caso, ci vorrà qualche giorno”. Lo ringrazio e ritorno al mio aereo, devo andare in volo con un altro allievo. L’attività di volo riprende in pieno grazie anche al tempo clemente. Faccio alcuni voli con l’allievo s.ten. Sacchetti: non mi soddisfa come vola, non ha la capacità di coordinazione necessaria nel controllo dell’aereo e assimila molto lentamente. Ne parlo con il suo ultimo istruttore, anche lui è più o meno dello stesso parere. Alla riunione degli istruttori il cap. Ghiacci chiede il mio giudizio. “Ritengo che il s.ten. Sacchetti non abbia le capacità per volare da solo”, rispondo, “Per me è ‘Non Idoneo’”. Alcuni istruttori sono d’accordo con me, il cap. Ghiacci interviene, dice che il Comandante è già al corrente ma c’è una “pressione” da parte di una personalità politica per non esonerarlo dal volo. In questi casi in genere finisce che l’allievo viene assegnato ai Trasporti, dove vola da secondo pilota e si evita così il rischio che si ammazzi. L’indomani mi viene assegnato un allievo da addestrare al volo in formazione con cinque velivoli, il cap. Salvi farà da leader. Decolliamo e ci mettiamo in formazione, passiamo dal volo in fila indiana a rovesciamenti, virate strette, affondate seguite da cabrate accentuate. L’allievo risponde bene, sono costretto a intervenire sui comandi solo una volta: in una virata stretta a destra non è abbastanza inclinato e usa troppo il timone. Salvi ci comunica via radio che si accinge a effettuare un looping. Dopo una lunga picchiata inizia una cabrata graduale. L’allievo sull’aereo che ci precede interviene bruscamente sui comandi e al culmine della figura si sfila dalla formazione. Il mio allievo mantiene la calma e rimane nella posizione prevista in formazione senza scomporsi. Quando usciamo dal looping la formazione si ricompone e ritorniamo alla base. Una volta a terra, durante il debriefing, dico all’allievo di fare più attenzione nelle virate strette, mi dice “Le gambe mi tremavano dalla tensione nervosa e non riuscivo a controllare la pedaliera!”. Mi metto a ridere: “Non ti preoccupare”, rispondo, “Succedeva anche a me quando ero ai primi voli in formazione!”.

IN LICENZA PER NATALE 1950 E CAPODANNO 
Ci avviciniamo a Natale, il secondo che trascorro alla Scuola di Lecce. Il 20 dicembre l’attività è ridotta, tra un paio di giorni verrà sospesa per le Festività e riprenderà il 7 gennaio. Mi vengono assegnati 10 giorni di licenza per Natale e Capodanno. A Brindisi, sulla via di casa, salgono sul treno gli altri istruttori di quell’aeroporto, ci conosciamo quasi tutti già da prima della guerra. Alla stazione di Napoli prendo un taxi, oltre al mio bagaglio ho con me i regali per Maria e per i ragazzi. Mi fermo da mia suocera per salutarla e poi salgo al nostro appartamento. Maria mi sente arrivare e manda Dany ad aprire la porta perché sta facendo il bagno a Sergio. Quando ha finito mette Sergio nel lettino e mi prepara qualcosa da mangiare. Metto la busta con lo stipendio sul tavolo e le dico di non spenderlo tutto per Natale. Il giorno prima di Natale tutte le compere sono fatte e mio suocero si mette a cucinare. È arrivato anche un pacco dagli USA, è di mio fratello e sua moglie. Ceniamo e poi, come è usanza a Napoli, giochiamo a tombola fino a quando giunge l’ora di andare alla messa di mezzanotte. Trascorriamo il Natale serenamente in famiglia. La licenza passa in fretta, Maria mi chiede perché non cerco di farmi trasferire a Capodichino, sede del mio vecchio 4° Stormo. Le rispondo che ci sto pensando ma che comunque non sarà facile ottenere subito il trasferimento.

IN VOLO CON UNO SPECIALISTA 
Sono di ritorno a Lecce il 2 gennaio 1951, al briefing del giorno dopo ci viene detto che la Scuola riprenderà in pieno l’attività solo dopo il 6 gennaio. Passo nella sala “link trainer” dove mi alleno con le procedure di avvicinamento strumentale che utilizzano i radiofari, detti NDB (Non Directional Beacon) e prendo dimestichezza con i rilevamenti goniometrici, QDM e QDR. Quando ho finito vado in hangar, i motoristi hanno sostituito il motore a un velivolo e bisogna fare il volo di controllo. Il Capofficina mi chiede se voglio farlo io e va dal Capitano per l’autorizzazione, gli chiede anche se posso portare un aviere motorista: sono autorizzato! Lo specialista va a prendere in magazzino paracadute e cuffia e si sistema a bordo, al posto di pilotaggio dietro al mio. Gli ricordo di stringere bene le cinture e di togliere le spina di sicurezza del paracadute. Chiamo la Torre che mi autorizza al rullaggio e al decollo. Alle 10.30 sono in volo, salgo a 6000 piedi ed effettuo i controlli previsti quando è stato sostituito un motore. Prima di rientrare il motorista mi chiede con l’interfonico di fare un po’ di acrobazia. Domando l’autorizzazione alla Torre che mi dice di attendere, l’addetto telefona per chiedere il consenso all’Ufficiale delle Operazioni Volo. Mi richiamano dopo un minuto, sono autorizzato ma non devo scendere sotto i 6000 piedi. Salgo a 10.000 piedi e inizio con tre giri di vite, mi giro e vedo che lo specialista è tutto un sorriso. Abbasso il muso, prendo velocità, cabro e metto l’aereo in verticale, poco prima di perdere il controllo tolgo tutto motore, affondo il piede sinistro e tiro la cloche alla pancia. L’aereo mette il muso verso il basso, in verticale, ondeggiando da destra a sinistra come un pendolo. Guardo il motorista, ha la testa appoggiata al tettuccio. Tengo l’aereo livellato per un po’, mi volto nuovamente, ha una mano sulla bocca e con l’altra mi fa segno di scendere. Dirigo velocemente verso l’aeroporto, chiamo la Torre, sono autorizzato a un atterraggio diretto, rullo velocemente fino all’hangar. Scendo, lo aiuto a slegarsi ed uscire, è tutto bianco in volto, appena mette i piedi a terra rimette tutta la colazione e comincia a sentirsi meglio. Sono dispiaciuto, ma lui mi assicura che è stato bellissimo. Non ho più avuto altre richieste di venire in volo con me. Vengono intanto richiamati in servizio altri piloti veterani che non volavano dalla fine della guerra. Devono essere impiegati come istruttori e assegnati alla Scuola Volo di 1° Periodo di Brindisi, comandata dal col. Cominelli, e alla Scuola di Volo di 2° Periodo di Lecce, comandata dal col. Molinaris. Tra loro alcune vecchie conoscenze del 4° Stormo di Gorizia: Bandini, Chianese, Baron e altri. Tutti piloti che in Spagna o in Africa si sono guadagnati la fama di “manici”! Gino Baron un leggendario pilota dei cieli dell’Africa Orientale, era il gregario fisso di Mario Visintini, un Asso dell’Africa Orientale con 17 vittorie. Baron, dal carattere gioviale e modesto, si è guadagnato una medaglia d’argento e una di bronzo per le sue imprese: 20 apparecchi abbattuti, 10 individuali e 10 in collaborazione. Chianese e Bandini si sono distinti in Spagna. Bandini, nel giugno del 1940, su El Adem affronta sei Blenheim e ne abbatte uno; ferito seriamente dagli altri Blenheim, riporta l’aereo a Tobruch e gli viene concessa una medaglia d’argento sul campo. All’aeroporto “F. Cesari” di Galatina, la Scuola di Volo 3° Periodo ora è organizzata diversamente: è formata da due Gruppi, il 212° ed il 213°. Il 212° comprende la 4ª Squadriglia comandata dal cap. Albanese, il “213° Gruppo, comandato dal leggendario Pezzè, grande acrobata ed eccellente istruttore, comprende la 5ª Squadriglia comandata dal cap. Pollo e la 6ª Squadriglia comandata dal cap. Melandri.

L’AUTORIZZAZIONE AL TRASFERIMENTO AL 4° STORMO E IL DECOLLO SUL MUSTANG F 51 
Vengo convocato nell’ufficio del col. Bianchi: il mio trasferimento al 4° Stormo è autorizzato. Prima di lasciare Lecce mi consiglia di fare qualche volo sul F 51 Mustang ed evitare così di dover andare ad Amendola, alla Scuola di Volo di 3° Periodo, dove di solito si effettuano i passaggi su questa macchina. Il Colonnello mi autorizza a utilizzare i due Mustang della nostra Scuola. Il giorno dopo, il 3 gennaio, all’Ufficio Operazioni il t.col. Piccolomini mi dice di presentarmi alle 09.15 all’hangar 4, andrò in volo con il Mustang. Prendo il manuale che il comandante Stone della US Navy mi ha dato, vado sulla linea di volo dov’è parcheggiato uno dei due Mustang, salgo nell’abitacolo e, con l’aiuto degli schemi riportati nel libro, mi studio gli strumenti e gli impianti. La strumentazione di volo e di navigazione non è molto differente da quella del T6, sono invece più numerosi e complessi i vari impianti. Il motore, un Merlin da 1450 HP, è sovralimentato da un compressore a due stadi che recupera la perdita di potenza con la quota. È dotato di un efficiente impianto di raffreddamento a glycol. Sul fondo del seggiolino dell’aereo non c’è il paracadute sul quale normalmente siede il pilota e pertanto sono in posizione alquanto più bassa e scomoda, comunque il posto di pilotaggio sembra confortevole, tutti i comandi sono facilmente accessibili. Nel manuale c’è scritto che un pilota, con precedenti esperienze di velivoli da caccia, necessita mediamente di 25 ore di volo per padroneggiare il velivolo. Scendo, vado a sedermi su una sdraio davanti all’hangar e continuo a sfogliare il manuale. Arrivano gli specialisti per assistere alla messa in moto dei P 38 Lightning con i quali alcuni allievi andranno in volo da “solisti”. Il ten. Tieri chiama intorno i “solisti” per l’assegnazione delle zone di “lavoro”, dove andranno a esercitarsi senza l’istruttore. Dovranno volare entro l’area assegnata, senza sconfinare, tenendosi in contatto radio con la “biga” a terra dove, a rotazione, c’è sempre un istruttore pronto ad intervenire in caso di necessità. Il Tenente, quando ha finito con gli allievi, mi chiama scherzosamente in inglese col mio codice “Yellow 21”, mi chiede se sono pronto ad andare in volo col Mustang. Mi infilo il paracadute, salgo e mi imbrago al seggiolino, lui sale sull’ala, mi spiega in dettaglio gli strumenti, i comandi di volo, gli impianti, le procedure normali e di emergenza. Devo ripetere ogni cosa fin quando non è convinto che l’abbia memorizzata. Impiega circa 40 minuti per spiegarmi tutto e, dopo gli ultimi consigli, mi dice di mettere in moto. Scende dall’ala posizionandosi sul lato sinistro. I motoristi si avvicinano e collegano il carrello con le batterie all’impianto elettrico di bordo, gli strumenti elettrici prendono vita, le spie luminose si accendono e si percepisce il ronzio dei giroscopi che si avviano. Effettuati i controlli con l’aiuto della checklist, porto avanti la manetta di un pollice, apro completamente i flabelli del motore e del radiatore dell’olio, inserisco la pompa del carburante, aziono per quattro volte il “primer”, il cicchetto. Alzo gli occhi e guardo il motorista, ha il pollice alzato, grido “Via dall’elica!”, sollevo la protezione del pulsante di avviamento e premo: l’elica gira lentamente, dopo due giri inserisco entrambi i magneti, due secondi dopo il motore si avvia. Una nuvola di fumo grigio avvolge l’aereo mentre posiziono la levetta della miscela su normale e l’interruttore del compressore su “on”. Porto il motore a 1300 giri al minuto, poco sopra al minimo. Il rombo è possente, immagino cosa sarà quando darò potenza! Controllo che la pressione dell’olio salga a 50 psi entro 30 secondi e inserisco l’interruttore principale dell’impianto elettrico, il “master”. Faccio cenno al motorista di staccare il carrello con le batterie. Controllo la pressione della benzina ruotando il selettore sui serbatoi alari e lo posiziono sul principale, dispongo il turbocompressore su “automatico”. Estendo e ritraggo i flap e il motorista si abbassa per controllare la corretta e simmetrica escursione. Chiudo il tettuccio facendolo scorrere in avanti, accendo la radio e chiamo la Torre di controllo, sono autorizzato alla testata Sud della pista. Con i due pollici alzati segnalo di togliere i tacchi, riscalderò il motore durante il rullaggio. Avanzo leggermente la manetta, l’aereo si muove, rullo fino all’inizio pista senza entrarvi, inserisco il freno di parcheggio, aumento la potenza fino a raggiungere 1800 giri al minuto, il rombo è impressionante e siamo appena a metà della potenza massima. Quando la temperatura dell’olio raggiunge i 65 gradi, effettuo la prova dei magneti a 2300 giri al minuto, il calo di giri è inferiore a 100 giri al minuto, è nei limiti! Riduco la potenza a 700 giri al minuto per controllare il “minimo” e provo l’accelerazione del motore portandolo a 2300 giri al minuto e infine riduco a 1500 giri al minuto. Alle 11.05 chiedo l’autorizzazione ad allinearmi in pista e decollare, porto i flap nella posizione TO e il trim del timone 6° a destra. Mi allineo sul “center line”, avanzo gradualmente la manetta, non applico tutta la potenza al motore per contenere la forte tendenza a imbardare dovuta all’effetto “coppia” dell’elica: debbo dare piede destro quasi a fondo corsa. La potenza è talmente esuberante che, anche con poco più di tre quarti di potenza, l’aereo accelera rapidamente. Quando l’anemometro indica 60 mph (miglia statutarie all’ora) avanzo ulteriormente la manetta, il motore raggiunge i 3000 giri al minuto, la pressione di alimentazione è di 61 pollici di mercurio. Il rombo aumenta e sento la schiena premere sullo schienale per l’accelerazione, la velocità aumenta e mantengo l’aereo con un assetto leggermente cabrato, sulle tre ruote, fin quando non si staccano da terra. Ritraggo il carrello, alzo il muso, l’anemometro segna 100 mph, ritraggo i flap, regolo i trim, riduco la potenza e cambio il passo dell’elica: in pochi secondi sono a 3000 piedi. Il Mustang è veramente un “cavallo di razza”, come il nome che porta! Circuito sul campo per prendere la mano, effettuo delle variazioni, provo ad estendere e retrarre i flap ed infine, prima di portarmi all’atterraggio, mi accerto che le candele siano pulite portando il motore a 3.000 giri al minuto e regolo la pressione d’alimentazione a 61 pollici di mercurio per un minuto, poi riduco a 2700 giri al minuto. Chiamo la Torre, mi allineo da lontano con la pista, riduco la velocità a 160 mph ed estendo carrello e flap, riduco ulteriormente la velocità a 120 mph, a 10 piedi da terra effettuo la “flare” e qualche secondo dopo tocco la pista dolcemente, a 90 mph. Il ten. Tieri mi dice per radio di effettuare un altro circuito, rullo all’inizio pista e chiedo alla Torre di decollare nuovamente. Staccate le ruote, questa volta tengo il muso molto alto, è impressionante vedere come il Mustang si “arrampica”, l’altimetro gira come impazzito, arrivo a 4000 piedi in un attimo. Alle 11.35, quando parcheggio sulla linea di volo, il ten. Tieri, sale sull’ala e mette la testa dentro il cockpit. Gli chiedo cosa guarda. “Controllo se hai superato il blocco oltre il quale il motore eroga la potenza di emergenza”, risponde, “Dopo il decollo l’aereo saliva così rapidamente che mi è venuto il dubbio”. Mi dice che per oggi può bastare e di trovarmi domani al briefing, vuol farmi andare in volo prima che inizi l’attività della Squadriglia. L’indomani al briefing mi viene comunicato di recarmi all’hangar 4 perché il ten. Tieri vuole che vada nuovamente in volo con il Mustang per effettuare degli stalli e qualche figura acrobatica. Il pomeriggio altro volo, devo salire a 30.000 piedi e impratichirmi con l’uso della maschera a ossigeno e con il comportamento del velivolo in alta quota. Quando passo per i 16.000 piedi sento distintamente l’aumento di potenza dovuto all’entrata in funzione del secondo stadio del compressore, le lancette dell’altimetro girano veloci. Il Macchi 205 è un aereo fantastico ma non ha le caratteristiche di arrampicata del Mustang, in pochissimo tempo mi trovo a 25.000 piedi e continuo a salire fino a 30.000 piedi. Eseguo delle virate di 360 gradi per saggiare come reagisce l’aereo, è ancora controllabile senza difficoltà, in virata non dà cenni di “buffet”. Durante il mio quarto volo debbo eseguire dei looping, tonneau e altre figure, rimanendo sul cielo campo. Faccio ancora un paio di voli e un giorno il t.col. Piccolomini mi chiama nel suo ufficio: “Il col. Bianchi ha deciso che non hai bisogno di fare altri voli con il Mustang”, mi dice, “Puoi essere trasferito al 4° Stormo a Capodichino. Se ce ne sarà bisogno continuerai lì l’addestramento”. Ritorno all’hangar, incontro il cap. Ghiacci, sa già del mio trasferimento, mi chiede quante ore di volo ho fatto complessivamente sul Mustang. “Col volo di oggi, poco più di un’ora”, rispondo. Vado nella mia cameretta e comincio a preparare i bagagli, domani consegnerò lenzuola, asciugamani e tuta di volo al magazzino. Prendo il bus per Lecce, ceno in un ristorante e poi vado al cinema. Il giorno dopo mi reco al briefing come ogni mattina, al termine il t.col. Piccolomini mi dice che i miei documenti sono pronti, devo solo ritirarli. Restituisco le dotazioni personali in magazzino e mi reco all’Ufficio del Personale, saluto tutti e vado all’Ufficio Operazioni, dove chiedo di essere ricevuto dal t.col. Piccolomini. Nel suo ufficio c’è anche il col. Bianchi. Li saluto e mi fermo sulla soglia. Il col. Bianchi mi chiede cosa desidero, rispondo che sono venuto a ringraziarli per il mio trasferimento e per il disturbo che ho causato. Mi stringono la mano e mi fanno gli auguri. In hangar saluto il ten. Tieri e il ten. Vescovo, all’hangar n.1 trovo il cap. Ghiacci, saluto anche lui. Prendo i miei bagagli e mi avvio all’uscita dell’aeroporto dove ci sono sempre dei mezzi che vanno a Lecce, chiedo un passaggio fino alla stazione, alle 13.30 prendo il treno diretto a Roma, da dove proseguirò per Napoli.

11 GENNAIO 1951: ASSEGNATO AL  4° STORMO DI CAPODICHINO 
Arrivo a Napoli dopo le 22, Maria non mi aspettava, le do un bacio e vado nella camera di Dany e Sergio: dormono, poso sul comodino i regalini che ho comperato per loro. Maria chiede quanto tempo mi fermerò. “Per sempre!”, rispondo, “Sono trasferito al 4° Stormo!”. Il giorno dopo mi presento in aeroporto a Capodichino, la zona militare è sul lato Nord Ovest del campo. Un grande casermone ospita il Comando, gli uffici, la mensa e gli alloggi, mentre accanto ci sono due hangar, il più vicino è del X Gruppo e l’altro del IX. Un Ufficiale del Personale guarda il mio ordine di trasferimento e mi dice di attendere, sarò ricevuto dal Comandante dello Stormo, il col. Paolo Moci, insediato da pochi mesi, dall’ottobre dello scorso anno. Debbo attendere circa mezzora, è impegnato con altri Ufficiali. Quando il Comandante mi invita ad entrare mi fa alcune domande sulla mia carriera e sull’attività di volo svolta fino ad oggi. Mi spiega quale sarà il mio ruolo in seno al Reparto e mi invita a rivolgermi all’Ufficio Operazioni dove l’Ufficiale addetto gestirà il mio impiego operativo. Nell’ufficio il Maggiore dà un’occhiata al tabellone dei turni di servizio dei piloti: sarò in forza alla 73ª Squadriglia del IX. Mi assegna il codice identificativo di volo “Strale” seguito da un numero, il X Gruppo usa invece il codice “Picca”. Vado a presentarmi al Comandante di Squadriglia, mi avvicino e lo saluto, risponde come se avesse un peso attaccato al braccio. Gli porgo i miei documenti e rimango sull’attenti mentre mi fa le solite domande: su quali fronti ho combattuto, le ore di volo, i velivoli sui quali ho volato, dove sono stato dopo l’8 settembre ’43 e infine mi ordina “Riposo!”, e mi chiede “Quante ore ha fatto sul Mustang?”. “Un’ora e dieci minuti”, rispondo. “Un po’ poco per essere abilitato. Come mai?”, e io “Ero istruttore alla Scuola Caccia di Lecce e hanno ritenuto che, vista la mia precedente esperienza, potevo essere abilitato e assegnato a un Reparto operativo”. Non mi chiede nient’altro, mi dice di andare nel magazzino vestiario e ritirare la mia dotazione. Mi viene assegnato un armadietto in una sala comune dove posso riporre quanto appena ritirato. Mentre sono lì nessuno dei presenti mi rivolge parola, tutti mi ignorano. Quando esco incontro un amico dei vecchi tempi, ora è Tenente, si chiama Tarantola, siamo stati Sottufficiali insieme e buoni amici. Mi si rivolge in inglese, è nato in Italia ma è vissuto negli USA. Si avvicinano due Sottufficiali, gli dico di continuare a parlare in inglese e gli confido della fredda accoglienza con cui sono stato ricevuto. Mi dice di non prendermela, mi accetteranno quando mi conosceranno meglio. Tarantola ha appena ricevuto la nomina a Capitano e sta per essere trasferito, mi lascia perché deve andare in volo. Passo il resto della mattinata a guardarmi intorno e non parlo con nessun altro. Dopo pranzo, mentre mi avvio all’hangar, incontro un altro vecchio amico: è diventato anche lui Ufficiale, eravamo insieme al 51° Stormo a Ciampino Sud, poco prima che scoppiasse la guerra. Mi racconta che ha frequentato l’Accademia di Caserta per due anni, invece dei tre regolari, poiché c’era la guerra. Ha lasciato il 4° Stormo nell’agosto dello scorso anno ed è venuto a salutare gli amici, si chiama Defraia. Sarà promosso Capitano prima della fine dell’anno. Sardo di nascita, si è sempre dimostrato un compagno veramente intelligente e un gran buon amico.

ALLA 73ª SQUADRIGLIA 
L’indomani me ne sto in disparte a osservare i voli. Il Capitano mi fa chiamare e mi dice di prendere cuffia, microfono e paracadute: andrò in volo. Prendo le mie cose, vado sul piazzale dov’è parcheggiato il Mustang assegnatomi, mi assesto l’imbracatura del paracadute, prima di indossarlo effettuo i controlli esterni e poi salgo a bordo. Mentre controllo il cockpit, un giovane Tenente sale sull’ala e mi chiede se conosco la strumentazione e mi fa delle domande. Tra di me dico “Questo tizio ha voglia di provocarmi”. Lo interrompo: “Signore, sono stato educato negli USA, ciò significa che so leggere e scrivere in inglese e quindi comprendo quello che è scritto sugli strumenti!”. Sembra abbia capito, senza una parola scende ma scivola sull’ala e si ritrova seduto sull’erba. Mi guarda, gli faccio un sorrisino di sufficienza. Segnalo al motorista sottobordo di collegare l’alimentazione elettrica esterna dal carrello con le batterie. Avvio il motore, chiamo la Torre per un controllo, mi rispondono “Forte e chiaro”, chiedo il rullaggio. “Autorizzato a rullare per pista 06”, mi rispondono. Prima di entrare in pista porto il motore a 2300 giri al minuto, eseguo i controlli previsti prima del decollo, tutto funziona regolarmente. “Autorizzato a entrare in pista e decollare”, mi comunica la Torre. Dirigo su Ischia e Capri per ambientarmi un po’, poi ritorno verso l’aeroporto. La Torre mi dice che sono il numero 3 e mi autorizza all’atterraggio quando sono in virata base, l’aereo che mi precede sta liberando, atterro corto ed esco a metà pista. Con il motore a 1000 giri al minuto apro i flabelli dell’aria e dell’olio, retraggo i flap, escludo la pompa del carburante e porto il trim al centro. Rullo zigzagando, a terra l’enorme muso del Mustang e l’assetto “cabrato” impediscono completamente la visione anteriore e bisogna procedere così per evitare di finire su qualche ostacolo. Davanti all’hangar della 73ª Squadriglia lo specialista mi dà le istruzioni per il parcheggio. Prima di chiudere il motore avanzo leggermente la manetta fino a 1500 giri al minuto, porto la leva della miscela su “idle cut off” e chiudo il selettore della benzina. Il motore dopo due secondi si spegne e l’elica fa ancora alcuni giri prima di fermarsi completamente. Eseguo i controlli previsti e infine aziono la manovella che fa scorrere indietro il tettuccio a “goccia” in plexiglas. I piloti della mia Squadriglia sono davanti all’hangar, passo accanto a loro e, come se non li avessi visti, vado a compilare il technical log book, il quaderno tecnico di bordo, che uno specialista mi porge. Scrivo che non ho riscontrato anomalie e firmo. Vedo il ten. Tarantola accanto a un aereo, è in procinto di andare in volo. Vado a salutarlo, mi chiede come stanno andando le cose, rispondo “Come sempre”. Sorride. “Non farci caso, ci sentiamo quando scendo!”, mi risponde. Ritorno in hangar, il Capitano mi chiama nel suo ufficio, mi chiede perché non sono rimasto intorno al campo, come da lui istruito. “Ho fatto un giro intorno a Napoli. L’ultima volta che ho volato qui era mezzanotte, eravamo in guerra e io ero nella Squadriglia di Caccia Notturna”, rispondo, e aggiungo “Posso farle una domanda, Signore? Forse mi sbaglio ma, dal comportamento di gran parte dei colleghi, ho l’impressione di non essere molto gradito nella 73ª Squadriglia. È la prima volta che mi succede in tutta la mia carriera militare. Farò il possibile per essere trasferito altrove!”. Il Capitano rimane in silenzio per un paio di secondi. Non si aspettava questa mia reazione, mi dice di essere spiacente, quando si allontana mi rendo conto che ci è rimasto male. Si avvia verso i piloti della Squadriglia che sono sulle sedie a sdraio, davanti all’hangar, e lo vedo parlare con loro. Incontro Defraia, conversiamo giovialmente e gli chiedo se può aiutarmi a farmi trasferire nella sua Squadriglia, la 84ª che fa parte del X Gruppo. Mi risponde che ne parlerà col suo Comandante, mi confida che ci sarà bisogno di un rimpiazzo nella 84ª perché lui è prossimo a partire per la Sardegna per fare l’istruttore ad Alghero, vicino a casa sua. Ritorno alla 73ª, il Capitano deve aver detto qualcosa agli altri piloti perché un paio di loro si avvicinano e cercano di conversare con me, ma io li evito. La sera accompagno Maria dal dottore, non si sente più bene da quando ha smesso di allattare Sergio. Quando usciamo dall’ambulatorio, prima di tornare a casa andiamo in una pizzeria. Il giorno dopo, mentre mi avvio verso l’hangar della 73ª, incontro Defraia in compagnia del cap. Zamboni, Comandante della 84ª: me lo presenta, è stato negli USA in Texas per un corso di volo e parla un ottimo inglese. Defraia gli dice che desidererei cambiare Squadriglia e che potrei sostituirlo quando lascerà il Reparto. Il Capitano risponde che ne parlerà col Comandante del X Gruppo, il suo ritorno dalla licenza è previsto proprio oggi. Chiedo il nome del Comandante. “Il t.col. Pallavicini”, mi risponde. “Lo conosco bene, siamo stati nella stessa Squadriglia col 6° Stormo. Grazie Capitano!”, osservo. Mentre parliamo camminiamo e arriviamo alla linea di volo dell’84ª Squadriglia, dall’altra parte dell’aeroporto, li ringrazio, saluto e mi incammino verso il mio hangar. I motoristi stanno riscaldando i motori degli aerei, il Capitano mi chiama e mi dice di andare in volo per fare da gregario a un giovane Tenente che deve addestrarsi a portare una formazione. Mi avvio verso i due velivoli, il Tenente è accanto al suo, mi vede e non mi rivolge parola, saliamo e mettiamo in moto, quando mi fa cenno lo seguo nel rullaggio. Non mi dice niente neanche per radio e io faccio altrettanto. Siamo autorizzati al decollo, resto piuttosto distante da lui anche se mi fa segno di avvicinarmi. Rimaniamo in volo 40 minuti e poi torniamo a terra. Quando scendiamo mi avvio verso l’hangar senza attenderlo, noto che ci rimane male… se l’è cercata! Il Capitano mi chiama, vuole sapere com’è andata, rispondo “Non male” senza altre spiegazioni. Un’ora dopo vengo chiamato al Comando della Squadriglia, mi comunicano che devo presentarmi al Comandante del X Gruppo: sono trasferito all’84ª Squadriglia! Ritorno alla 73ª e informo il Capitano, è già al corrente del mio trasferimento, mi stringe la mano e mi augura buona fortuna. Non mi preoccupo dei piloti della Squadriglia e vado invece a salutare gli specialisti. Uno di loro mi dice “Maresciallo, ha fatto bene a farsi trasferire, qui i piloti della 73ª non vogliono Sottufficiali in Squadriglia”. Finalmente capisco perché sono stato accolto in questa maniera!

ALLA 84ª SQUADRIGLIA 
Mi presento al Comando del X Gruppo, busso all’ufficio del Comandante, apro la porta e vedo il t.col. Pallavicini, che si alza e mi abbraccia. “Caro Patriarca”, mi dice, “Appena il cap. Zamboni e il ten. Defraia mi hanno detto che eri qui e che volevi venire al X Gruppo, sono andato dal Comandante di Stormo e ho ottenuto il tuo trasferimento”. Era stato informato che facevo l’istruttore a Lecce, vuol sapere cosa ho fatto dopo che non ci siamo più visti e poi mi racconta di sé. Gli chiedo del ten. Teja, del cap. Elio e degli altri Sottufficiali che erano nella nostra Squadriglia, infine lo saluto, il cap. Zamboni mi sta aspettando e vado all’84ª. Mi presento al Capitano, il quale mi presenta agli altri piloti. Qui è tutta un’altra aria, mi sento in famiglia, sono il benvenuto! Ritrovo anche un paio di miei vecchi allievi di Lecce che sono stati assegnati al 4° Stormo. Come di consueto pago da bere a tutti. Il giorno dopo ci ritroviamo al briefing, mi viene assegnato prima un volo da solo e poi uno in coppia col cap. Zamboni. Terminato il briefing andiamo sulla Linea di Volo, i Mustang della Squadriglia sono pronti e allineati, il mio nuovo codice di chiamata è “Picca Four”. Decollo e mi porto fuori dall’aeroporto dove nessuno può vedermi e eseguo alcune figure acrobatiche per esercitarmi e perfezionarmi. Quando ritorno il m.llo Mechelli, che conosco da lunga data ed è considerato uno dei migliori piloti dello Stormo, si avvicina e mi chiede perché non sono rimasto sul campo. Gli rispondo che lo farò la prossima volta e vado a compilare il technical log book dell’aereo. Penso che era curioso di vedere come eseguivo le varie figure acrobatiche, forse era preoccupato che mettessi a rischio la sua fama!. Vado a prendere una tazza di caffè e ritorno in Squadriglia, dopo un’ora il cap. Zamboni mi chiama, debbo prepararmi per andare in volo con lui. È la prima volta che effettuo un volo in coppia col Mustang. Decolliamo separatamente e poi mi porto in formazione. Inizialmente mi tengo a una distanza che mi fa sentire tranquillo, poi, man mano che prendo confidenza, stringo fino a portare la mia ala tra i piani di coda e l’estremità alare dell’aereo del Capitano. Dopo qualche minuto di leggere virate a velocità costante, il Capitano inizia delle affondate e successive cabrate per vedere se mantengo la mia posizione, passa quindi ad alcuni wing over non accentuati. Mi guarda e alza il pollice, per radio mi dice che ora faremo un paio di looping. Sembra soddisfatto, chiama la Torre e siamo autorizzati all’atterraggio. Quando scendiamo dai nostri aerei il Capitano si avvicina e mi stringe la mano e, davanti agli altri piloti, dice “Abbiamo un nuovo buon gregario e la nostra Squadriglia potrà disporre di un team acrobatico di cinque aerei”. Faccio ancora qualche volo sia da solo che in coppia con i miei ex allievi e anche un volo officina con uno dei Mustang che ci sono stati appena consegnati alla Squadriglia.

VOLO NOTTURNO 
Qualche giorno dopo giunge l’ordine alla Squadriglia di iniziare l’addestramento al volo notturno con lo Stinson-L5, un velivolo leggero utilizzato per l’Osservazione Aerea dall’USAF. Il t.col. Pallavicini mi chiede quante ore di volo notturno ho al mio attivo. “Circa una trentina”, rispondo. “Come mai così tante?”, mi chiede. “Durante la guerra volavo con la Caccia Notturna, proprio qui a Napoli”, aggiungo. Mi dice che sarò uno dei primi a decollare per i voli notturni e convoca tutti i piloti per un briefing nella palazzina Comando, dobbiamo essere in aeroporto alle 18. Vado a casa, dico a Maria che rientrerò alla sera tardi, mi consiglia di andare a riposare un po’, mi stendo e gioco con Sergio. Mentre torno in aeroporto comincia a farsi scuro. Mancano una ventina di minuti all’inizio del briefing, vado al bar del Circolo Sottufficiali. Il col. Moci, Comandante dello Stormo, è presente al briefing e sarà il primo a decollare, seguito dal t.col. Pallavicini e da me. Sono quello che ha più ore di volo notturno, salvo il col. Moci. Salgo sull’L 5 con il cap. Gensini che mi fa un “doppio comando”, controllo il cockpit, tutto è a posto, chiamo la Torre e alle 18.30 sono autorizzato al decollo: faccio quota sul campo e poi dirigo su Posillipo. Mi fa prendere dimestichezza con il velivolo. Faccio tre atterraggi e dopo 45 minuti atterriamo e mi manda in volo da solo. Che differenza dall’ultima volta che ho volato su Napoli di notte! Torno col pensiero alla guerra, quando volavo nel buio più totale e senza radio. Con la radio ti senti più tranquillo, ti sembra di avere qualcuno con te a bordo. Quando raggiungo la punta di Posillipo e mi dirigo verso la città, il panorama è stupendo, tutte le luci sono accese, vedo le macchine lungo la via Caracciolo e anche le lampare dei pescatori. Peccato che il Vesuvio non sia attivo, sarebbe uno spettacolo perfetto. La Torre mi chiama, chiede la mia posizione, rispondo che sono su San Giorgio a Cremano e mi sto avvicinando al campo. Richiamo in sottovento e sono autorizzato all’atterraggio sulla 06. Quando entro in sottovento accendono le luci di pista, atterro, esco di pista e rullo verso gli specialisti che agitano le torce elettriche per segnalarmi dove parcheggiare il velivolo. Rimango in linea di volo ad attendere il rientro dei colleghi in compagnia di quelli che devono ancora volare. Alcuni di loro sono preoccupati dalla linea di alta tensione alla fine del campo, li tranquillizzo dicendo che è segnalata con le luci ed è ben visibile. Dopo alcune ore dobbiamo smettere perché sale la nebbia e la visibilità è sotto i valori minimi ammessi. Alcuni di noi abitano in città e ci viene messo a disposizione un mezzo del Reparto per accompagnarci a casa. Trovo Maria ancora sveglia, le dico che non si deve stancare, ha bisogno di riposare. Mi sveglio dopo le nove, devo rientrare al Reparto alle 13.00. Maria prepara una leggera colazione e vado in aeroporto. Il corso di volo notturno è sospeso, se ne riparlerà più avanti. Non c’è attività e mi reco al link trainer, anche qui non c’è nessuno. Ritorno in Squadriglia e trovo il serg. Angelo Birago, sta compilando i registri degli aerei e gli stralci volo dei piloti. “Vuoi una mano?”, gli chiedo, “Quand’ero un giovane Sergente anch’io mi occupavo dei registri della Squadriglia”. È piacevolmente sorpreso dalla mia offerta di aiuto e mi dice di occuparmi degli stralci volo dei piloti, sono più facili da compilare. Il serg. Birago è una miniera di barzellette, ne racconta una dietro l’altra mentre lavoriamo e mi fa fare un sacco di risate. Quando finiamo è ora di andare a casa, mi invita al bar del Circolo Sottufficiali, mi offre da bere, da allora diventiamo buoni amici. I voli notturni sono sospesi e non se ne riparla più per molti mesi.

L’AERONAUTICA ITALIANA ENTRA A FAR PARTE DELLA NATO 
L’Aeronautica Italiana farà parte delle forze NATO e anche il 4° Stormo deve adeguarsi ai nuovi standard addestrativi previsti. Il cap. Zamboni mi chiede di fare un volo di controllo di un nostro velivolo revisionato dal 5° Reparto Tecnico Aeromobili (RTA). Mi danno un passaggio fino all’hangar con un mezzo militare, l’Ufficiale responsabile della Manutenzione mi porta il quaderno tecnico del velivolo nel quale sono segnalate le anomalie riscontrate e gli interventi effettuati. Firmo per presa visione e al mio ritorno riporterò le eventuali osservazioni. Effettuo i controlli esterni e interni con molta cura. Avvio il motore, la Torre di Controllo mi autorizza a rullare per la pista 24, dall’altra parte del campo. Porto in “manuale” il sistema di raffreddamento del motore e apro completamente i flabelli dell’aria per evitare il surriscaldamento che il lungo rullaggio potrebbe provocare. La taxiway passa davanti alla US Naval Air Facility di Capodichino e alcuni giovani militari salutano agitando il braccio. Quando sono arrivato alla testata della 24 porto il sistema di raffreddamento in “automatico”, effettuo i controlli previsti, chiedo l’autorizzazione e decollo. Sorvolo il fine pista, mi metto in virata e salgo col massimo rateo. Il Mustang si arrampica che è un piacere, l’altimetro gira veloce, mantengo il motore alla potenza massima, 62 pollici di mercurio di pressione di alimentazione. In pochi secondi sono a 7000 piedi. Chiedo alla Torre di rimanere sopra il campo per effettuare le prove previste, mi autorizzano purché non scenda sotto i 3000 piedi. Salgo a 15.000 piedi, provo alcuni stalli, alcune manovre acrobatiche, una vite e metto l’aereo in picchiata per raggiungere la velocità massima, 400 mph. Tutto sembra regolare, chiedo alla Torre di entrare in circuito, mi autorizzano, quando sono a 1000 piedi e a un paio di miglia dal campo chiedo l’autorizzazione a un “low pass”, “Autorizzato!”, mi rispondono. Scendo, mi allineo alla pista, la sorvolo a 10 piedi e alla massima velocità. Quando la pista è finita sotto di me, tiro su in virata, mi porto in sottovento e torno all’atterraggio. Quando scendo dall’aereo vado in hangar, dico all’Ufficiale della Manutenzione che non ho riscontrato alcun inconveniente, compilo e firmo il libro tecnico del velivolo. Un motorista mi ferma, mi dice che ha visto il mio volo, era convinto che sull’aereo ci fosse il cap. Carlo Tommasi, il pilota che di solito effettua i voli “officina” dei velivoli del 4° Stormo e si complimenta con me. Nei giorni seguenti ci dobbiamo addestrare alla navigazione ad alta quota, a turno prendiamo il comando della formazione. L’addestramento continua con le acrobazie in formazione e con il “dog fight”, il combattimento aereo. Il m.llo Mechelli, poco meno anziano di me, ha tutto un altro rapporto con i giovani piloti, e mi contesta di essere troppo amichevole e disponibile con tutti. Un giorno ci troviamo ad andare in volo insieme, sorridendo chiede se desidero sfidarlo in un “dog fight” con lui. Decolliamo dalla 24 e saliamo a 15.000 piedi per affrontarci, regolo il motore a 2750 giri al minuto, la pressione d’alimentazione a 59 pollici e stringo entrambe le frizioni. Per una decina di minuti ci accaniamo per guadagnare la coda dell’altro. Adotto un trucco che ho imparato a Lecce, abbasso di 5 gradi i flap per manovrare meglio. Quando torniamo a terra viene accanto al mio aereo e mi chiede “Ma quanti G hai tirato?”. Guardiamo lo strumento, segna ben 5 G. Se ne va soddisfatto del bel “combattimento”, non pensava che fossi un osso così duro. Naturalmente mi sono ben guardato dal dirgli dell’uso dei flap. Mi siedo su una sdraio accanto all’hangar e guardo i voli dei colleghi. Vado col pensiero alla guerra, se i miei compagni avessero avuto tra le mani un velivolo come il Mustang avrebbero potuto dimostrare la loro abilità. Il Macchi 205 era l’unico velivolo che si avvicinava come prestazioni al Mustang ma è stato costruito troppo tardi e in numero limitato. L’attività di volo è continua ma non particolarmente intensa, nel primo semestre effettuo una sessantina di ore di volo e nel secondo oltre un centinaio. Si vola molto in coppia e in formazione, le cosiddette “Vickers”. Effettuiamo anche alcune formazioni di Gruppo e di Stormo. Normalmente si opera a quote intorno 10.000-15.000 piedi e a volte anche 25.000-28.000 piedi. Ci esercitiamo alla “finta caccia” alle quote più alte per ambientarci al comportamento aerodinamico del Mustang a queste altitudini. Ci sono un paio di esercitazioni in collaborazione con la Marina e l’Esercito e missioni di ricerca e attacco di obiettivi al suolo. Il 2 giugno decolliamo alle 08.30 da Capodichino, in formazione di Stormo, per partecipare alla “Parata Aerea” sui Fori Imperiali a Roma.

ESERCITAZIONI  NATO 
Nell’agosto 1951 viene costituito il 6° Gruppo Caccia, comandato dal t.col. Emanuele Annoni e comprendente la 79ª e 81ª Squadriglia. Vengono assegnati al Gruppo i nuovi caccia a reazione inglesi, Vampire DH 100, costruiti in Italia su licenza. Si tratta di un velivolo il cui prototipo aveva già volato nel 1943, di costruzione mista in legno e metallo. Il 6° Gruppo, con i suoi 24 Vampire, viene integrato nel 4° Stormo il 1° ottobre. Da quando l’Aeronautica Italiana fa parte delle forze della NATO abbiamo frequenti visite di Ufficiali Superiori sia italiani che americani. Ci addestriamo insieme alle Forze Armate degli altri Paesi, eseguiamo missioni di intercettazione di bombardieri e dei caccia che decollano dalle portaerei, tutte operazioni che avvengono sotto la guida radar. Veniamo rischierati a Lecce per un’esercitazione, dobbiamo intercettare dei caccia americani. Sono il gregario del ten. Pasculli e dopo il decollo dirigiamo sul mare, il controllore radar ci assegna una prua di 60 gradi e ce la fa mantenere a lungo, sono preoccupato, ci avviciniamo molto all’Albania, la situazione lungo quel confine è alquanto tesa, non vorrei incappare nei loro Mig. Dopo l’atterraggio dico al ten. Pasculli che secondo me avevamo sconfinato, eravamo in vista di Durazzo. Sorridendo mi chiede cosa avrei fatto se fossimo stati intercettati dai Mig. “Mi sarei abbassato a pelo dell’acqua e avrei manovrato per non farmi colpire!”, rispondo. Dopo alcuni giorni rientriamo a Napoli, durante la nostra assenza ci sono stati dei cambiamenti: il t.col. Pallavicini è stato trasferito a Roma e il cap. Zamboni in un reparto del Nord Italia. Il nostro nuovo Comandante di Gruppo è il magg. Spigaglia. Lo conosco bene, siamo stati insieme quando era appena uscito dall’Accademia e il mio Comandante di Squadriglia era il cap. De Divitiis. Non è un Comandante eccelso, parla volentieri di sé. Mechelli e io abbiamo volato insieme a lui in formazione e come leader non era un gran che, ci faceva sudare sette camicie per stare in coppia, era piuttosto violento con i comandi di volo. Continuiamo ad addestrarci, sono previste navigazioni in formazione su lunghe distanze. In una di queste missioni decolliamo con una formazione di sei velivoli, conduco io fino a San Marino, proseguiamo per Venezia, il cap. De Divitiis ci conduce a Pisa e infine un giovane Tenente si alterna alla guida fino a Napoli. In un’altra occasione è prevista una lunga navigazione sul mare fino al confine francese. Il serg. Birago e io andiamo al magazzino e ritiriamo il salvagente modello “Mae West”, così lo chiamano i piloti americani. Birago non sa nuotare e l’idea di volare sul mare per diverse ore non gli piace molto. Gli dico che se finisce in mare sarà un’ottima occasione per imparare a nuotare, non sorride e non capisce la battuta. Durante il briefing vengono stabiliti i turni di chi guiderà la formazione. Il primo turno, fino all’isola della Capraia, tocca a me, poi il ten. Francescotti, un mio allievo a Lecce, ci conduce fino ad Albenga, sua città natale. Dopo Albenga il Capitano prende il comando della formazione, prima di Pisa chiede come siamo messi col carburante, quattro di noi rispondono che non ne hanno abbastanza per arrivare a Napoli. Il Capitano decide allora di scendere a Pisa e ci dice di passare sul canale del Controllo di Avvicinamento. Avuta la conferma che c’è possibilità di fare rifornimento di carburante, chiede l’autorizzazione all’atterraggio. Quando posiamo le ruote a terra è quasi mezzogiorno. Mentre attendiamo vicino agli aerei che arrivi l’autobotte il Capitano nota che ho indosso il salvagente e mi prende in giro, nessuno di loro l’aveva indossato mentre Birago se l’era tolto prima di scendere dall’aereo e senza farsi vedere mi strizza l’occhio. “Questo non vuol dire che non sappia nuotare”, rispondo, “ma nella malaugurata ipotesi che dovessi finire in mare, avrei più possibilità di rimanere a galla in attesa dei soccorsi”. Pranziamo a Pisa e poi torniamo a Napoli.

I VOLI NOTTURNI E LE ESERCITAZIONI AL POLIGONO 
Rimango il resto della giornata al Reparto e quando torno a casa Maria sta cucinando, Dany fa i compiti e Sergio sta giocando. Mentre siamo a tavola Maria mi dice che ha una sorpresa. “È arrivata una lettera di mio fratello?” chiedo. Risponde di no. “Hai vinto al lotto?”. So che lei e sua madre giocano ogni settimana; scuote la testa e dice di no. Si alza e mi abbraccia dandomi un bacio, Dany e Sergio si mettono a ridere. Chiedo a Dany se sa di che sorpresa si tratta, mi dice di no. Maria si allontana e dopo un attimo di silenzio dice “Stai per diventare padre per la terza volta!”, e mi chiede se sono felice. “Certo che lo sono”, rispondo, “magari questa volta sarà una bambina”. Più tardi viene sua madre, le dico che ho avuto la lieta notizia e che sto uscendo a comprare una bottiglia di spumante per festeggiare. Effettuiamo alcuni voli notturni col Mustang, alcuni piloti non gradiscono molto questo tipo di volo. Ci alleniamo anche a sparare su bersaglio a terra nel poligono di tiro alla foce del fiume Volturno, tra Mondragone e Napoli. Di solito facciamo fuoco individualmente sul bersaglio e a terra un osservatore controlla i colpi messi a segno dal pilota. I più anziani non si fanno prendere dalla frenesia di sparare e smettono alla distanza di sicurezza, sulla “full line”, senza farsi ipnotizzare dal bersaglio. I meno esperti invece si riconoscono dalla scia dei loro colpi a terra che inizia molto prima del bersaglio, con il risultato che pochi proiettili vanno a segno. Ci sono missioni in cui è previsto che tutta la formazione di cinque velivoli faccia fuoco contemporaneamente contro altrettanti bersagli, sono posti sulla spiaggia a una distanza tale da permettere a ogni pilota l’aggiustamento del tiro. Ci portiamo sul bersaglio in linea di fronte, leggermente più larghi del solito, il capo formazione ordina il fuoco a circa 400 metri, l’effetto a terra è terrificante, il terreno ribolle sotto l’effetto di 30 mitragliatrici da 12.7 millimetri che sparano contemporaneamente. A distanza di sicurezza dal bersaglio interrompiamo il fuoco, viriamo cabrando bruscamente per non essere colpiti dai rimbalzi e ci portiamo in fila indiana per un altro passaggio. Effettuiamo alcune missioni di navigazione in alta quota fino alla massima autonomia. Sono sfibranti per le diverse ore che dobbiamo trascorrere imbragati al seggiolino con salvagente, maschera a ossigeno e cuffia.

IL VAMPIRE DH 100 
Il 30 gennaio 1952 decolliamo per Guidonia con tutta la Squadriglia. Il giorno dopo a Ciampino assistiamo a una breve esibizione degli inglesi con il caccia a reazione Vampire DH 100, che è già in dotazione alla 79ª e 81ª Squadriglia e la prossima primavera sarà assegnato anche a noi. Dopo l’atterraggio ci avviciniamo agli aerei e facciamo conoscenza con i piloti. Chiedo a uno di loro il permesso di sedermi al posto di pilotaggio, mi fa sistemare sul seggiolino e mi spiega la strumentazione e le prestazioni. Mi dice che i piloti lo trovano facile nella condotta e con ottime caratteristiche di velocità e quota di tangenza. Lo ringrazio e lui mi chiede dove ho imparato a parlare così bene l’inglese. Ritorno al Gruppo, dobbiamo essere pronti al decollo alle 15.00 per ritornare a Napoli.

IL COL. MOCI LASCIA LO STORMO 
Il Comandante di Stormo, il col. Moci, è trasferito nel febbraio 1952, gli subentra il t.col. Emanuele Annoni. C’è una cerimonia per il cambio di Comando, sono invitati anche gli Ufficiali del Quartier Generale della NATO. Quando il Colonnello tiene il suo discorso annuncia che anche la nostra Squadriglia, la 84ª, riceverà i Vampire in sostituzione dei Mustang, i piloti saranno trasferiti ad Amendola per l’addestramento al jet e al volo strumentale. La mia Squadriglia ha un nuovo Comandante, è il cap. Francescotti. Alla 91ª c’è il cap. Scerna. Diventiamo buoni amici, spesso ci scambiamo delle battute, alcuni colleghi si insospettiscono, pensano che li stiamo prendendo in giro e dobbiamo spiegar loro quello che abbiamo detto. Il cap. Scerna è romano e quando parla col Comandante di Gruppo ha sempre qualche divertente battuta romanesca. Il cap. De Divitiis assume l’incarico di Facente Funzioni di Comandante di Gruppo per circa un mese, fino all’arrivo del t.col. Giuntella. Conosco il nuovo Comandante di Gruppo da quando era Tenente, è un ottimo Ufficiale e tutti lo accolgono con piacere, è una persona leale e obiettiva. È di Roma e, da bravo romano, ha sempre la battuta pronta anche quando deve riprendere qualcuno. Dal Ministero è giunta una nuova disposizione: ogni Stormo deve dotarsi di una propria Pattuglia Acrobatica, la migliore verrà prescelta a rappresentanza nazionale e si esibirà in Italia e all’estero. Mi viene chiesto di far parte della Pattuglia, la proposta non mi entusiasma soprattutto perché i piloti sono tutti del IX Gruppo, dai quali non sono stato accolto molto cordialmente in passato. Dal 18 marzo 1952 partecipo a diversi voli di addestramento, i piloti sono tutti giovani e debbo riconoscere che sono abili sia nella condotta della formazione che nella funzione di gregari. La Pattuglia è composta da cinque velivoli, la sequenza delle figure acrobatiche è ben coordinata ed eseguiamo anche una breve esibizione sull’aeroporto. Questo tipo di volo non mi dispiace ma non mi sento integrato col gruppo, ho sempre il sospetto di non essere ben accetto e rimpiango l’attività operativa della Squadriglia. Un gruppo di Ufficiali della NATO viene in visita alla nostra base e per l’occasione si decide di farli assistere all’esibizione della nostra Pattuglia. Decolliamo in quattro aerei e iniziamo le manovre sul campo con una formazione a diamante. All’uscita dell’ultimo looping, senza dire una parola al leader, mi stacco e vado all’atterraggio da solo. Quando gli altri tre atterrano, il Comandante della Pattuglia mi chiede perché sono rientrato. “Il motore non andava bene”, rispondo, e lui chiede ai motoristi di verificare se ci sono anomalie nel funzionamento del motore. Non mi vengono assegnati altri voli con la Pattuglia e qualche giorno più tardi il nuovo Comandante di Gruppo mi manda a chiamare, vuole sapere perché ho abbandonato la formazione. “Ho saputo del prossimo trasferimento della Pattuglia a Treviso. Credo di essere più utile alla mia Squadriglia e…”. Mi interrompe: “Non potevi dirlo prima? Come ragioni? Allora se un aereo non ti piace ti lanci col paracadute?”. È alquanto alterato, ma poi si calma e sorride: “Torna alla tua Squadriglia e vedi di stare tranquillo”.

AL POLIGONO 
Dobbiamo allenarci al poligono, sotto i velivoli vengono caricate le bombe da esercitazione, il bersaglio è costituito da un paio di vecchi carri armati. Il 24 aprile nel briefing ci viene insegnata la tattica da adottare, dobbiamo avvicinarci in fila indiana e sganciare non troppo bassi per evitare di essere colpiti dalle schegge. In caso di mancato sgancio dobbiamo portarci sul mare e liberarci delle bombe compiendo una affondata seguita da una brusca cabrata o facendo oscillare le ali. Saranno effettuati due passaggi sul bersaglio per prendere confidenza con la manovra, al terzo si sganceranno entrambe le bombe e poi si cabrerà rapidamente. Decolliamo alle 10.40 e quando arriviamo al poligono sono l’ultimo della fila di cinque aerei, vedo cadere le bombe dei miei compagni molto vicine al bersaglio, uno dei carri armati è capovolto dalle esplosioni. Quando viene il mio turno sgancio le bombe e mentre cabro mi giro per osservare il risultato, sono cadute in mezzo ai due bersagli creando un cratere nel quale scivola un carro.

LE PROCEDURE DI AVVICINAMENTO GCA 
Un giorno di maggio un Ufficiale della US Navy si presenta al Comando e chiede un colloquio con il Comandante dello Stormo; il loro Reparto è disponibile ad addestrare i nostri piloti agli avvicinamenti GCA (Ground Controlled Approach) guidati da terra con un radar di precisione. Per iniziare serve un pilota che abbia confidenza con l’inglese. Vengo prescelto e presentato all’Ufficiale, è sorpreso quando gli dico che sono nato negli USA ed è lieto di sapere che non ci saranno problemi di comprensione. Il Comandante di Gruppo decide, insieme all’Ufficiale di Marina, di utilizzare per l’addestramento lo Stinson L5, molto più adatto per impratichirsi con le nuove procedure: è molto meno impegnativo del Mustang. Ci spiegano la tecnica di questo tipo di avvicinamento strumentale: l’aereo viene identificato dall’operatore del radar di ricerca SAR (Surveillance Approach Radar) che gli fornisce indicazioni di prua per dirigere verso l’aeroporto. A circa 8 miglia il velivolo viene preso in consegna da un altro operatore che, con l’ausilio di un radar di precisione PAR (Precision Approach Radar), fornisce anche i ratei di discesa per la stabilizzazione sulla pendenza del sentiero d’avvicinamento. Eseguo con lo Stinson alcuni avvicinamenti GCA. Quando ho ben compreso la procedura la ripeto con il Mustang.

LE MANOVRE E LA SESTA FLOTTA 
Riprendiamo l’addestramento. Il 13 giugno partecipiamo alle manovre DAT (Difesa Aerea Territoriale) e il giorno successivo operiamo insieme alla Sesta Flotta. Decolliamo per intercettare le navi, ma le condizioni meteorologiche sono sfavorevoli e siamo costretti a rientrare. Nel pomeriggio decolliamo di nuovo, il tempo sulla Sardegna è migliorato e si sta schiarendo anche su Napoli. Tutto il Gruppo decolla e ci dirigiamo sul mare, la visibilità è buona ma c’è molto vento e turbolenza che scuote violentemente i velivoli costringendoci a volare in formazione allargata. Siamo alla ricerca della flotta e, a 60 miglia dalle coste della Sardegna, fuori dall’area di protezione della portaerei, veniamo intercettati da una pattuglia di Panther imbarcati. È la prima volta che vedo un Panther in volo, sono molto veloci ed eleganti. Quando ci passano vicino istintivamente premo il pulsante della radio e dico in inglese “Tranquilli! Siete troppo veloci per noi!”. Sono convinto che siano sintonizzati su un altro canale, invece mi sento rispondere “OK, amici, abbiamo fatto il nostro lavoro!”. Circuitiamo in zona per alcuni minuti con i Panther affiancati, hanno i flap estesi poiché la nostra velocità è troppo bassa per loro. A un certo punto danno tutto motore, retraggono i flap e si allontanano con una improvvisa virata salutandoci per radio.

L’INCIDENTE DEL CAP. SPIGAGLIA 
Il 18 giugno al briefing ci viene illustrato il programma della giornata: è previsto un volo di navigazione di tutto il Gruppo. La 90ª Squadriglia e la mia Squadriglia, la 84ª, dirigeranno al Sud, fino a Foggia, lì sopra avverrà il cambio del Capo Formazione e si proseguirà per Venezia, altro cambio e infine si atterrerà a Orio al Serio. La 91ª, guidata dal nostro Comandante di Gruppo, il magg. Spigaglia, dirigerà invece su Pisa e Torino e infine atterrerà ad Orio, dove tutti gli aerei si ricongiungeranno. Mentre gli aerei saranno riforniti e controllati potremo mangiare qualcosa e poi si tornerà indietro tutti insieme. L’intero Gruppo decolla alle 09.45 e si congiunge in formazione sopra il campo, ogni Squadriglia si mette sulla sua rotta. Io conduco la formazione da Foggia a Perugia, Mechelli la guida fino a Venezia. Voliamo molto alti, intorno ai 28.000 piedi, in cuffia sento i Capi Squadriglia chiedere i rilevamenti goniometrici, i QDM, con i quali aggiustiamo la rotta. Abbiamo lasciato Venezia da una quindicina di minuti quando sentiamo, sul nostro canale, il serg. Fornalè chiamare il Comandante di Squadriglia e informarlo che il magg. Spigaglia è appena caduto vicino Superga, ai margini di Torino. Dalle poche parole che udiamo per radio sembra che abbia effettuato una puntata e, nella successiva cabrata, sia finito in vite e si sia schiantato. È un duro colpo, nessuno parla più. Il cap. De Divitiis, che comanda la formazione nell’ultimo tratto, ci conduce ad Orio al Serio. Atterriamo alle 12.05 e rulliamo fino agli hangar dove ci attendono i piloti e il personale tecnico del 5° Stormo Caccia qui dislocato. Sapevano che avremmo fatto scalo sul loro aeroporto, avevano ricevuto la notifica del nostro piano di volo. Sono al corrente del tragico incidente del magg. Spigaglia. Aspettiamo sulla linea di volo, per circa mezz’ora, l’arrivo della 91ª. I piloti sono sconvolti, il serg. Fornalè deve redigere il rapporto di quanto è accaduto e degli ultimi ordini che ha ricevuto dal magg. Spigaglia. Tre ufficiali confermano la sua testimonianza, hanno sentito il magg. Spigaglia ordinargli di rimanere in quota mentre lui scendeva per effettuare un passaggio sulla città. Incontro a Orio un paio di vecchi amici, erano stati miei compagni di stanza quando eravamo a Ciampino Sud; sono il ten. Palumbo, all’epoca Sergente, e il m.llo Ermas Lucchetta che aveva avuto l’incidente a Firenze durante la rivista di Hitler e Mussolini. Incontro anche il m.llo Walter Omiccioli che avevo conosciuto a Rimini quando era appena arrivato nella mia Squadriglia, lo avevo iniziato al volo acrobatico ed in formazione. Si va tutti insieme al bar dei Sottufficiali dove mi offrono un aperitivo e poi andiamo in mensa a mangiare qualcosa. Mentre stiamo pranzando il Capitano riceve l’ordine di rientrare al più presto a Napoli. Ci affrettiamo e lasciamo la mensa per decollare poco dopo, alle 15.30. Dirigiamo verso Capodichino, sulla rotta del ritorno incontriamo delle formazioni di cumulinembi molto alte che aggiriamo, atterriamo a Napoli alle 17.20. Quando arriviamo alla linea di volo e scendiamo gli specialisti ci chiedono dell’incidente del magg. Spigaglia, tutti sono al corrente della disgrazia. Il Comandante dello Stormo e gli altri Ufficiali sono davanti agli hangar ad attenderci. I piloti che volavano con il magg. Spigaglia debbono stendere un rapporto che servirà per l’inchiesta sull’incidente. Il Comandante dice che invierà una rappresentanza di Ufficiali a Torino, al funerale del Maggiore.

LE MANOVRE CON L’ESERCITO 
Pochi giorni dopo, il 21 giugno, siamo a Ciampino per le “Aerocooperazioni” con l’Esercito. Dobbiamo intercettare degli aerei che hanno come missione il bombardamento “simulato” di Roma. Mentre il ten. Pasculli e io siamo di allarme, ci viene ordinato di decollare immediatamente, dobbiamo intercettare un aereo proveniente da Nord che si dirige su Roma. Il tempo non è dei migliori, si sta formando un temporale, aggiriamo la formazione di cumuli e saliamo a 28.000 piedi. Siamo in contatto con l’operatore della “guida radar” che per identificarci ci ordina un paio di virate a destra e a sinistra e poi ci dà dei “vettori” per intercettare il “target”, un “bombardiere nemico”. Quando siamo a una decina di miglia individuo l’aereo e lo comunico al ten. Pasculli, è molto più alto di noi e si sta dirigendo verso Sud. Il Tenente informa l’operatore radar che lo abbiamo in vista ma non possiamo intercettarlo. È una grossa cisterna volante della Boeing, possiamo vedere la sonda di rifornimento, il “boom stick”, sotto i piani di coda. Il radar ci dice di rientrare; a Ciampino al momento imperversa un forte rovescio e, nel caso non riuscissimo ad atterrare, ci consiglia di dirottare a Guidonia. Dopo qualche giro intorno a Ciampino per trovare un “buco” da dove passare, riusciamo ad atterrare sotto un acquazzone. Quando le ruote toccano la pista sembra di atterrare sull’acqua. Rulliamo lentamente fino all’hangar, la pioggia che scivola sul parabrezza ci riduce molto la visibilità; rimaniamo dentro l’aereo aspettando che la pioggia diminuisca d’intensità, infine scendiamo e consegniamo i velivoli agli specialisti. Le manovre durano diversi giorni, vengono effettuati “tiri reali” al Poligono con le mitragliatrici e lancio di bombe, intercettazioni ad alta quota, a 35.000 piedi. Il tutto si conclude il 3 luglio con un volo di rientro da Guidonia in formazione di Gruppo. A ottobre anche il t.col. Emanuele Annoni lascia il Comando dello Stormo ed è sostituito dal col. Minguzzi, un ottimo Ufficiale. Lo conosco da molti anni, ho volato con lui molte volte proprio qui a Napoli durante la guerra, prima di partire per il fronte russo. 
Il 17 ottobre, su Montichiari, avviene una collisione in volo e muore il m.llo Rinaldi.

NASCE ANTONIO 
La gestazione di Maria si conclude il 18 ottobre 1952, abbiamo un altro figlio: Antonio. Mi viene concessa una licenza di dieci giorni per stare in famiglia. Festeggiamo l’evento e scrivo a mio fratello e a Edith per informarli. Quando ritorno al Reparto ci sono alcuni cambiamenti, il cap. De Divitiis è stato trasferito ad un’altra Squadriglia. Siamo in inverno e il tempo sta cambiando, ma l’attività continua regolarmente. Novembre passa rapidamente e arriviamo a Natale. A Capodanno non ho mai visto tanti fuochi artificiali come quest’anno, sparati da ogni finestra e balcone, tanto che la città è ricoperta da una coltre di fumo. Con l’anno nuovo arriva il bel tempo.

LE MANOVRE CON LA MARINA 
Nel mese di febbraio 1953 ci sono le manovre con la Marina Italiana, a nord della Sardegna. In una fredda giornata il X Gruppo al completo decolla e si mette in rotta sopra il mare in formazione larga. L’aria è turbolenta e guardando la superficie del mare si notano le creste di spuma bianca delle onde. Sotto di noi vola un aereo del SAR, Search And Rescue, se finisco in mare non credo che possa essere di grande aiuto, non può certamente ammarare con questo moto ondoso. Dobbiamo permettere agli operatori radar delle navi di impratichirsi con le intercettazioni di eventuali velivoli ostili attaccanti da bassa quota e con le contromisure elettroniche. Avvistiamo la flotta nelle vicinanze della Sardegna, di fronte alla costa Smeralda a nord di Olbia. La formazione si abbassa a pelo d’acqua, sorvoliamo infine le navi e ritorniamo a Napoli e rimaniamo di allarme per il resto delle manovre.

AD AMENDOLA PER L’ABILITAZIONE AL VAMPIRE DH 100 
A marzo il Comandante dello Stormo deve scegliere cinque piloti da inviare ad Amendola per il passaggio sul Vampire. Il quintetto, oltre al sottoscritto, comprende il m.llo Mechelli, il ten. Pasculli, il ten. Francescotti e il cap. Scerna, quest’ultimo con l’incarico di istruttore poiché ha già diverse ore sul jet. Decolliamo al mattino presto, la formazione dei Mustang è comandata dal cap. Scerna e dopo 20 minuti raggiungiamo Amendola. Come è prassi, il Capitano chiede per radio l’autorizzazione a effettuare un passaggio di saluto sulla pista. Ci comunica per radio che faremo un looping sul campo e di stringere la formazione. Scendiamo, prendiamo velocità e quando siamo a 500 piedi sulla pista effettuiamo il looping. All’uscita i gregari di sinistra si accodano a quelli di destra, ci sfiliamo con l’apertura e ci portiamo all’atterraggio. Mentre rulliamo passiamo davanti ad alcuni Vampire, gli allievi e gli istruttori stanno effettuando i controlli esterni prima di salire a bordo. Scendo, appoggio il paracadute sull’ala e mi avvio verso il cap. Scerna che ha già intorno gli altri piloti e mi sta aspettando. Mentre sono a pochi passi dal Capitano un’improvvisa pacca sulla spalla mi fa voltare: “Ciao americano!”. È il cap. Vescovo. Ci stringiamo le mani, è venuto a salutare il cap. Scerna, sono vecchi amici. Ci avviciniamo a un Vampire dentro l’hangar, il cap. Scerna ci illustra il funzionamento degli impianti del velivolo accessibili dall’esterno: carrello, comandi di volo, ecc. Ci indica tutti i punti critici che vanno ispezionati accuratamente durante i “controlli esterni”. Ci avviciniamo poi al posto di pilotaggio e, con uno di noi alla volta seduto all’interno, ci spiega la strumentazione di bordo e il funzionamento degli impianti. Ci elenca le velocità caratteristiche nelle varie fasi di volo e spiega le procedure normali e di emergenza. Il tutto dura alcune ore. Come ultima cosa il cap. Scerna si accerta che ognuno di noi abbia appreso quanto spiegato e ci “interroga”. Il ten. Pasculli sarà il primo ad andare in volo, il cap. Scerna lo seguirà e gli si affiancherà con un altro velivolo per dargli le istruzioni necessarie. Mentre il ten. Pasculli si prepara salgo su un altro Vampire e mi ripasso quello che mi è stato illustrato. I due velivoli avviano i motori, il loro rumore è nuovo per noi, è molto acuto e dobbiamo tapparci le orecchie finché non si allontanano dalla linea di volo. Decollano in coppia, con il ten. Pasculli davanti e il cap. Scerna dietro, pronto a intervenire con eventuali istruzioni. Fanno un paio di giri intorno al campo, effettuano un avvicinamento riattaccando vicino a terra e infine atterrano. Quando spengono i motori ci avviciniamo; gli andiamo incontro per congratularci con il ten. Pasculli. È il turno del ten. Francescotti, va in volo seguito dal Capitano. Dopo aver effettuato tre atterraggi sale in quota e prova a eseguire un looping ma lo imposta male ed entra in vite, esce dopo due giri e quando scende è pallido come un lenzuolo. Tocca a me; il cap. Scerna mi fa un rapido check per verificare che ricordi tutto. Quando il gruppo di alimentazione esterno è collegato, premo e mantengo premuto l’interruttore d’avviamento. I giri della turbina aumentano ma non sento alcun rumore, poi odo un piccolo lamento e infine il motore si accende con un muggito. Rullo verso l’inizio della pista, la temperatura all’uscita della turbina è intorno ai 500 gradi, chiudo il tettuccio e attivo l’impianto di condizionamento e pressurizzazione. Quando sono autorizzato al decollo aumento gradatamente la potenza, rilascio i freni e l’aereo scatta in avanti, l’accelerazione è sensibile. Il velivolo si controlla bene, non c’è alcuna tendenza a imbardare come accade sugli aerei ad elica. Do un’ultima occhiata dentro per accertarmi che tutto funzioni bene, i giri sono 9500 al minuto e la temperatura della turbina 720 gradi. Quando ho la velocità prevista di 105 nodi tiro leggermente la cloche, l’aereo si solleva dalla pista e, qualche secondo dopo, retraggo il carrello. A 500 piedi il Capitano, per radio, mi ricorda di ridurre la manetta a 7500 giri al minuto. In pochi minuti sono già a 15.000 piedi, mi guardo in giro, sotto di me c’è Manfredonia. Sono sorpreso per come quest’aereo sale veloce. Dopo alcune manovre d’ambientamento il Capitano che mi vola sempre affiancato mi dice di rientrare, effettueremo due “touch and go”. Mi porto in circuito, quando sono sottovento sono autorizzato dalla Torre al “touch and go”. Estendo il carrello e i flap, mi allineo alla pista con la pendenza prevista, effettuo gli ultimi controlli e riduco alla velocità di “finale” di 120 nodi. La toccata avviene a 105 nodi senza problemi, mentre corro in pista porto i flap nella posizione di decollo, regolo il trim e avanzo la manetta, in pochi secondi sono di nuovo in volo. Il Capitano continua a seguirmi, rimanendo però in volo. Saliamo a 12.000 piedi, il Capitano per radio mi invita a fare qualche manovra per prendere confidenza con l’aereo e si allontana di alcune centinaia di metri. Effettuo uno stallo senza flap: intorno ai 90 nodi il velivolo abbassa il muso e vibra, lo lascio perdere qualche centinaio di piedi poi livello, avanzo la manetta, recupero la quota persa ed effettuo qualche virata accentuata. Il cap. Scerna mi dice di rientrare, faremo ancora un touch and go e poi atterreremo. Quando arrivo nell’area dove sono parcheggiati i velivoli Mechelli si accinge a salire sul suo velivolo e mi saluta, rispondo alzando il pollice. Terminato l’addestramento andiamo a mangiare qualcosa alla mensa, non c’è molto tempo, meno di un’ora, verso le 16 dovremo ripartire per Napoli. Mechelli e io andiamo al Circolo Sottufficiali; come è prassi ci presentiamo al Sottufficiale più anziano, il m.llo Torrero, un meccanico della mia Squadriglia a Lecce. Quando mi vede si alza e ci invita al suo tavolo. Prima di lasciare il Circolo passo nella sala del biliardo, ci sono alcuni allievi che stanno giocando alla “Goriziana”; mi chiedono se voglio unirmi a loro, li ringrazio ma non ho tempo. Si presentano: si chiamano Giovanni Liverani, Mario Saccani, Rinaldi e De Laurentis. Mi chiedono come si sta alla 4ª Aerobrigata, vorrebbero essere assegnati a questo Reparto. Prometto che mi interesserò e li saluto. Torno al mio aereo, il personale tecnico ha già provveduto al rifornimento, effettuo i miei controlli e attendo il cap. Scerna che prima di decollare ci fa il briefing sulla rotta e sulle condizioni meteo.

DI RITORNO A CAPODICHINO 
Il t.col. Giuntella ci sta aspettando, vuole conoscere le nostre impressioni sul nuovo velivolo che presto sarà assegnato alla Squadriglia. Si è fatto tardi, comincia a fare scuro e siamo lasciati liberi. A casa Maria e i ragazzi mi stanno aspettando, dopo cena usciamo per una breve passeggiata. Poi mettiamo i ragazzi a letto e ci vado pure io, quando Maria si corica accanto a me sono già addormentato e non la sento. Sono trascorsi dieci giorni dal mio volo sul Vampire quando ci vengono assegnati i primi esemplari, due per Squadriglia. Posso effettuare un volo sul jet ogni due giorni per tenermi allenato e contemporaneamente continuo a volare con il Mustang. Verso la fine del mese giungono allo Stormo quindici piloti da Amendola, fra loro c’è il serg. Liverani, che sulle prime non avevo riconosciuto: chiede di essere assegnato alla mia Squadriglia insieme a un suo amico, il ten. Marco Matarazzo che viene da Teano, una cittadina vicino a Napoli. Vado a parlare con il mio Comandante di Gruppo, mi chiede i nomi e chiama il Comandante di Stormo, il col. Minguzzi. I ragazzi vengono assegnati al X Gruppo, sostituiranno i colleghi che sono stati assegnati alla Pattuglia Acrobatica e che sono stati trasferiti al 51° a Treviso. Lo Stormo attraversa un momento difficile per un paio di incidenti: in uno di questi un giovane pilota perde il controllo del velivolo e si lancia con il paracadute, l’aereo cade su un’abitazione uccidendo un uomo e una donna, il pilota viene esonerato dal volo. Arrivano altri piloti da Amendola, il Comandante di Gruppo assegna a ognuno di noi un pilota, dobbiamo addestrarli al volo in formazione e integrarli nella Squadriglia. A me viene assegnato il serg. Liverani e per circa tre settimane voliamo insieme quasi tutti i giorni. Il ragazzo va bene e apprende subito, alla fine del periodo addestrativo riesce a seguirmi nei tonneau lenti e nelle virate sfogate, rimanendo in formazione stretta fin quasi alla velocità di stallo. Mi viene assegnato anche il ten. Matarazzo, va bene anche lui, solo saltuariamente debbo intervenire con dei consigli: sono due piloti che promettono bene. Un giorno, dopo il briefing, chiedo al Comandante di Gruppo se posso portare in volo i due ragazzi, ci pensa su qualche secondo poi annuisce e mi ordina di rimanere sul campo, vuol seguire il volo. Andiamo in linea di volo, prima di salire a bordo li informo che parlerò il meno possibile per radio, non anticiperò le manovre che intendo fare e dovranno seguirmi ricordandosi di rimanere rilassati e non essere bruschi sui comandi. Mettiamo in moto e rulliamo per la 24. Mi allineo in pista con il Vampire di Matarazzo alla mia sinistra e quello di Liverani a destra. A un mio cenno, con i freni applicati, avanziamo la manetta fino a 7000 giri al minuto poi per radio do l’ordine di rilasciare i freni: “Via!”. Gli aerei cominciano ad accelerare, incremento leggermente la potenza portando la turbina a 7500 giri al minuto per rimanere leggermente avanti. Quando raggiungiamo la velocità di rotazione li vedo staccare dalla pista, tengo ancora il velivolo a terra per qualche secondo per non creare turbolenza e lascio che salgano di qualche metro. Dopo alcuni secondi che siamo in volo stringono la formazione, saliamo descrivendo degli ampi cerchi sull’aeroporto e in breve siamo a 15.000 piedi. Effettuo qualche manovra per saggiare le loro reazioni, rimangono incollati alla loro posizione, provo un looping, non si sfilano. All’uscita del primo looping ne faccio un altro, sono sempre lì. Sulla sommità del looping effettuo un mezzo tonneau. Matarazzo rimane indietro qualche piede perché ha il sole negli occhi, riprende però il suo posto in un attimo. Livello rimanendo sopra al campo per farli riposare un po’. Li avviso per radio che faremo ancora un tonneau lento e poi inizio a scendere per portarmi in circuito. Chiedo l’autorizzazione all’atterraggio, ci portiamo in fila indiana e atterriamo. Sul piazzale davanti l’hangar ci sono diversi specialisti ad attenderci. Apro il tettuccio e scendo, Matarazzo e Liverani si avvicinano al mio aereo. “Come siamo andati?” mi chiede Liverani. “I migliori giudici sono gli specialisti”, rispondo, “Quando voliamo stanno sempre col naso all’insù, il loro giudizio vale molto più di tanti piloti. Chiedetelo a loro!”.

LE MANOVRE DI AGOSTO A CIAMPINO E IL CAMBIO DI COMANDO DI GRUPPO 
Ci trasferiamo provvisoriamente a Ciampino per le manovre in agosto. Mentre siamo lì i rapporti tra l’Italia e la Jugoslavia diventano roventi per una disputa sui confini stabiliti dagli Alleati al termine della guerra. Il Capo del Governo Jugoslavo, il Maresciallo Tito, ha delle pretese su Trieste e Gorizia e ha ammassato le truppe lungo il confine. La decisa reazione del Ministro della Difesa Pella, che schiera immediatamente le nostre Forze Armate a difesa delle due città, fa desistere Tito dalle sue mire. Le popolazioni locali vivono momenti di forte tensione poiché per diversi giorni si è a pochi passi da una nuova guerra. Dopo il nostro rientro a Capodichino il Comandante di Gruppo, il t.col. Giuntella, viene sostituito dal magg. Mettimano. Alcuni mesi dopo il Comando della nostra Squadriglia viene affidato al cap. Giuseppe Spinelli. Di origini nobili, si dimostrerà un ottimo Comandante, democratico e corretto, dello stesso stampo del cap. Marino che ho conosciuto alla Squadriglia di osservazione del 21° Stormo a Gorizia nel 1934. Il cap. Spinelli è anche un veterano, ha combattuto sul fronte Nordafricano dove si è meritato due medaglie d’argento.

LA NUOVA PATTUGLIA ACROBATICA DEL 4° STORMO 
Il magg. Mettimano è un eccellente Comandante di Gruppo e un buon pilota. È molto intelligente, con un solo piccolo difetto: quello di saperlo! Ho volato con lui alcune volte. Sa guidare una formazione pesante come condurre una formazione acrobatica. Il col. Minguzzi gli ha dato l’incarico di costituire la Pattuglia Acrobatica dello Stormo scegliendo i migliori piloti del IX e X Gruppo. Ha scelto il cap. Melotti come leader e come gregari il s.ten. Paganelli (1° gregario di destra), il serg. Turra (2° gregario di destra), il ten. Vellandi (1° gregario di sinistra), il serg. Trentini (2° gregario di sinistra) e il s.ten D’Amico (riserva). Successivamente, in seguito al trasferimento di Vellandi e il congedo di Trentini, subentreranno il s.ten. Sguerri e il s.ten. Favretto. Effettuo dei voli in formazione con alcuni giovani Ufficiali che si addestrano a volare da “leader”: non tutti portano bene la formazione, hanno bisogno di fare esperienza. A volte intervengo per radio dando dei suggerimenti, oppure a terra durante il debriefing. La cosa non è accettata di buon grado da tutti: è vista come una interferenza e qualcuno si lamenta col cap. Spinelli. Il Capitano prende le mie difese e risponde nel modo più logico e cioè che cerco di aiutarli. La Pattuglia Acrobatica sta lavorando bene, oramai hanno raggiunto un buon livello di addestramento e tra breve saranno perfetti. In uno dei soliti briefing mi viene assegnato un volo col cap. Melotti e il serg. Turra. Ho il sospetto che vogliano vedere se posso fare da riserva alla Pattuglia, probabilmente intendono aumentare il numero dei gregari. Non ho interesse a volare in Pattuglia ma accetto comunque, sono curioso di vedere come vola il cap. Melotti. Dopo averci illustrato nel briefing le manovre che eseguiremo, il cap. Melotti ci dice di avviarci verso i nostri velivoli. Mettiamo in moto, rulliamo verso la pista e decolliamo in formazione. Saliamo effettuando delle ampie virate a destra e a sinistra, il sole è basso e quando Melotti si interpone sono abbagliato e debbo proteggermi dietro la guida metallica del parabrezza oppure guardando l’estremità della sua ala. Raggiunti i 7000 piedi il Capitano ci comunica per radio che si comincia l’acrobazia. Fa prendere velocità alla formazione con una affondata, poi cabra ed effettuiamo un primo looping, all’uscita ricominciamo, il tutto per tre volte; chiudiamo con un Immelmann. Turra e io siamo rimasti “incollati” alla nostra posizione senza perdere un piede. Il Capitano è soddisfatto e alza il pollice verso di noi. C’è da dire che il Capitano conduce la formazione in modo ineccepibile, con manovre sempre dolci e progressive, e non è difficile seguirlo. Continuiamo così con altre figure culminando con dei passaggi bassi sulla pista. Quando scendo firmo il libro tecnico del velivolo e, insieme a Turra, raggiungo in hangar il cap. Melotti, che chiede la mia opinione. “Mi sembra che tutto sia stato perfetto”, rispondo, “Vorrei che tutti i leader fossero come Lei! Mi è sembrato di tornare ai vecchi tempi di Gorizia e del CR 32”. Il Capitano sorride, risponde che è stato un bel volo ed è soddisfatto che l’abbiamo sempre seguito in formazione perfetta durante le manovre. Il cap. Spinelli mi chiede di andare in volo con il serg. Romeo, uno degli ultimi piloti assegnati alla 84ª, avrebbe dovuto farlo lui ma non si sente bene. Mi dice di fare un paio di looping e vedere come il ragazzo rimane in formazione. Andiamo in volo, eseguo diverse manovre e dopo una quarantina di minuti siamo di nuovo a terra. Quando atterriamo Romeo mi confida che si è trovato bene a volare con me mentre si trova in difficoltà a seguire alcuni Tenenti perché troppo bruschi. Gli dico che questo è normale nel nostro mestiere e dovrà imparare a volare anche con chi è nervoso con i comandi. A volte mi capita di sentire alcune critiche anche nei confronti del cap. Spinelli, da parte di qualche Tenente o Capitano, e questo mi rattrista. Per certi aspetti mi sembra che le cose andassero meglio prima della guerra, quando in Squadriglia c’erano meno Ufficiali. Allora normalmente ce n’erano solo tre, un Capitano con le funzione di Comandante, un Tenente con le funzioni di Vicecomandante e un Tenente di fresca nomina. Fra i Sottufficiali c’era un Maresciallo e tutti gli altri erano Sergenti. Oggi i Sottufficiali sono solo sei. Si ha l’impressione che gli Ufficiali aspirino solo a fare carriera, c’è poco affiatamento con i Sottufficiali e spesso i primi “tengono le distanze” dai secondi. Questo e’ anche il pensiero del cap. Spinelli, in più occasioni ribadisce “Siamo tutti piloti, la Squadriglia è una squadra che deve funzionare in armonia!”. La mia conoscenza dell’italiano, sebbene siano trascorsi diversi anni da quel lontano novembre 1933, quando sbarcai a Napoli dal Vulcania, non è ancora perfetta e a volte mi crea qualche problema. Un giorno invito a casa mia un giovane e promettente pilota, il serg. Bonollo della 73ª Squadriglia. Maria ci prepara un ottimo pranzo con i tradizionali piatti napoletani e trascorriamo alcune piacevoli ore insieme. Il giorno dopo, mentre sono in hangar in compagnia di altri colleghi, si avvicina Bonollo e dopo aver salutato aggiunge “Ieri è stata una serata piacevole e ho potuto apprezzare l’arte culinaria della moglie del Maresciallo Patriarca”. Non ci vedo più, salto addosso a Bonollo e lo prendo per il bavero e, se i colleghi non m’avessero bloccato in tempo, non so come sarebbe andata a finire. Mentre mi dimeno per liberarmi dalla presa, tutti prendono a ridere e infine, quando mi calmo, mi spiegano l’equivoco!

NOVEMBER MOON 
Lo Stormo è invitato il 25 ottobre del 1953 alla commemorazione del primo volo dei fratelli Wright a Ciampino, dove ci fermiamo per le manovre “November Moon”che iniziano il 1° novembre e che durano una settimana. Dobbiamo effettuare una serie di missioni sotto il controllo del radar di Pratica di Mare. Il 2 novembre parto su allarme con il serg. Liverani, ci portiamo sul mare e passiamo sul canale riservato al radar. Il controllore ci assegna una prua di 30 gradi a destra e poi 60 gradi sinistra e quando siamo identificati ci guida verso il “target”. Mentre siamo in salita il controllore mi chiede il nome: cambia il tono della voce e dice “Ciao Patriarca, sono Guglielmo Biffani. Cosa ci fai li sopra?”. È un vecchio amico del 4° Stormo di Gorizia, della 73ª, la Squadriglia che stava nel primo hangar vicino alla strada. Anche lui ha fatto la Spagna e ha operato dalle Baleari. Ci siamo persi di vista nel ’39, dopo che sono andato a Rimini al 6° Stormo. Era convinto che dopo la guerra fossi tornato negli USA, gli prometto che ci incontreremo appena possibile. Interrompiamo la nostra conversazione e mi istruisce sulle manovre da fare: dobbiamo inoltrarci sul mare per circa 40 miglia e poi scendere a pelo d’acqua per una decina di minuti: bisogna verificare se il radar riesce a “batterci” a bassa quota, a quella distanza. Voliamo in circolo, al pelo delle onde, per una decina di minuti. In effetti il radar ha perso la nostra traccia già molto prima che scendessimo così bassi. Risaliamo, il radar ci “riprende” e ci ordina di rientrare a Ciampino. Sul campo ci sono dei rovesci, dico a Liverani di rompere la formazione, portarsi dietro e seguirmi all’atterraggio.

L’INCONTRO CON BIFFANI 
Il 5 novembre rientro da un’altra missione, arrivo al parcheggio alle 11.40, spengo il motore e noto un Maresciallo magro con i baffi che mi osserva e sorride. Scendo e mi viene incontro. “Ehi Patriarca, non mi riconosci? Sono Biffani… Biffi!” Effettivamente non l’avevo riconosciuto, sono trascorsi 14 anni dai bei tempi di Gorizia. Era anche lui un grande amico di Aldo Ferrulli. Vuol sapere cosa ho fatto in tutti questi anni e gli racconto brevemente le mie vicissitudini, poi lui mi racconta le sue: “Dopo l’inizio della guerra veniamo trasferiti a Comiso da dove si operava col CR 42 su Malta e in luglio partiamo per la Libia. Il 9 dicembre 1940 sono a El Adem, in Libia, in tenda con Stauble, al mattino lo sveglio, deve andare in azione ma non riesco a buttarlo giù dal letto, era come morto. Monto sul pullman e vado in linea, il magg. Botto mi fa ‘E Stauble?’. ‘Non s’è voluto alzare’, rispondo, e lui ‘Vabbe’, vieni tu’. Andiamo in volo con tutte e tre le Squadriglie, la 73ª, la 96ª e la 97ª. Su El Adem incontriamo gli Hurricane, inseguo uno, sono più alto, mi butto giù con tutto motore, gli arrivo addosso, apro il fuoco, vedo i proiettili esplosivi che scoppiano sull’ala. Non succede nulla, non capisco! Nell’altra ala la stessa cosa. Sparo sul motore, nulla! Vedevo bene le traccianti colpire l’aereo e poi non era la prima volta che sparavo. Nel frattempo perdo velocità e l’Hurricane, con tutto motore dentro, si sfila. Viro per riportarmi verso ovest, guardo indietro, vedo che sta tirando su e virando anche lui. Allora veramente non gli ho fatto niente, dico tra me! Com’è possibile, gli scoppiavano i proiettili addosso! Tiro su e tira su anche lui e ci troviamo appesi con il muso verticale che punta il cielo. È questione di un istante, se prendi la decisione giusta bene, altrimenti sei spacciato! Rovesciamo entrambi e ci allontaniamo in direzioni opposte, poi di nuovo ci puntiamo, muso contro muso. Sommando le due velocità in un istante siamo alla distanza di tiro, saremmo stati alla fine della virata a circa 500 – 600 metri l’uno dall’altro. Prima che questo mi prenda in coda, dico tra me, gli sparo di muso. Sparo senza guardare il collimatore. Vedo le traccianti che gli arrivano addosso, un istante dopo spara anche lui, le sue semiali si illuminano di un bagliore che fa paura, quasi istantaneamente sento un rumore assordante e istantaneamente il mio aereo prende fuoco. È stato un attimo, mi sono arrivati addosso contemporaneamente i proiettili di otto armi, quattro su ogni semiala. Chiudo la benzina, tolgo i magneti, rovescio l’aereo, slaccio le cinture per lanciarmi, monto con i piedi sul seggiolino tenendomi ai bordi della fusoliera e mi appresto a lanciarmi. Con mia sorpresa l’incendio si spegne, decido di atterrare, sono ancora a testa in giù, a fatica riesco a rientrare e riprendere i comandi e a girare l’aereo. Atterro nel deserto in mezzo ai carri armati inglesi, mi mettono su una camionetta e viaggiamo tutta la notte. La mattina arriviamo all’aeroporto di Marsamatruk dove c’e un concentramento di prigionieri italiani. Mi si avvicina un Ufficiale che parla italiano. Mi chiede come sono finito prigioniero, gli spiego quello che è successo e gli chiedo dell’Hurricane con il quale mi sono scontrato, mi dice che il pilota si è lanciato. L’Ufficiale è molto disponibile e così gli chiedo se conosce le sorti dei colleghi del 4° Stormo che non sono rientrati. Di Norino Renzi, scomparso a Bir El Gobi, mi dice che hanno trovato il suo cadavere tra i rottami dell’aereo. Il col. Piraggino e il ten. Lanfranco sono stati fatti prigionieri, aggiunge. Gli chiedo di Ugo Corsi. ‘Quello ci è costato caro! Da solo in mezzo a cinque Hurricane, ne ha abbattuto tre poi è stato abbattuto a sua volta. È caduto nel golfo di Sollum’, mi risponde. Finisco in prigionia con un viaggio che non finiva mai, prima in Egitto, a Ismailia, poi in Palestina, Latrun. La fame, la fame! Poi in India a Dehra Dun. Dopo un anno o due, ci trasferiscono a sud di Bombay, a Bhopal. Dopo l’otto di settembre del ’44 decido di ‘cooperare’, come tanti di noi… seguendo l’esempio del Re. Partiamo dall’India con il caldo e arriviamo in Inghilterra, a Glasgow, dove c’è la neve perché è gennaio, e lì sono rimasto fino al rimpatrio avvenuto nel ’45 o 46. Ho chiesto di rientrare in Aeronautica, ho ripreso a volare e ora che ho raggiunto i limiti d’età per il volo faccio l’operatore radar”. Infine ci abbracciamo e salutiamo ripromettendoci di rimanere in contatto. Il nostro Comandante ci dice che siamo liberi di andare a Roma, domani si torna a Napoli.

IL 1954 
Sono stato lontano da casa tre settimane, Maria e i ragazzi stanno bene. Ho portato del cioccolato e ne do un grosso pezzo ad Antonio: è divertente guardarlo mangiare, lo assapora chiudendo gli occhi, mi fa ridere. L’anno nuovo, il 1954, arriva in un attimo e lo festeggiamo con due giorni di licenza. Giungono al Reparto un paio di nuovi Ufficiali ma nessun Sottufficiale pilota. Due giovani Tenenti sono trasferiti in un altro Stormo, su loro richiesta. Abbiamo alcune visite di alti Ufficiale della NATO o dello SHAPE [Supreme Headquarters Allied Powers Europe, n.d.T.], lo Stormo viene passato in rivista dagli illustri ospiti ed è anche occasione per esibire la formazione dello Stormo, comandato dal col. Minguzzi. 
Ci dobbiamo addestrare al volo a bassa quota nelle vallate; con il cap. Spinelli effettuiamo un paio di missioni in una formazione di quattro velivoli, detta Vickers. Un giorno di febbraio c’è un tiepido sole, ho terminato i voli della mattinata e sto sfogliando un libro, il s.ten Matarazzo si avvicina e mi chiede cosa sto leggendo. Capisco subito che mi vuol chiedere qualcosa, e infatti poco dopo si confida. Prima di entrare in Aeronautica frequentava l’Università, la facoltà di medicina, gli mancavano due anni per la laurea ma la passione per il volo l’ha indotto a fare la domanda per il Corso di Ufficiale Pilota di Complemento. Ora ha dei dubbi, è indeciso se riprendere gli studi o fare il pilota, chiede un consiglio. Non è facile, ci penso un po’. “Marco, se fossi in te prenderei la laurea”, gli rispondo, “Non sei un Ufficiale di Carriera e il massimo grado che puoi raggiungere è quello di Capitano. Tra alcuni anni, quando lascerai i ranghi operativi, ti troverai in un ufficio a riempire scartoffie. È meglio essere medici, almeno farai del bene al prossimo!”.

LE MANOVRE “LEONE” 
Con l’arrivo di marzo iniziano le manovre “Leone”; il nostro compito è la difesa di Napoli. Le manovre durano tre giorni, per quattro volte decolliamo su allarme per intercettare le forze attaccanti. Abbiamo due contatti con il “nemico” e al ritorno facciamo rapporto al Comandante di Gruppo. Verso la fine del mese due nostre Squadriglie, la 90ª e la 84ª, sono rischierate a Lecce per la seconda parte delle manovre, le comanda il cap. Spinelli. La partenza per Lecce avviene in condizioni meteorologiche non particolarmente buone, il cielo è coperto, la base delle nubi è poco più alta delle cime degli Appennini, dobbiamo infilarci in questo spazio esiguo per superarli. Quando siamo vicini alle montagne comincia a piovere. Conduco una Sezione e mi tengo vicino a quella del cap. Spinelli che però ha dei problemi; a cenni mi fa capire che ha la radio fuori uso e non può ricevere il segnale del Radio Range, una serie di segnali “punto e linea” che permettono di conoscere la posizione rispetto a una stazione trasmittente e condurre la navigazione. Chiamo il ten. Bellucci che comanda un’altra Sezione e gli dico di sintonizzarsi lui sul Radio Range: siamo un po’ fuori rotta. Arriviamo a Lecce, il cielo è anche qui coperto da nubi alte e c’è una leggera pioggia. Atterriamo con flap e aerofreni completamente estesi perché la pista è più corta di quelle alle quali siamo abituati e per di più bagnata. In hangar incontro parecchi istruttori con i quali ho già lavorato, mi accolgono festosamente. Più tardi andiamo a raccogliere i nostri pochi effetti personali che ci siamo portati a bordo e copriamo con i teli i tettucci, le prese d’aria e i “pitot” dei nostri Vampire. Mi aiuta il capomotorista, il m.llo Grilli che, mentre lavoriamo, mi fa ridere raccontando come di consueto delle barzellette. Le manovre durano cinque giorni, effettuiamo varie missioni d’intercettazione durante le quali viene evidenziata la professionalità dei nostri addetti radar che ci “vettorano” con precisione sui bersagli. Una volta giunti in vista del “target” comunichiamo via radio la quota e il tipo di velivolo intercettato. Di ritorno a Napoli chiedo un paio di giorni di licenza. Ho messo da parte dei risparmi e ho l’opportunità di acquistare un appartamento più grande, i ragazzi potranno avere così ognuno la propria cameretta. La proprietaria è un’amica della famiglia di mia moglie e ci fa delle condizioni di favore.

“DOG FIGHT” CON LIVERANI 
Mi viene assegnato un volo di “finta caccia” col serg. Liverani. Prima del decollo gli faccio un briefing sulla tattica del combattimento aereo. Decolliamo e dirigiamo su Benevento, saliamo a 28.000 piedi e gli dico di allontanarsi per affrontarci. Quando ci incrociamo viro a destra, lui è costretto a virare nella stessa direzione. Ci incrociamo per la seconda volta e ci sfioriamo, l’aereo sobbalza quando entro nella sua scia. Voliamo con le munizioni delle mitragliatrici installate a bordo, gli ricordo di verificare la sicura delle armi, non si sa mai! Continuiamo a descrivere ampi cerchi per almeno due minuti senza che nessuno dei due riesca a guadagnare la coda all’altro. A un certo punto Liverani abbassa il muso per aumentare la velocità, non lo seguo e cabro leggermente, quando risale per raggiungermi mi trovo avvantaggiato e dopo un minuto gli sono in coda. Gli dico di ritornare in formazione e ricominciare. Questa volta lui “tira” troppi G ed entra in buffet d’alta velocità, quando livella gli sono di nuovo in coda. Dopo l’atterraggio gli spiego gli errori commessi e gli do alcuni suggerimenti. Il giorno dopo siamo di nuovo insieme, la missione prevede il volo in fila indiana e acrobazia. Gli raccomando di fare attenzione quando mi sta dietro, a differenza delle altre formazioni se si avvicina troppo non sono in grado di evitare la collisione. Saliamo a 15.000 piedi e gli dico di mettersi dietro e tenere gli occhi bene aperti. Non posso vederlo e mi accerto per radio che sia in posizione; inizio con delle virate sempre più strette, delle affondate seguite da cabrate e infine un paio di tonneau lenti. Gli dico che ora ripeterò le manovre in modo più brusco e senza annunciarle. Concludo con un looping, quando esco la velocità è intorno ai 350 nodi, mi giro, non lo vedo. “Gianni, sei ancora dietro?”, chiedo per radio. “Sono sotto la tua coda!”, mi risponde. Gli dico di portarsi in ala sinistra e torniamo a casa. Quando siamo in vista del campo mi metto in contatto con la Torre, siamo numero quattro all’atterraggio, vedo un aereo in finale e due in sottovento, ci accodiamo a quest’ultimi. Parcheggiamo i velivoli e dopo qualche appunto sulla missione congedo Liverani. Mi riposo un po’ e dopo un’ora sono in volo con un altro allievo, deve esercitarsi per andare al poligono e pertanto eseguiamo le manovre previste “in bianco”, cioè senza sparare.

AL POLIGONO 
Il giorno successivo mi vengono assegnati Liverani e Matarazzo, decolliamo in formazione e saliamo a 15.000 piedi; facciamo un po’ di acrobazia, sono due bravi ragazzi e non hanno problemi. È una bella mattinata d’aprile, non ho altri voli per il resto della giornata, resto davanti all’hangar a guardare l’attività della Squadriglia. Il cap. Spinelli si siede accanto alla mia sdraio e mi chiede come vanno Matarazzo e Liverani perché deve volare con loro per un check e mi autorizza poi ad andare a casa, per oggi non ho nient’altro da fare. Il 22 aprile mi alzo presto: è una giornata che si annuncia calda, in aula briefing vengo assegnato a una formazione Vickers con il cap. Spinelli, il cap. Sallustio e il ten. Duma. Ci avvicenderemo con altre Sezioni al poligono di tiro. Ci viene raccomandato di mantenere 1500 metri di separazione dall’aereo che ci precede e di non sparare se l’area di tiro è impegnata. I velivoli dovranno sparare tutti i proiettili sul poligono e rientrare con le armi scariche. La prima Vickers a decollare è quella della 91ª Squadriglia, seguita 20 minuti più tardi dalla 90ª e dalla 84ª. Mancano una trentina di minuti al nostro decollo, vado a prendere una tazza di caffè al Circolo Sottufficiali insieme al cap. Spinelli e incontriamo il Cappellano della base. Si scherza, il Capitano gli dice che fra un mese sua moglie partorirà due gemelli e li farà battezzare nella cappella dell’aeroporto, a patto che lui provveda con fastosi addobbi floreali. “Volentieri, purché qualcuno cacci i soldi per comperarli!”, risponde il Cappellano. Ritorniamo in linea di volo dove i motoristi ci stanno attendendo, il Capitano sale sul primo, il 39, dicendo al cap. Sallustio di prendere il 38 e al ten. Duma il 40. Il mio è il 47, l’aereo più vecchio del Gruppo, quello privo del Martin Baker, il seggiolino eiettabile. È prevista la sua installazione in occasione della prossima revisione delle 100 ore. Ognuno di noi controlla il proprio aereo, chiamo l’armiere, mi conferma che le mitragliatrici sono cariche, per “armarle” debbo solo sollevare l’interruttore sotto “guardiola”. Ogni arma ha in dotazione 120 colpi, in tutto 480 proiettili. Anche lui mi ricorda che prima di atterrare debbo avere le armi completamente scariche. La 91ª è atterrata, ci viene ordinato di mettere in moto, rulliamo in fila indiana verso la 06. Siamo autorizzati all’allineamento e decollo. Il cap. Spinelli e il cap. Sallustio decollano per primi in coppia. Quando sono a metà pista il ten. Duma si allinea, mi affianco, diamo motore e alle 10.25 partiamo; staccate le ruote inizia a virare, lo seguo e retraggo carrello e flap, andiamo a raggiungere la prima coppia e ci mettiamo in formazione.

L’INCIDENTE 
Mentre siamo in volo incrociamo la 90ª che sta rientrando. Passiamo sul canale riservato al poligono e il Capitano si mette in contatto con l’Ufficiale responsabile. Ci portiamo al traverso dei bersagli, ci allontaniamo per alcuni secondi e poi, al via del Capitano, iniziamo l’apertura con intervalli di una decina di secondi l’uno dall’altro. Terminata la virata ci troviamo in fila indiana, in discesa e in direzione dei bersagli. Il primo passaggio lo facciamo in “bianco”, senza sparare. Al secondo il cap. Spinelli fa fuoco sul bersaglio di destra sulla spiaggia, sono ancora in virata e vedo la scia delle sue traccianti e i colpi risalire il terreno verso il bersaglio e centrarlo. Il Capitano cabra e libera il poligono, ora è il cap. Sallustio a sparare. Il ten. Duma vola davanti a me, mi allineo sul quarto bersaglio, vedo partire le traccianti di Duma, armo le mitragliatrici, collimo il bersaglio. A circa 700 metri dal bersaglio ho il reticolo leggermente spostato, con una leggera pressione sulla pedaliera lo aggiusto, premo il pulsante di azionamento delle armi, l’aereo è scosso dalle vibrazioni, un fragore assordante mi giunge attraverso il casco, davanti a me la scia delle traccianti viaggia veloce verso terra. La sabbia si solleva tutt’intorno al bersaglio, dopo due o tre secondi rilascio il pulsante e, prima di oltrepassare la “full line”, cabro in virata. Mentre mi riporto in circuito, il cap. Spinelli inizia il suo secondo passaggio. Al terzo i due Capitani hanno esaurito le munizioni mentre il ten. Duma e io dobbiamo fare un altro passaggio per scaricare le armi. L’Ufficiale del poligono ci autorizza al passaggio; il ten. Duma prima di iniziare mi dice che mi attenderà sul lago Patria, a 2500 piedi, lo seguo a distanza e scarico i colpi rimasti nei nastri. Mentre cabro chiamo l’Ufficiale a terra per comunicargli che lascio la sua frequenza. Mi chiede il nome, “Sono il Maresciallo Patriarca”, rispondo, e lui “Bel punteggio Maresciallo!”. Cambio canale e chiamo il ten. Duma che mi sta aspettando sopra il lago Patria, lo raggiungo e mi affianco. Mi chiede se vedo il cap. Spinelli; un Vampire si sta avvicinando, quando riesco a leggere il numero sulla fusoliera, il 38, gli rispondo “Alle ore 4 ho il cap. Sallustio. Non vedo il cap. Spinelli”. Il cap. Sallustio si sintonizza sul nostro canale, chiama il ten. Duma e gli dice che il Capitano è su un altro canale e di provare a chiamarlo per dargli la nostra posizione: stiamo lasciando capo Miseno per ritornare su lago Patria. Il cap. Spinelli risponde subito: “Vi ho in vista, sono alle vostre ore cinque, circa 1000 piedi più alto. Ora vi raggiungo”. Mi giro indietro e un po’ più alto, a ore 5, vedo il Vampire del cap. Spinelli; rimango dove sono, mentre il cap. Sallustio, per lasciare spazio nella formazione al cap. Spinelli, si abbassa leggermente. Trascorrono pochi attimi e poi improvvisamente una violenta esplosione scuote il mio aereo, non realizzo cosa possa essere, dopo un paio secondi dico tra me “È esploso il motore!”. Sono sballottatto lateralmente, vedo la terra passarmi più volte sopra la testa, l’aereo sta girando su se stesso. Intervengo azionando i comandi a fondo corsa per fermare la rotazione, sono liberi ma l’aereo non risponde. Sto perdendo quota rapidamente, debbo lanciarmi! Ho difficoltà a raggiungere la leva di sgancio d’emergenza del tettuccio perché continuo a essere sballottato nonostante abbia le cinture strette. Quando riesco ad afferrare la leva tiro ma non succede nulla, insisto, ancora nulla, sono intrappolato qui dentro, farò la fine del topo! Fortunatamente mi viene in mente che debbo prima depressurizzare l’aereo. Dopo un paio di tentativi riesco ad abbassare l’interruttore che chiude la valvola della pressurizzazione. Tiro ancora la leva, dopo un secondo o due il tettuccio si apre parzialmente e un fragore infernale mi circonda, l’aereo continua a girare su se stesso, tiro lo sgancio d’emergenza e il tettuccio si separa dall’aereo. Porto la manetta al minimo, slaccio le cinture, metto i piedi sul sedile restando rannicchiato nel cockpit, mi tengo stretto alla paratia dell’aereo. L’aereo rallenta la rotazione e quando sono a testa in giù mi do una spinta e salto fuori.

IL LANCIO CON IL PARACADUTE 
Attendo un paio di secondi prima di azionare il paracadute per essere sicuro di trovarmi lontano dall’aereo. Uno schiocco, seguito da una strattonata dell’imbracatura mi confermano che il paracadute si è aperto regolarmente. Mi trovo improvvisamente immerso nel silenzio quasi totale, tutto sembra irreale, in pochi secondi sono passato da una situazione di volo normale a una drammatica dalla quale avevo seri dubbi di uscire vivo e ora sto ciondolando appeso a un paracadute. Mentre l’aereo continua a perdere quota e ad allontanarsi noto che manca una delle travi di coda, lo seguo con lo sguardo ancora qualche secondo. Non posso ancora considerarmi al sicuro, comincio a preoccuparmi di dove mi sta spingendo il vento. Non vorrei finire su qualche linea elettrica ad alta tensione, per fortuna quelle che vedo sono abbastanza distanti. Sto scarrocciando verso una collina dove, a mezza costa, c’è una piantagione di canne che i contadini del luogo usano per sostenere le piante di fagioli. Finire impalato dalle canne, dopo tutto quello che ho superato, sarebbe proprio il colmo. Cerco di cambiare la traiettoria del paracadute tirando le funicelle da un lato, la velocità discensionale aumenta e non mi sembra che serva a molto. Fortunatamente avevo calcolato male la traiettoria e dirigo su un’altra zona. Credo di essermi lanciato intorno ai 1000 piedi dalla cima più alta delle colline e arrivo in poco tempo a terra. L’impatto col terreno non è particolarmente violento. Raccolgo il paracadute e mi avvio verso una fattoria che ho visto sul versante della collina da dove provengono dei rumori. Quando sono in cima della collina un fattore e sua moglie mi vengono incontro, mi chiedono se sono ferito, la donna mi toglie il paracadute dalle mani e mi invita a entrare nella loro casa. Chiedo un bicchiere d’acqua, il fattore mi risponde che non ne hanno e mi versa un bicchiere del loro vino. “È buono. Meglio dell’acqua!”, dico sorpreso, “Posso averne un altro?”. Lui sorride e mi riempie nuovamente il bicchiere. Mi riposo un attimo poi dico che debbo mettermi in contatto col mio Comando. Arrivano altre persone, mi accompagnano sulla strada che passa accanto alla fattoria dove c’è un’autovettura ferma, il proprietario è venuto a trovare il fattore, si offre di portarmi alla stazione radar di Licola, il presidio militare più vicino. Per la strada incrociamo una Jeep che è alla ricerca di due piloti, si ferma, saluto e ringrazio il conducente e il fattore che mi hanno accompagnato e salgo sul mezzo militare. Mi portano alla stazione radar dove mi metto in contatto col Comandante di Stormo, il col. Minguzzi. Mi chiede come sto e se sono ferito, rispondo “Solo qualche ammaccatura”. Mi chiede se so qualcosa del cap. Spinelli. “No”, rispondo, “Prima che mi esplodesse il motore era dietro a noi a circa un chilometro. Perché?”, e lui “Non ti e’ esploso il motore, e’ stato Spinelli a venirti addosso! Dopo essere entrato in collisione con te il suo aereo è precipitato e lui non si è lanciato”. Rimango di gelo, non riesco a dire nulla, sembra tutto impossibile, poi improvvisamente la dinamica dell’incidente e’ chiara, sono stato investito dal basso dall’aereo del cap. Spinelli! Il Colonnello mi dice di attendere che sta inviando un mezzo dell’aeroporto per prelevarmi e chiude la comunicazione. Abbasso la cornetta e rimango in piedi accanto al telefono, ritorno con la mente a quei tragici secondi, alle ultime immagini di Spinelli dentro l’abitacolo, con il volto nascosto dalla maschera e il casco, in formazione accanto al mio velivolo. Era un brav’uomo, mi viene in mente quando al bar raccontava di sua moglie che aspettava due gemelli. È mezzogiorno, mi invitano alla mensa Ufficiali, non riesco a inghiottire. Un Ufficiale che è allo stesso tavolo, per cercare di distogliere la mia mente dall’accaduto, racconta una barzelletta. Mi portano del caffè con un bicchiere di brandy.

DECOLLO CON UN VAMPIRE E RITORNO SU UNA JEEP 
Più tardi arriva da Capodichino il mezzo che deve prelevarmi, insieme a un Ufficiale Tecnico del 5° RTA (Reparto Tecnico Aeronautico), c’è il ten. De Paolis della mia Squadriglia. Gli chiedo del cap. Spinelli, risponde che si è lanciato e sembra che il paracadute sia rimasto impigliato alla coda del Vampire. Si pensa che abbia tirato la leva d’apertura del paracadute prematuramente o che la maniglia di estrazione si sia agganciata fra i rottami mentre tentava di uscire. Vista la dinamica dell’incidente probabilmente doveva anche essere ferito. Il paracadute è stato trovato lacerato con le funicelle parzialmente bruciate; dopo alcuni secondi il Capitano si è staccato dalla coda ed è precipitato nei pressi di Quarto Flegreo. Chiedo all’autista di guidare più piano, ho la schiena dolorante. In aeroporto vengo condotto nell’ufficio del Comandante di Stormo, mi stringe la mano e mi batte sulla spalla dicendomi che devo essermela vista brutta. Mi presenta al fratello del cap. Spinelli, Carlo, che mi abbraccia scoppiando in lacrime. Mi accorgo che oltre al col. Minguzzi nell’ufficio ci sono anche il magg. Mettimano, il cap. Sallustio, il ten. Duma insieme all’Ufficiale Tecnico e il ten. De Paolis. Il Colonnello mi chiede di fare un dettagliato rapporto dell’incidente. È poi il cap. Sallustio a dare la sua versione dei fatti “Ho raggiunto il ten. Duma e il m.llo Patriarca nei pressi del Lago Patria”, racconta, “Volavo a un centinaio di metri da loro due e pertanto ho visto chiaramente la scena. Il cap. Spinelli ha chiamato Duma chiedendo la nostra posizione e ha detto che ci avrebbe raggiunto. L’ho visto picchiare e mettersi in ‘curva di caccia’ per raggiungere Duma e Patriarca, aveva un po’ di velocità in eccesso e stava per superarli. Si è abbassato per passargli sotto e in quel mentre ha estratto gli aerofreni: l’ho visto schizzare in alto colpendo col suo timone il piano di coda del velivolo di Patriarca che ha cominciato a ruotare su se stesso come un frullino, tra i pezzi di aereo che si staccavano. L’aereo del cap. Spinelli ha iniziato a scendere con le ali livellate, ho visto staccarsi il tettuccio e nient’altro. Dopo diversi secondi ho visto aprirsi il paracadute di Patriarca”. Il ten. Duma dichiara che non ha visto niente, ha saputo dal cap. Sallustio dell’avvenuta collisione. Il Colonnello si alza e chiede a noi tutti di redigere un rapporto per la Commissione d’inchiesta. Poco dopo arriva una telefonata in aeroporto, informano il Colonnello che la salma del cap. Spinelli sarà esposta in serata nella cappella dell’ospedale militare mentre le esequie saranno celebrate domani, nel tardo pomeriggio; la cerimonia sarà curata dal personale della Squadriglia. Il col. Minguzzi mi dice di rimanere a casa domani e di non partecipare al servizio funebre, ci saranno i giornalisti che con le loro domande potrebbero turbarmi. Mi chiede a quando risale il mio ultimo controllo medico all’IML di Posillipo. “Quattro mesi fa”, rispondo, “Dovrai essere sottoposto a un controllo straordinario, come previsto in caso di incidente. Farò preparare la documentazione. Ora vai a cambiarti, ti faccio accompagnare da un nostro mezzo. Rimani pure qualche giorno a casa”. Prima di andare a cambiarmi vado dal fratello del cap. Spinelli, è seduto su una poltrona, ha lo sguardo assente con la testa fra le mani, non riesco a trovare le parole per esprimere quanto sono dispiaciuto, il Capitano era per me molto di più di un Comandante di Squadriglia, era un vero amico. Un giovane Tenente, Tamburinelli, e l’amico Liverani mi accompagnano a casa e mi lasciano al portone d’ingresso. Poco dopo suonano alla porta, si erano dimenticati di consegnarmi la busta con gli ordini. Li faccio accomodare e con l’indice sulle labbra faccio loro capire di non dire niente a Maria che sta armeggiando per prepararci una tazza di caffè. Dopo che hanno bevuto il caffè li accompagno alla porta e saluto. Maria sospetta qualcosa e mi chiede cos’è accaduto. “Nulla di particolare, un piccolo incidente”, rispondo. Mi stendo sul letto di Dany, gioco con lui e Sergio, quando mi alzo è ora di cena, Maria accende la radio e mentre mangiamo il notiziario informa della collisione in volo di due jet militari del 4° Stormo nei pressi di Napoli e fanno anche il mio nome. Maria e i ragazzi smettono di mangiare, rimangono in silenzio poi Maria si sbianca in volto, si alza e mi bacia. “Dio ti ringrazio che hai salvato mio marito!”. Maria conosce la moglie del Capitano ed è molto dispiaciuta per lei. Di famiglia nobile, Giuseppe Spinelli di Barrile era figlio del marchese Luigi di Fuscaldo e nipote del duca Carlo di Mariglianella ed era molto conosciuto a Napoli. Si era meritato tre medaglie d’Argento e quattro Croci al Valor Militare per le sue azioni in Africa, a El Alamein, dove aveva conseguito due abbattimenti. Pilota del 4° Stormo durante la Guerra di Liberazione, conseguì ulteriori riconoscimenti e fu promosso per meriti di guerra. Nel pomeriggio i parenti di Maria e alcuni amici di famiglia che hanno sentito il radio giornale vengono a congratularsi per il mio scampato pericolo. Il giorno dopo rimango a letto a leggere, non ho voglia di uscire anche per evitare la curiosità degli amici.

LA VISITA MEDICA STRAORDINARIA ALL’IML 
Mechelli è venuto a farmi visita e mi racconta del funerale del cap. Spinelli, c’era una folla di amici e colleghi ed alcune autorità locali. Il giorno successivo mi alzo presto, prendo il filobus e mi reco all’IML di Posillipo. L’accettazione apre alle 8.30, sono in anticipo e debbo attendere qualche minuto. Quando l’addetto apre lo sportello gli porgo la mia lettera con la richiesta della visita straordinaria. Mi consegna una cartella e mi dice di andare al piano di sopra e attendere, sarò chiamato da un usciere. Sento il mio nome, entro nella stanza da dove è giunta la voce, un dottore seduto dietro una scrivania mi saluta e mi invita a sedermi, sfoglia la cartella, alza gli occhi e si toglie gli occhiali. “Maresciallo, mi racconti cosa è successo”, mi dice. Quando ho finito, il dottore prende a riempire alcuni fogli prestampati, mi chiede come mi sento, se ho le vertigini, se sento dolori, se c’è stata decompressione rapida, ecc. Infine stabilisce che debbo essere sottoposto all’esame audiometrico, della vista, del sangue e delle orine e ai raggi X. Quest’ultimo esame rivela una leggera contusione tra la quarta e la quinta vertebra, nulla di serio. Dovrò portare per un po’ di tempo un corsetto elastico, per il resto sono in perfetta forma. Terminati gli esami devo attendere di essere chiamato dall’Ufficiale Direttore dell’IML. Vengo invitato a entrare, i miei documenti sono sulla sua scrivania, li scorre, conosceva il cap. Spinelli e mi chiede i dettagli dell’incidente. Controlla i risultati dei vari esami e mi assegna un mese di convalescenza. Il giorno dopo consegno il rapporto all’Ufficio Personale e un’ora dopo ricevo la lettera di licenza firmata dal Comandante di Gruppo.

IN LICENZA DI CONVALESCENZA 
Liverani mi accompagna a casa con la sua macchina, lo invito a salire, saluta mia moglie, si mette a giocare con i miei figli e se li fa amici. Maria mi dice che le piacerebbe andare a Milano da sua sorella Rita, visto che sono libero dal servizio. “Potremmo prendere un vagone letto e la mattina successiva essere a Milano”, mi dice. La schiena non mi fa poi tanto male e penso che distrarci un po’ farà bene a entrambi. Il giorno dopo prendiamo il treno e portiamo con noi Sergio, ho riservato uno scompartimento con due letti, dormo per tutto il tragitto e mi sveglio poco prima di Milano. Rita e suo marito Ugo ci attendono alla stazione e ci accompagnano a casa loro. Avrei voluto andare in albergo ma insistono che si rimanga ospiti loro, ci fermiamo una settimana. Torniamo a Napoli in vagone letto e arriviamo poco dopo l’alba, Antonio e Dany stanno ancora dormendo. Li avevamo lasciati con mia suocera e mia cognata Antonietta perché non dovevano perdere le lezioni a scuola. Mia suocera ci prepara la colazione, poi saliamo nel nostro appartamento. Mio suocero sale per dirci che domani saremo loro ospiti a pranzo. Il padre di Maria mi piace, è una brava persona, ha una predilezione per Maria, forse perché è la sua prima figlia e ha tre bambini. Pranziamo tutti insieme e poi salgo nel nostro appartamento, stendo una coperta per terra e gioco con Dany e Antonio. Parlo in inglese, comprendono molto di quel che dico, Maria osserva e sorride. Tra il viaggio a Milano e le giornate trascorse in famiglia, il tempo trascorre veloce; tra non molto riprenderò a volare, ne sento la mancanza.

DI NUOVO ALL’IML PER L’IDONEITA’ AL VOLO E DI NUOVO IN SQUADRIGLIA 
Ritorno all’IML per la visita di controllo. Vengo sottoposto a un esame clinico completo che dura quattro ore. Il Direttore dell’Istituto mi riceve e mi dice che sono “Idoneo”. Mi ricorda che debbo portare il bustino anche in aereo e mi raccomanda di non stancarmi troppo. Mi ripresento in Squadriglia, tutti i ragazzi sono contenti di rivedermi. Liverani mi racconta di un grave incidente occorso al IX Gruppo: il 10 maggio, durante un tonneau lento sulla verticale del campo, quando la formazione era a testa in giù, alcuni velivoli si sono toccati e quello del serg. Giovanni Durante è precipitato sulla fabbrica della Coca Cola, vicino alla base, uccidendo due operai. Il serg. Durante è deceduto nell’impatto col suolo mentre altri due aerei sono stati coinvolti nella collisione ma hanno avuto più fortuna: hanno trovato sotto di loro un vallone, hanno sfiorato le case e, nonostante i danni riportati, sono riusciti ad atterrare senza ulteriori inconvenienti. Il primo giorno non volo, rimango seduto una mezz’ora dentro un Vampire che sta nell’hangar per ripassare i comandi e le procedure. Il giorno dopo mi viene assegnato un volo di riambientamento. Al briefing mi rendo conto che ci sono dei cambiamenti nel metodo d’addestramento: si dà molta più importanza al volo strumentale, sono previsti dei corsi e successivi esami per il conseguimento della cosiddetta “carta bianca”. Frequento anch’io questi corsi, che prevedono inoltre la standardizzazione delle comunicazioni radio, la cosiddetta “fonia”, che deve avvenire in inglese per permettere le operazioni congiunte con le Forze NATO. L’84ª Squadriglia ha un nuovo Capitano che non ha molte simpatie per i Sottufficiali piloti. Non mi rivolge quasi mai la parola, non me ne curo molto e continuo a fare il mio dovere. Frequento come sempre gli amici Sergenti e un giorno il Capitano mi chiede come mai non me ne sto con gli Ufficiali. Gli rispondo che sono un Sottufficiale e che ho l’impressione di essere fuori posto con loro. Non dice altro.

IL CORSO PER OPERATORE GCA 
Alla fine di agosto ricevo l’ordine di andare a Roma per due mesi a frequentare un corso per operatori radar di avvicinamento GCA (Ground Controlled Approach). Parlando con i compagni di corso, alcuni giorni dopo, scopro che il corso è su base volontaria e non prendo di buon grado la notizia. Ho il sospetto che si sia voluto deliberatamente allontanarmi. Vado al Ministero dell’Aeronautica a trovare un Maggiore che conosco e gli racconto dei miei problemi, mi assicura il suo interessamento. Sono già da un mese a Roma e mi sono affiatato con i compagni di corso quando il 2 ottobre ricevo l’ordine di ritornare alla mia Squadriglia. Il mio ritorno ovviamente non deve essere molto gradito al Capitano, del resto il comportamento nei miei confronti non è stato molto corretto. I rapporti col Capitano vanno peggiorando, non faccio nulla per migliorarli e non vengo più inserito nei voli con la formazione di Squadriglia.

RIPRENDO LA VITA DI SQUADRIGLIA 
Ho un volo con Giovanni Liverani e Giorgio Rinaldi. Dopo il decollo rimaniamo sul campo e facciamo una piccola esibizione, quando scendiamo davanti all’hangar c’è il col. Minguzzi, che mi chiede i nomi degli altri piloti. “Bravi. Mi è piaciuto!” commenta. Mentre ero a Roma, a metà settembre il Comando della Squadriglia e’ stato assegnato al cap. Molinaro: è un vero signore, piace a tutti per i suoi modi e per le sue battute, è molto democratico. Tutti i piloti e gli specialisti della 84ª organizzano una cena in uno dei migliori ristoranti di Napoli. Durante la cena Liverani riempie in continuazione i bicchieri del Capitano e degli altri commensali, alla fine sono tutti alquanto alticci, l’unico a essere perfettamente lucido è il cap. Molinaro. Il giorno dopo rimango in linea di volo con i meccanici, non ci sono voli. Il cap. Molinaro arriva in hangar dopo le 10, parla con il capomotorista e poi vedendomi mi chiama: “Patriarca, hai voglia di farti un volo officina?”, mi chiede, “Questo aereo è stato sottoposto a revisione e gli hanno sostituito il motore”. Vado a prendere la mia combinazione di volo. Sull’aereo è appena stato installato il seggiolino eiettabile Martin Baker, ormai presente su tutti i nuovi aerei che giungono allo Stormo. Riscontro degli inconvenienti all’apparato ricetrasmittente e, dopo l’atterraggio, lo segnalo sul libretto di volo del velivolo, detto anche “technical log book”. C’e’ una novita’, dal 1° novembre 1954, per una disposizione dello Stato Maggiore, il 4° Stormo si chiamera’ “4^ Aerobrigata”. Peccato!

VOLO AD ALTA QUOTA 
Per alcuni giorni il tempo è brutto ed è occasione per fare un po’ di “navigazione strumentale” al link trainer. Quando il tempo migliora è prevista una missione in alta quota di tutto il X Gruppo. A tale altitudine la densità dell’aria è bassa e le indicazioni dell’anemometro sono falsate: si è molto più veloci di quanto indicato; in alcuni punti del velivolo la velocità di scorrimento dei filetti fluidi può raggiungere quella del suono, provocando riduzione della portanza e forte incremento della resistenza: lo stallo o “buffet” d’alta velocità. Anche la risposta dei comandi risulta mutata: sono meno efficaci e sembra di “galleggiare”. Esternamente la temperatura è intorno ai 50-60 gradi sotto zero: in caso di lancio non conviene azionare il paracadute subito ma soltanto dopo una caduta sino a quota più bassa dove la velocità discensionale si riduce per la maggiore densità dell’aria e la respirazione è possibile. Dopo il Capodanno, quando il personale della Squadriglia rientra in servizio, l’attività riprende a pieno ritmo. Il 24 febbraio 1955, alle 08.30, il Comandante del X Gruppo decolla in coppia con un gregario e circuita sul campo per permettere agli altri velivoli della 91ª Squadriglia di congiungersi, tocca poi ai velivoli delle altre Squadriglie che a loro volta si ricompongono. Quando il Gruppo è al completo il Comandante guida la formazione e iniziamo a salire in quota. Raggiunti 39.500 piedi ci portiamo verso l’isola di Ponza con la formazione sempre compatta: è la quota più alta raggiunta dal Gruppo! Il cielo è di un blu molto scuro e l’aria, totalmente priva di umidità, è limpidissima: posso ammirare parte della Sardegna e, verso Est, sembrano profilarsi le montagne della costa balcanica. Effettuiamo qualche virata non accentuata mantenendo la quota per una ventina di minuti e tracciando ampi cerchi con le lunghe scie bianche di condensazione. Cominciamo poi a scendere dolcemente puntando verso Napoli e riducendo progressivamente “manetta” per evitare di entrare in buffetting e per non avere disturbi alle orecchie, sino a raggiungere i 30.000 piedi di quota ove tutto sembra tornare alla normalità. Impieghiamo una ventina di minuti per portarci in circuito di atterraggio. Quando scendiamo, dopo 1 ora e 20 minuti, le parti metalliche degli aerei sono ancora gelate e quelle interne sono ricoperte in alcuni punti dalla brina formatasi al contatto con l’aria umida delle basse quote. Parecchi piloti dopo il volo appaiono stressati per l’impegno richiesto volando a quelle altitudini, dovuto al diverso comportamento del velivolo che richiede un intervento continuo sui comandi per rimanere in formazione.

IL 22 APRILE 1955, UN ANNO DOPO L’INCIDENTE 
Col cap. Molinaro siamo impegnati nell’addestramento dei giovani piloti in vista delle manovre con le forze NATO. Siamo in aprile inoltrato. Un mattino, quando mi alzo, l’occhio mi cade sul calendario: è il 22 aprile, è trascorso un anno dall’incidente con il cap. Spinelli. Bacio Maria, saluto i ragazzi, prendo il busto e vado in aeroporto. Passo al Circolo Sottufficiali, incontro Liverani e insieme agli altri piloti della mia Squadriglia ci avviamo al briefing. Mi viene assegnato un volo col cap. Melotti, la missione prevede di portarci oltre i 30.000 piedi per prendere dimestichezza con le manovre ad alta quota ed effettuare qualche figura acrobatica. Decolliamo alle 08.25 e dopo una ventina di minuti siamo ancora in salita, attraversiamo i 30.000 piedi, ho l’impressione che la maschera a ossigeno non funzioni regolarmente, lo dico al Capitano. A queste quote dalla maschera fuoriesce ossigeno puro in pressione e la cabina è pressurizzata solo parzialmente, lo percepisco dall’addome gonfio. Un’avaria al motore comporterebbe anche una perdita della pressurizzazione e bisogna essere pronti a effettuare una “discesa di emergenza”. La sopravvivenza all’esterno del velivolo, con l’aria rarefatta e le temperature bassissime, è limitata a qualche minuto. A 35.000 piedi livelliamo. Nonostante l’impianto di riscaldamento funzioni, ho una sensazione di freddo dovuta all’irraggiamento delle parti metalliche del velivolo: esternamente la temperatura è di 55 gradi sotto zero! Il Capitano mi dice di portarmi in coda e seguirlo nelle sue manovre. Inizia una discesa per aumentare leggermente la velocità poi cabra gentilmente ed esegue un tonneau lento. A questa quota le manovre non debbono essere troppo brusche per evitare il “buffet” d’alta velocità. Non ho difficoltà a seguirlo. Stiamo emettendo le scie di condensazione ed eseguo il tonneau evitando la sua. Mi chiede come è andata e di prepararmi a effettuare un looping. “OK, Capitano”, rispondo, “Le raccomando solamente di ridurre subito la potenza quando è al culmine del looping, altrimenti rischiamo di andare in compressibilità nel lato discendente”. Abbassa il muso per raggiunge la velocità necessaria, cabra e all’uscita, nonostante abbia prontamente ridotto motore, “entro” in comprensibilità, l’aereo è scosso dalle vibrazioni, allento la pressione sui comandi. Questa è una condizione in cui, se si “tira” per ridurre la picchiata, si entra in buffet a causa dell’aumento del fattore “G” (gravità apparente dovuta all’accelerazione), se non lo si fa la velocità continua ad aumentare e si entra in buffet per effetto della compressibilità (raggiungimento della velocità del suono in alcuni punti del velivolo). Do un’occhiata agli strumenti, siamo tornati a 33.000 piedi, la pressione differenziale della cabina è di 2.5 psi e la quota interna è di 21.000 piedi. Siamo tra Capri ed Ischia, col sole alle spalle. “Preparati! Ora proviamo un tonneau lento”, mi comunica il Capitano. Picchia leggermente, cabra e quando siamo rovesci, un botto scuote l’aereo e un frastuono invade la cabina di pilotaggio. Provo un forte dolore alle orecchie, non realizzo sul momento cosa sia successo, come prima cosa raddrizzo l’aereo. Alzo gli occhi, il tettuccio di plexigas si è sconnesso e sollevato di alcuni centimetri e tutta l’aria fuoriesce da questa fessura! Istintivamente estendo gli aerofreni, tolgo motore e picchio per raggiungere in fretta una quota più bassa. Sono troppo impegnato per chiamare il Capitano. Sembra impossibile quanto tempo ci voglia per scendere, il variometro è a fondo scala ma dovrebbe indicare oltre 8000 piedi al minuto che vogliono dire circa tre minuti per raggiungere una quota di sicurezza. Un tempo interminabile in queste condizioni! Inizialmente sento un gran calore e poi durante la discesa comincio a sentir freddo. Quando il cap. Melotti non mi vede più dietro di lui, mi chiama per radio. Lo sento a stento perché il rumore provocato dall’aria che passa sotto il tettuccio ed entra nella cabina di pilotaggio è fortissimo nonostante abbia il casco. Gli comunico che ho avuto una decompressione rapida e che sto attraversando 25.000 piedi, in discesa sopra Procida. Stiamo usando lo stesso canale della Torre che, sentite le nostre comunicazioni, ordina il “silenzio radio” a tutti i velivoli non coinvolti nell’emergenza e mi chiede cosa intendo fare. “Sto lasciando 20.000 piedi, intendo fermarmi a 10.000 piedi per verificare i danni e poi chiedo un avvicinamento per 24”, rispondo, e la Torre “Autorizzato al finale per pista 24, vento da 200 gradi, 8 nodi, QNH 1015. I mezzi di soccorso sono allertati!”. Mentre sto circuitando a 10.000 piedi il cap. Melotti mi si affianca per constatare eventuali danni e accompagnarmi all’atterraggio. Sul porto di Napoli lascio i 10.000 piedi per portarmi in sottovento, quando passo di lato alla pista vedo i mezzi di emergenza che mi attendono sulla via di rullaggio. Mentre atterro, il cap. Melotti, che mi ha sempre volato di fianco, riattacca e si porta in circuito per atterrare a sua volta. Alle 09.30, quando scendo dall’aereo e tolgo la maschera di ossigeno, mi rendo conto di avere perso molto sangue dal naso. Il Comandante del IX Gruppo, il magg. Bianchi, mi chiama nel suo ufficio, mi ascolta e poi osserva anche lui la strana coincidenza con l’incidente del cap. Spinelli avvenuto un anno fa. Mentre stiamo parlando entra il magg. Veneziani, Comandante della Squadriglia VSV (Volo Senza Visibilità), assieme a Carlo Spinelli, il fratello del cap. Spinelli. Sono andati con un piccolo aereo a gettare dei fiori sul luogo dov’è precipitato un anno fa il Capitano, mentre rientravano hanno sentito le comunicazioni radio tra me, il cap. Melotti e la Torre.

DI NUOVO ALL’IML 
Il Comandante di Gruppo mi invita a stendere rapporto sull’accaduto e mi dice che dovrò tornare nuovamente all’IML per il controllo medico. Il giorno dopo sono nuovamente all’Istituto per la visita straordinaria. Il nuovo Direttore è il col. Scala, una mia vecchia conoscenza, vuole vedermi; anche lui ha notato la coincidenza dei due incidenti e sorridendo mi dice “Il 22 di aprile faresti meglio a stare a casa!”. Chiama il Maresciallo che gli fa da aiutante e gli consegna la mia cartella dicendogli di accompagnarmi alle visite. Termino tutti gli esami alle 13 e vengo nuovamente convocato nell’ufficio del col. Scala che mi comunica l’esito favorevole dei controlli. Mi saluta e ritiro la busta con la lettera di idoneità al volo. Data l’ora passo a casa per il pranzo; mentre sono a tavola comincia a piovere a dirotto e telefono alla base, mi dicono che non occorre che rientri.

IL CORSO IFR 
Il 1956 inizia con un grave incidente: il 7 gennaio, durante un volo in formazione, un Vampire ha un’avaria al motore e il pilota, il serg. Scarpa, si lancia con il paracadute. Il velivolo finisce sul paese di Terzigno provocando sette morti e diversi feriti. Nei primi giorni di gennaio mi vengono assegnati un paio di voli officina e dal 23 gennaio 1956 partecipo a un corso di “Strumentale Basico” sul link trainer costituito da 14 lezioni, per un totale di 20 ore, che termina il 15 febbraio. Vengo poi incaricato di effettuare i voli officina dei nostri velivoli sottoposti a revisione dal 5° RTA e assegnato a questo Reparto di Manutenzione fino al 8 marzo. Il 5 aprile vengo inviato ad Amendola per continuare la parte “pratica” del corso “Strumentale Basico” chiamato anche corso “IFR – Instrumental Flight Rules”. Le ultime lezioni prevedono anche la Navigazione Aerea strumentale. Si tratta di sei missioni a doppio comando sul reattore biposto Lockheed T 33 per circa 6 ore di volo complessive. L’istruttore siede al posto anteriore mentre io sto seduto dietro con una “tendina” che copre il tettuccio per impedire la visione esterna. Debbo impratichirmi con la condotta del volo basandomi unicamente sull’orizzonte artificiale, direzionale, anemometro, altimetro, variometro e virosbandometro, vincendo le sensazioni ingannevoli di quando si è dentro le nubi o avvolti dalla nebbia. Nelle prime lezioni mi viene insegnato come “rimettere” l’aereo dalle posizioni “inusuali” cioè nel caso di perdita di controllo. Successivamente si passa alle manovre coordinate, virate in salita discesa a ratei costanti e infine alla navigazione con le radioassistenze. Il 10 aprile termino i voli col T 33 e rientro a Napoli con un P 308. Il Comandante di Gruppo nel frattempo è stato trasferito e al suo posto c’è il magg. Gori; eravamo amici e sono certo che sarà un buon Comandante di Gruppo, ricco dell’esperienza di Squadriglia. Il corso “Basico” è terminato e ora a Napoli si continua con il corso “Avanzato” per il conseguimento della cosidetta “Carta bianca” (ricorda il colore bianco delle nubi!). Oltre alle lezioni teoriche, volo con un G 59 biposto, un’eccellente macchina di costruzione italiana, non molto inferiore al Mustang. Effettuo anche 4 ore e 30 minuti di volo notturno con il Macchi 416 e un “raid” Napoli-Palermo e viceversa con un bimotore C 45. Termino con due missioni di navigazione strumentale con il Mustang, per un totale di 2 ore e 30 minuti. Il corso si conclude il 3 settembre con l’esame finale.

ARRIVA L’F86 
Dopo il mio rientro da Amendola, mentre sono ancora impegnato al corso di volo strumentale, ci comunicano che l’Aerobrigata riceverà in dotazione il North American F 86 Sabre. L’Aviazione Americana invia al Reparto un gruppo di sette istruttori della “103rd Mobile Training Unit” per istruire sul nuovo velivolo i piloti e i tecnici. Il responsabile del gruppo è il cap. Rip Gray e, grazie alla mia conoscenza dell’inglese, divento il suo referente. Non tutti hanno una buona conoscenza dell’inglese e il mio ruolo di interprete spesso si rivela utile. Con l’arrivo del primo Sabre tutta l’Aerobrigata si trasferirà progressivamente, a partire da metà aprile, a Pratica di Mare al Reparto Sperimentale di Volo comandato dal t.col. Giovanni Franchini. L’Ufficiale responsabile delle Operazioni non autorizza però la mia transizione sull’F 86 perché mi mancano meno di due anni alla pensione e, visti gli elevati costi che l’Amministrazione deve sostenere per un passaggio su tale velivolo, ciò non sarebbe giustificato. Terminato il corso strumentale riprendo a volare col Vampire a Pratica di Mare; sono i soliti voli in formazione di Squadriglia, a volte di Gruppo e in un paio di occasioni anche d’Aerobrigata, questi ultimi al comando del col. Minguzzi. Arriviamo così alla fine di dicembre del 1956.

AL COMANDO NATO 
Dal Ministero giunge la richiesta di inviare al Quartier Generale della NATO di Napoli un pilota che parli bene l’inglese e naturalmente la scelta cade su di me. Ovviamente questa decisione non mi fa piacere anche se, alla festicciola che viene organizzata prima di lasciare l’Aerobrigata, tutti mi dicono che andrò a stare meglio. Dal 1957 sono assegnato all’“Air Warning” (Avvistamento Aereo), in qualità di capoturno. Vengo chiamato dal Generale Vicecomandante e sono sorpreso quando mi trovo davanti al Gen. Bianchi, il Comandante della Scuola di Volo di Lecce. Anche lui non si aspettava di vedermi, mi chiede come mai sono qui. “Sono stato trasferito d’ufficio, avrei preferito continuare a volare ma m’hanno detto che sono troppo vecchio!”, rispondo. Lui sorride “Se proprio desideri tanto volare, quando sei libero dal servizio potresti andare a Capodichino, lì ci sono i Macchi 416 del Reparto Volo dell’Accademia. A Ciampino poi ci sono alcuni aerei a disposizione degli Ufficiali dello Stato Maggiore per i loro spostamenti e tra questi una mezza dozzina di Vampire: è il ‘Reparto Volo S M’ che qualcuno chiama la Squadriglia ‘VIP’. Potresti andare a Ciampino con uno dei Macchi 416 usati della Squadriglia di Capodichino, naturalmente non avrai diritto alla missione! Posso provare a interessarmi al Ministero”, mi dice. Il gen. Bianchi mi saluta, debbo presentarmi al mio diretto superiore, il t.col. Ludovici, che mi illustra il mio nuovo incarico. Mi occuperò dei collegamenti del Centro della Difesa Aerea con lo SHAPE di Parigi, Malta, Atene e Izmir in Turchia e nei casi più gravi anche con gli USA, via Londra. Al Centro giungono tutti i rilevamenti di aerei “sospetti” provenienti da Est avvistati dalle stazioni radar presenti sul suolo italiano. Se un velivolo che entra nello Spazio Aereo nazionale non ha un regolare piano di volo viene fatta decollare una coppia di caccia che deve intercettarlo e identificarlo. Il t.col. Ludovici mi raccomanda di essere molto ligio al mio lavoro, ci sono frequenti controlli di ispettori della NATO. Ogni ora dovrò controllare che le linee telefoniche siano efficienti, saremo sempre in due addetti e i turni saranno di 12 ore. Il personale è di diverse nazionalità: ci sono italiani, americani e turchi.

L’AUTORIZZAZIONE A CONTINUARE A VOLARE 
Il gen. Bianchi mi chiama nel suo ufficio: è arrivata l’autorizzazione a mantenermi allenato sul Vampire, dovrò coordinare i miei voli con il Comando del 311° Gruppo Volo di Pratica di Mare, dove potrò recarmi con un Macchi 416 della 538ª Squadriglia, comandata dal cap. Pappalardo, e messomi a disposizione dal 305° Gruppo Addestramento dell’Accademia, dislocato a Capodichino. Il Macchi 416, utilizzato per l’addestramento basico degli allievi dell’Accademia, è costruito dalla Macchi su licenza della Fokker. Mi presento dal cap. Pappalardo, che mi accoglie cordialmente e mi accompagna nell’hangar dove ci sono alcuni Macchi 416. Dopo un primo volo d’ambientamento ritorno a volare un’altra mezza dozzina di volte con questo aereo “scuola”, rimanendo però intorno a Napoli. Per diversi giorni non c’è un Vampire disponibile per i miei voli a Pratica di Mare e quando finalmente lo è, le condizioni meteo sconsigliano il viaggio. Trascorre così circa una quarantina di giorni prima che possa riprendere a volare con un Vampire e da allora, un paio di volte al mese, mi reco a Pratica di Mare. Nel primo semestre dopo la mia assegnazione alla NATO vengo trattato con una indennità supplementare; questa maggiore entrata mi permette di acquistarmi una FIAT 600 con la quale mi reco al Comando NATO più agevolmente nei giorni in cui sono di servizio.

IN VOLO CON IL VAMPIRE DEL REPARTO VOLO DELLO STATO MAGGIORE DI CIAMPINO 
Dal luglio 1957 non ci sono più Vampire operativi a Pratica di Mare e, se desidero continuare a volare con questo velivolo, debbo recarmi a Ciampino, al Reparto Volo dello Stato Maggiore che ha alcuni Vampire a disposizione per gli Ufficiali del Ministero. Mi alzo presto, dico a Maria che vado a volare a Roma, partirò da Capodichino col Macchi 416 e al mio ritorno passerò su casa nostra, non abbiamo ancora il telefono e così potrò farle sapere che sono arrivato. Lascio la mia FIAT 600 dietro all’hangar e chiedo al Comandante della 538ª Squadriglia quale aereo posso prendere, lui mi augura buon volo e mi dice di portare i suoi saluti al cap. Fava, erano compagni d’Accademia. Vado all’Ufficio Traffico Aereo, compilo il Piano di Volo e passo all’Ufficio Meteo per prendere visione della situazione in rotta e del bollettino di Ciampino. Decollo e dirigo su Roma, passo vicino all’aeroporto di Latina e dopo venti minuti sono a Ciampino, ho impiegato poco più di un’ora. Parcheggio vicino all’hangar dei velivoli VIP, chiedo del cap. Fava che conosco fin dai tempi della guerra d’Etiopia. Gli spiego che sono venuto per volare col Vampire, dovrebbe aver ricevuto l’autorizzazione dal Ministero. Il Capitano è stato assente alcuni giorni e mi invita nel suo ufficio: deve controllare tra la corrispondenza se è giunta la comunicazione. Gli chiedo nel frattempo di usare il suo telefono per chiamare il Controllo del Traffico Aereo e “chiudere” il Piano di Volo con il Macchi 416. Mi chiede da quanto tempo volo col Vampire, mi confida che sono pochi i piloti che volano su questo velivolo e gli fa piacere che lo usi, è un’occasione per controllarlo. Il Capitano chiama il Capo Motorista, gli dice di portar fuori dall’hangar e preparare il Vampire. Mi invita al bar e mi offre una tazza di caffè, dal telefono del bar chiamo il Controllo del Traffico Aereo e comunico i dati per la compilazione del Piano di Volo locale, l’ETD (Expected Time of Departure) è tra 40 minuti. Ci avviamo verso l’aereo, effettuo accuratamente tutti i controlli esterni e interni, metto in moto, chiamo la Torre, sono autorizzato al rullaggio e, prima di entrare in pista, vengo autorizzato al decollo. Salgo a 30.000 piedi e mi dirigo verso il Gran Sasso; è meraviglioso volare nuovamente col Vampire, amo questo aereo. A quota più bassa effettuo qualche figura acrobatica e mi porto all’atterraggio. Vado a salutare il cap. Fava, mi dice che la prossima volta che verrò a Roma in aereo dovrò fare il Piano di Volo per Centocelle, Ciampino sarà chiuso da settembre a tutti i piccoli aerei. Dopo l’atterraggio sarà sufficiente che gli telefoni, mi manderà una macchina a prendermi. Mi accompagna al Macchi 416, il meccanico mette in moto, esegue i controlli e mi consegna l’aereo. Sulla via del ritorno, vicino a Latina, chiamo la Torre e comunico che sono a Ovest del campo, a 1200 metri, con prua verso Napoli. Sono autorizzato all’attraversamento dell’ATZ, non c’è attività di volo sulla base, appena fuori mi dirigo verso Terracina. Su una montagna vicina c’è una grande statua, rappresenta la Vergine col bambino, faccio un giro sopra per osservarla meglio e poi riprendo la rotta. Arrivo a Napoli poco dopo le 14, passo su Posillipo e su casa mia, faccio un 360 gradi e mi dirigo verso l’aeroporto. Un’ora più tardi sono a casa, Maria ha già pranzato, mi siedo a tavola e mangio qualcosa mentre lei esce e va a trovare sua madre; non sta molto bene dalla morte del marito, avvenuta mentre ero a Pratica di Mare per il corso strumentale.

LE MANOVRE NATO 
Due giorni dopo il t.col. Ludovici ci comunica l’inizio delle grandi manovre NATO, cominceranno domani alle cinque, dureranno un’intera settimana e sono previste ispezioni non annunciate di alti Ufficiali. Nella sala Controllo del Centro è sistemata una grande carta geografica sulla quale vengono tracciate le rotte rilevate dei velivoli, comunicate dagli operatori radar. Alle 22.30 giunge a sorpresa un gruppo di Ufficiali della Marina e dell’Aviazione per osservare come operiamo. Alle 8 del mattino, quando termina il nostro turno di servizio, siamo tutti stanchi morti. Dico a Maria di portar fuori i ragazzi di modo che possa dormire un po’, devo riprendere servizio anche questa notte. Dopo colazione torno nuovamente a letto. Maria mette una coperta sulla finestra per ridurre la luce del sole, con il buio dormo meglio. Il settimo giorno, alle 15, le manovre cessano. Sono state giornate impegnative ma alquanto monotone.

DI NUOVO A CIAMPINO,  IL BLOCCO DEL TIMONE 
Alcuni giorni dopo chiamo la Squadriglia, chiedo se è disponibile un Macchi 416 per andare all’aeroporto di Centocelle. Quando arrivo vado a presentarmi al Comando d’Aeroporto, incontro un vecchio amico Sottufficiale ora Capitano, è Rossi, eravamo insieme a Napoli prima della guerra. Telefona al cap. Fava per annunciargli che sono arrivato, fra 20 minuti arriverà un mezzo a prelevarmi. Mentre aspetto chiacchieriamo un po’, mi racconta delle sue vicissitudini dopo l’8 settembre 1943 e io delle mie “Vincenzo, piantala di chiamarmi Capitano, chiamami col mio nome, come ai bei tempi!”, conclude. Arriva la macchina che mi porta a Ciampino, ho con me una bottiglia di whisky per il cap. Fava, l’ho comprata allo spaccio della NATO. Lo incontro nel suo ufficio, il Vampire è pronto, mi chiede di effettuare un accurato controllo di tutti gli impianti perché domani dovrà volarci il Capo di Stato Maggiore, il gen. Remondino. Dopo i controlli rullo per la pista 15, attendo al punto attesa che atterri un quadrimotore Douglas DC4 della LAI, poi mi allineo e decollo. Salgo a 20.000 piedi e mi dirigo verso l’aeroporto di Guidonia. Inizio una serie di test, accelero fino a che l’anemometro indica 300 nodi, in realtà sono almeno 430 nodi, riduco poi alla velocità minima, provo uno stallo, quando esco esercito una leggera pressione sulla pedaliera, si muove appena e quando la rimetto in posizione neutra si blocca definitivamente. Aumento la pressione col piede destro poi col sinistro ma non si sblocca. Chiamo la torre e dichiaro l’avaria e chiedo il rientro: mi viene data la priorità all’atterraggio, vengo fatto passare davanti a un aereo di linea che viene messo in “holding”. Per precauzione un veicolo dei mezzi di soccorso viene posizionato sulla taxiway. Dopo l’atterraggio uno specialista sale a bordo e cerca inutilmente di sbloccare la pedaliera, controlla i cavi dei comandi ma non riesce a trovare la causa del blocco. Si siede allora nel cockpit, poi se ne esce, apre alcuni pannelli e dopo aver armeggiato un po’ dice di aver trovato la causa: una vite di fissaggio degli strumenti si era staccata ed è finita sotto il pavimento, bloccando la barra del timone. Il cap. Fava si dice dispiaciuto per l’inconveniente, ma tutto sommato, se fosse accaduto al Capo di Stato Maggiore avrebbe fatto una figuraccia. Riporto l’avaria sul Quaderno Tecnico del velivolo e andiamo insieme al bar del Circolo. Infine il Capitano chiama un automezzo militare per accompagnarmi a Centocelle. Chiedo al conducente di fermarsi ad una rivendita di vini dove acquisto un fiasco di Frascati. In aeroporto il cap. Rossi mi sta aspettando, mi ha fatto preparare il piano di volo e controllare l’aereo. Lo saluto, salgo sull’aereo e decollo. Sulla via del ritorno sorvolo la statua della Vergine, la saluto con un passaggio basso e proseguo per Capodichino. Atterro per pista 24, rullo fino all’hangar, con l’aiuto del meccanico che si posiziona davanti al muso, entro nell’hangar e poi spengo il motore. Vado all’Ufficio Traffico, chiudo il Piano di Volo, prendo la mia FIAT 600 e me ne torno a casa. Arrivo verso le 14. Maria mi chiede com’è andata a Roma. “Bene”, rispondo, “Il tempo era buono su tutta l’Italia”. Tiro fuori la bottiglia di Frascati: “L’ho presa per te, so che ti piace, ricordo che me lo dicesti quando eravamo in luna di miele”. Dany torna a casa dalla scuola e mangiamo tutti insieme, quando finiamo Maria mi chiede se domani riprendo servizio. “No”, rispondo, “Voglio stare con te tutto il giorno”, e lei “Perché non facciamo una gita a Caserta, visitiamo il palazzo reale e le famose fontane?”. Rispondo di sì e la guardo in silenzio, lei mi chiede se ha qualcosa fuori posto. “No, anzi sei perfetta e non sono mai stanco di guardarti. A volte penso quanto sono stato fortunato a conoscerti”. Mi sorride e mi manda un bacio. 
Qualche giorno dopo il mio ritorno in servizio il Comandante della nostra squadra viene trasferito e sostituito da un altro Capitano. È previsto anche l’arrivo di un nuovo Tenente e di alcuni Ufficiali di altri Paesi NATO che si aggiungeranno alla nostra squadra.

LA SEDE DELLA PATTUGLIA ACROBATICA A RIVOLTO 
Il t.col. Ludovici mi chiede se desidero andare con lui a Roma col Macchi 416, deve recarsi all’EUR, al Ministero dell’Aviazione Civile, per rinnovare la licenza di pilota civile all’Ufficio Brevetti di Civilavia. Accetto volentieri, avevo appena richiesto un aereo per recarmi a Centocelle. Gli dico che sarebbe meglio atterrare all’aeroporto di Pratica di Mare, è più vicino, potrei approfittarne anch’io per ritirare, invece di farmelo spedire, il brevetto di pilota civile di secondo grado che ho appena conseguito. Compero un paio di bottiglie di whisky allo spaccio riservato ai soli dipendenti NATO, desidero regalarle a Liverani che è ancora a Pratica di Mare per il passaggio sull’F86. Il giorno dopo prendiamo il Macchi 416 e decolliamo. Quando arriviamo chiedo subito di Liverani: è felice di vedermi, stiamo un po’ insieme, gli racconto che ho ottenuto l’autorizzazione a continuare a volare con il Vampire. Mi dice che spera di essere trasferito a Rivolto, prossima sede della Pattuglia Acrobatica Nazionale. Le regole sono cambiate: la Pattuglia Acrobatica, che prima veniva scelta a rotazione fra quelle degli Stormi Caccia, ora sarà formata dai migliori piloti selezionati fra tutti i Reparti. Gli auguro di essere ammesso alla Pattuglia, poi mi ricordo delle due bottiglie per lui che sono sull’aereo, vado a prenderle e gliele consegno. Il t.col. Ludovici nel frattempo si è fatto assegnare dall’Ufficio Operazioni un mezzo militare che ci accompagni all’EUR. Ci sbrighiamo in meno di un’ora e torniamo alla base in taxi. È ora di pranzo. Il Colonnello va alla Mensa Ufficiali e io a quella dei Sottufficiali. Incontro molti amici, sono lieti di vedermi e mi offrono da bere al bar, non posso accettare perché debbo tornare subito a Napoli: il tempo si sta mettendo al brutto e ci affrettiamo a partire, rischiamo di rimanere qui per la notte. Vado a prendere visione del bollettino meteo di Capodichino e della situazione in rotta: a Napoli il tempo è buono ma ci sono nubi basse e piove verso sud fino a Terracina. Quando decolliamo comincia a piovere, la base delle nubi è a poco più di 1500 piedi dal suolo. Atterriamo a Napoli poco dopo le 15. Do un passaggio al Colonnello fino alla stazione dove lui prende la metropolitana per andare a casa.

L’ULTIMO ANNO DI SERVIZIO 
Quando rientro in servizio incontro i nostri nuovi Ufficiali, il cap. Negri e il ten. Frigo, un mio allievo di Lecce che è stato anche al 4° Stormo prima che venisse trasferito a Roma. Il capitano Negri è disponibile con il personale e si lavora bene con lui. Il 1957 trascorre veloce. Siamo nel 1958 e si avvicina il periodo delle manovre. Una delle ispezioni di routine viene effettuata dal col. Martino dell’Ufficio Difesa Aerea. Il Colonnello Martino è stato il mio Comandante di Squadriglia a Treviso, prima del cap. Zannier. Quando mi vede mi stringe la mano, è lieto di rivedermi, mi chiede come mi trovo qui. Parliamo del periodo trascorso insieme, poi mi confida “Quando eri alla Scuola Caccia Notturna a Treviso ti ho proposto per il corso Ufficiali ma il Ministero ha dato parere sfavorevole. Avevo ricevuto anche l’ordine di farti volare con poco carburante a bordo per evitare che potessi fuggire in Svizzera. La tua posizione nei confronti degli americani era comprensibile. Del resto, poco dopo gli italiani si sono ritrovati nella stessa situazione, l’Italia si è divisa in due e ci siamo trovati i nostri compagni schierati dall’altra parte. Ho comunque sempre avuto fiducia nella tua lealtà. Ti ho mandato più volte alla Macchi a ritirare i nuovi velivoli e le occasioni non ti sono mancate, avresti potuto disertare e io avere delle grosse grane, ma sei sempre ritornato”. Rimango alquanto amareggiato nell’apprendere questi dettagli che mi erano stati nascosti. Gli racconto delle mie avventure dopo la resa dell’8 settembre 1943: del campo di concentramento e di tutte le difficoltà incontrate. Vuol conoscere i membri della squadra, scambia qualche parola con ognuno di loro e si congratula con il cap. Negri. Non riesco a rassegnarmi all’idea che qualcuno al Ministero non si fidasse di me. La sera, quando torno a casa, mi confido con Maria, le dico che ci sono rimasto male. Se avessi sospettato qualcosa del genere sarei veramente andato in Svizzera.

UN ATTERRAGGIO SUI CERCHIONI 
Nei giorni successivi piove moltissimo, sono libero dal servizio ma non ci sono le condizioni per andare a volare a Roma. Passo un’altra visita medica all’IML: sono idoneo al volo. Il col. Scala sta per essere trasferito alla NATO, e così pure il gen. Bianchi che è sostituito dal gen. Porta. Il ten. Frigo passa a un’Aerobrigata in Italia del Nord e più tardi si congederà. Nei primi mesi del 1958 le condizioni meteo sono quasi sempre buone. Mi reco a Roma per le ultime ore di volo sul Vampire. Il cap. Fava è lieto di vedermi e viene a prendermi ogni qualvolta lo avviso del mio arrivo a Centocelle. Un giorno mi chiede se non sono stanco di andare avanti e indietro da Napoli solo per fare qualche ora di volo sul jet, gli rispondo che amo profondamente solo due cose: la mia famiglia e il volo. “Come farai quando, tra non molto, la seconda ti mancherà?”, mi chiede, e io “Mi dedicherò solo alla famiglia e, quando il Signore mi avrà fatto la grazia di conoscere i miei nipotini, potrò andare a raggiungere i tanti colleghi che hanno avuto la sventura di precedermi”. Il cap. Fava sorride e mi indica l’aereo fermo al parcheggio. Dopo il decollo salgo a 30.000 piedi e dirigo verso Firenze. Il panorama è splendido, posso ammirare le Alpi in tutta la loro bellezza, sotto di me, vicino a terra ci sono degli strati bassi, una nebbia diffusa. Poco oltre Firenze inverto la rotta e metto la prua verso di Ciampino. Al Controllo d’Avvicinamento chiedo un “diretto” per il campo, sono autorizzato, debbo riportare in lungo finale. Appena tocco terra sento un colpo e l’aereo “tira” a sinistra, è scoppiato il pneumatico del carrello sinistro, spingo la pedaliera a destra per correggere l’imbardata e contemporaneamente freno per decelerare rapidamente. Dopo alcuni secondi un altro botto, anche il pneumatico di destra esplode. L’aereo sussulta sensibilmente ma riesco a controllarlo senza difficoltà. Quando sono quasi fermo, sento in cuffia il commento in inglese di un aereo di linea “Accidenti! Avete visto che atterraggio?”. Non posso fare a meno di rispondere “Vorrei vedere te a correre sui cerchioni!”. Si scusa: “Sorry Sir!”, e io “Non importa amico!”. Spengo il motore e attendo i mezzi di soccorso, mi trainano fuori dalla pista per sostituire i pneumatici. Arriva anche il cap. Fava con un automezzo militare, mi dice di salire, provvederanno gli specialisti a sostituire i pneumatici e riportare in hangar l’aereo. Il Capitano redige un breve rapporto e me lo fa firmare, prendiamo una tazza di caffè, chiama una macchina di servizio e mi accompagna a Centocelle. Desidera salutare Rossi e acquistare qualcosa prima di tornare a casa. Sulla via di ritorno, come di consueto passo sopra la statua della Vergine col bambino di Terracina e mi faccio il segno della croce. 
Mi giunge la notizia che Meille, il Capitano che ho conosciuto prima a Gorizia al 4° Stormo e poi a Castiglione del Lago alla 371ª Squadriglia, è deceduto il 13 giugno a Ronchi dei Legionari. Stava provando un P 55 “Tornado” modificato dalla Meteor che avrebbe dovuto partecipare al “Giro Aereo di Sicilia”. Insieme a lui c’era Furio Lauri, uscito dall’incidente gravemente ferito.

CONGEDATO! 
Arriviamo a novembre. Mancano due mesi al mio congedo, mi rivolgo all’Ufficio del Personale civile della NATO e chiedo se hanno bisogno di me quando avrò lasciato l’Aeronautica. Mi rispondono che sarà difficile, al momento prendono solo del personale americano e mi consigliano di rivolgermi all’US Naval Support Activity. Quando mi presento vengo accompagnato dall’Ufficiale che si occupa dei trasporti, si chiama Floyd, mi chiede se ho già lavorato per le forze armate americane. Gli racconto le mie esperienze in questo settore negli anni difficili del dopoguerra. 
Pochi giorni dopo ricevo una comunicazione dal Ministero, dice che sarò congedato il 12 gennaio 1959 per raggiunti limiti d’età. A 46 anni sono troppo vecchio per poter continuare a volare! Il 12 vado a Capodichino e mi presento al Comando, sono ricevuto dall’Ufficiale Comandante che cerca di convincermi a rimanere con mansioni di ufficio: rifiuto. L’Ufficiale aggiunge qualche bella parola, lo saluto, mi consegna il foglio di congedo. Ritorno a casa, tolgo l’uniforme, la stendo accuratamente sul letto, mi siedo e la fisso. Non so quanto tempo rimango a guardarla, immerso nei ricordi, con un groppo alla gola. Torno indietro negli anni, nella mia mente scorrono come in una moviola le immagini del mio viaggio verso l’Italia, della Scuola di Grottaglie, degli anni più belli trascorsi a Gorizia, dei miei compagni di Squadriglia, di Ada, dell’Africa e della Spagna, della guerra, della prigionia, dei difficili anni del dopoguerra e infine della gioia ritrovata riprendendo a volare con degli aerei meravigliosi. Una mano mi scuote la spalla e mi fa tornare alla realtà, è Maria, dice che mi ha chiamato ma non l’ho sentita, mi guarda, asciuga una lacrima sulla mia guancia e mi dà un bacio. Le faccio vedere il foglio di congedo che stringo ancora in mano: “Sai che cosa significa per me questo pezzo di carta”. Mi guarda, non dice nulla, e io “Significa che una parte di me, della mia vita se n’è andata via per sempre. Ho vissuto per il volo e l’ho amato quanto amo te e i ragazzi”. Lei mi prende per il braccio: “Va bene, ma ora vieni a mangiare, la pasta si raffredda”. Mi alzo per seguire Maria, mi fermo davanti alla mia foto in uniforme appesa alla parete della camera da letto, mi metto sull’attenti, batto i tacchi e faccio il saluto militare: “Maresciallo pilota di prima classe Vincent Joseph Patriarca: congedato!”. 
 


Dopo il congedo Patriarca trova il modo di continuare a lavorare e soprattutto a volare. Grazie all’esperienza acquisita nel dopoguerra con gli Alleati, alla sua grande disponibilità e simpatia, trova impiego presso la “US Naval Support Activity” come responsabile del parco autoveicoli. È un’occasione per rimanere in contatto con i piloti dell’US Navy e US Air Force della NATO. Vola con il ten. Earl Gale all’Aeroclub della Marina Americana sul T 34, un Mustang di dimensioni ridotte, o all’Aeroclub di Capodichino dove aiuta l’istruttore ed ex collega Polli sui Partenavia P 57 e su un piccolo Fokker S II. Ecco come lo ricorda il ten. Earl Gale: “The T-34 was one of the first planes I flew which was rated for aerobatic maneuvers, and Vincenzo taught me all of his routines and tricks. I can recall his voice in the headphones now, ‘…just a light touch, and a bit of pressure here, and there…. what speed is this thing going to stall at … Oh! Now, feed in some rudder, and come off the flaps. When she recovers, straighten her out, and we go! ”